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    La grazia della fede /3. La fede e i suoi sviluppi


    Roberto Carelli

    (NPG 2016-08-41)



    LA FEDE E LE OPERE

    È quasi un luogo comune dire che la fede si accresce donandola, ma è certo una grande verità: «l’atteggiamento distintivo dei cristiani è proprio l’amore fondato sulla fede e da essa plasmato» (DC 7). Non esiste una fede che sia puro sentimento privato, che non si faccia testimonianza e servizio in parole e in opere: il cristiano è chiamato non solo a «custodire la fede e vivere di essa, ma anche a professarla, darne franca testimonianza e diffonderla» (CCC 1816). Credere non è soltanto partecipare alla sapienza di Dio, neanche solo confidare in Lui, ma è vivere e amare del suo stesso Amore. Dio non si limita infatti a rivelarci il suo amore, ma vuole anche attirarci nel suo amore, e per questo la fede «diventa un nuovo criterio di intelligenza e di azione che cambia tutta la vita dell’uomo: pensieri e affetti, mentalità e condotte» (Porta fidei 6). Nella fede Dio ci porta ad amare come ama Lui: «l’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri» (EG 88).
    I primi cristiani lo avevano ben presente, e ne danno testimonianza perfino nei saluti delle lettere che si scambiavano. Nell’indirizzo ai Tessalonicesi Paolo fa memoria «dell’impegno nella fede, dell’operosità nella carità e della costante speranza nel Signore» (1 Ts 1,3), e in un’altra lettera ringrazia Dio per la loro «fede che cresce rigogliosamente e la carità vicendevole che abbonda» (2 Ts 1,3). In uno dei suoi messaggi, Benedetto XVI ha messo mirabilmente in evidenza sia la dimensione operativa della fede, sia la radice credente delle opere: «la fede è conoscere la verità e aderirvi; la carità è camminare nella verità. Con la fede si entra nell’amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia. La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica»[1].
    La fede è talmente inseparabile dalle altre virtù teologali che quasi si compenetrano: la fede accende uno sguardo di speranza e genera le opere di carità. Insomma, chi crede spera e ama: ha gratitudine per le proprie radici, guarda con fiducia al futuro, agisce con coraggio nel presente. L’unità delle virtù teologali è così grande, che la speranza cristiana non si riduce a semplice attesa, ma è “attesa certa”: «oggi sarai con me in paradiso», assicura Gesù al buon ladrone (Lc 23,43), e la fede, prima di generare opere, è essa stessa la prima opera: «questa è l’opera di Dio, credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29). Ad ogni modo, «se non si accompagna alla speranza e all’amore, la fede non unisce pienamente il fedele a Cristo» (CCC 1814).
    Il rapporto fra la fede e le opere è sempre stato oggetto di grandi dibattiti, dai tempi di Paolo a quelli di Lutero. Di fronte ai Giudei, che cercavano la salvezza nell’osservanza della Legge, Paolo dovette chiarire che non la legge ci salva, ma la fede, non più gli antichi riti, ma l’amore effuso nei sacramenti: «in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Similmente, di fronte alle obiezioni di Lutero, che accusava la Chiesa di oscurare i meriti di Cristo ritenendo meritorie le opere buone, il Concilio di Trento dovette chiarire che è certo la grazia di Cristo a meritare la salvezza, e l’uomo viene giustificato non dalle opere ma dalla fede, e tuttavia le opere non possono essere squalificate: esse rappresentano il frutto della grazia ed esprimono l’autenticità della fede. Per questo san Giacomo, pensando alla fede e al sacrificio di Abramo, afferma perentoriamente: «vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede?» (Gc 2,24).
    Nella Scrittura gli inviti a non separare la fede e l’amore, il credere e l’operare, sono più che abbondanti. Gesù è chiarissimo: non si può conoscere senza praticare, è ipocrita dire e non fare, non è retto ascoltare senza praticare non serve invocare il Signore e non fare la sua volontà: «non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Inequivocabile è anche san Giacomo: una fede che non abbia le opere è insostenibile, perché la fede suscita le opere e le opere manifestano la fede (Gc 2,14-18); perciò la fede, «se non ha le opere, è morta in se stessa» (Gc 2,17), e le opere, se non nascono dalla fede, sono inefficaci o hanno efficacia molto limitata. Lo conferma la Lettera agli Ebrei, laddove dice che se la fede senza le opere è morta, e che le opere senza la fede sono «opere morte» (Eb 6,1), tanto che i meriti del sangue di Cristo consistono proprio nell’averci «purificati dalle opere morte per servire il Dio vivente» (9,14). Forse però il passo biblico che meglio riassume la correlazione fra fede e opere si trova nella Lettera agli Efesini: da una parte ricorda che «per grazia siamo salvati mediante la fede; e ciò non viene da noi, ma è dono di Dio; né dalle opere, perché nessuno possa vantarsene»; d’altra parte aggiunge subito che «siamo creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (Ef 2,8-10).
    I rapporti fra fede e opere sono stati mirabilmente approfonditi dai teologi medioevali e continuamente ripresi dal magistero ecclesiale. È utile anzitutto tener presente, anche se nel senso comune può sembrare il contrario, che «le virtù umane si radicano nelle virtù teologali», in quanto orientano le facoltà umane alla loro destinazione soprannaturale: come è noto in teologia, l’alleanza precede logicamente la creazione come sua destinazione. Infatti, a cosa serve una vita virtuosa se non ci rende simili a Dio? a che giova essere forti e temperanti, se non in vista dell’amore? e che senso avrebbero la prudenza e il senso della giustizia se ponessero un freno a quella giustizia più grande che si compie nella misericordia (CCC 1812-1813)? Si comprendono bene in questo senso gli inviti di Benedetto XVI nella sua prima enciclica a non ridurre la carità alla solidarietà: «la carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale… la carità è sempre più che semplice attività… i cristiani non devono ispirarsi alle ideologie del miglioramento del mondo, ma farsi guidare dalla fede che opera nell'amore» (DC 25.34.33).
    In secondo luogo, la Chiesa insegna che fra la fede e la carità vi è un rapporto dinamico: è vero che «la carità è la forma della fede» (San Tommaso), ma è anche vero che «l’amore cristiano trova fondamento e forma nella fede» (Benedetto XVI). Nel modo più sintetico – spiega sempre Benedetto XVI – si può parlare di «priorità della fede e primato della carità», nel senso che l’amore è il contenuto profondo della fede, ma è la fede a dire la verità dell’amore e ad attingerlo realmente: «la fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio» (Porta fidei 14), e «come la fede si manifesta nella carità, così la carità senza la fede sarebbe filantropia»[2]. Positivamente, Benedetto XVI sintetizza il rapporto fede-carità con una splendida analogia sacramentale: «il Battesimo (sacramentum fidei) precede l’Eucaristia (sacramentum caritatis) ma è orientato ad essa come pienezza del cammino cristiano. In modo analogo, la fede precede la carità, ma si rivela genuina solo se è coronata da essa»[3].
    Queste precisazioni sono molto importanti per la vita cristiana, perché se «è limitante l’atteggiamento di chi mette in modo così forte l’accento sulla priorità e la decisività della fede da sottovalutare e quasi disprezzare le concrete opere della carità e ridurre questa a generico umanitarismo», d’altra parte «è altrettanto limitante sostenere un’esagerata supremazia della carità e della sua operosità, pensando che le opere sostituiscano la fede»[4]. Varranno sempre le due cose: le opere di carità sono quelle mosse e guidate dalla fede, la massima opera di carità è annunciare integralmente il Vangelo per portare alla fede.
    Lo spunto pratico che ne possiamo ricavare prende le mosse dalla considerazione che, a ben vedere, l’unità della fede e delle opere si fonda nell’essere stesso di Dio, perfetta unità di amore e di vita. E allora anche la vita di Dio, come la nostra, deve essere armonicamente lavoro e riposo, azione e contemplazione: dove manchi questa armonia la vita cristiana resta sbilanciata o in senso attivistico o in senso intimistico, o in senso secolare o in senso sacrale. Tutte forme di amore immaturo. Si è dibattuto a lungo, sia nei libri di filosofia che in quelli di spiritualità, sulla tensione fra contemplazione e azione. Ma se si legge con occhi semplici la Bibbia, la dottrina della fede è chiara: l’unità dei due poli ci è rivelata nei sei giorni della creazione e nel riposo del settimo giorno; la si vede nell’esempio di Gesù, che passa la notte in preghiera e di giorno percorre i villaggi per compiere le opere del Regno; la si apprende nelle parole del Signore, che dice: «il Padre mio opera e anch’io opero», e dice agli apostoli sia «ecco io vi mando» sia «rimanete in me»; la si ritrova nel cuore mite e umile, ma insieme coraggioso e risoluto di Gesù, che affronta virilmente la passione e sta raccolto in preghiera anche sulla Calvario; trova conferma nella vita dei santi e delle sante, che operano con sollecitudine conservando una pace imperturbabile.
    Due in questo senso i suggerimenti pratici che ci aiutino a trasformare l’argento degli affetti umani nell’oro della carità divina:

    1. La maturazione di fede porta a lavorare per Cristo, con Cristo e in Cristo. Il cristiano dovrebbe portarsi al di là dell’alternativa fede-opere attraverso attenzioni molto concrete, la prima delle quali è cercare di piacere a Dio e non agli uomini: altrimenti si è troppo attenti al piacere, al compiacere e al non dispiacere, all’approvazione, al riconoscimento e alla lode degli altri, venendo così a mancare quella libertà interiore che permette di operare evangelicamente. A seguire, tutte quelle indicazioni che la sapienza cristiana ha sperimentato e messo a punto lungo i secoli, e che permettono di mantenersi docili allo Spirito e di rivestire i sentimenti di Cristo: si cercherà allora di operare custodendo il cuore alla presenza del Signore, e di operare con diligenza, cioè con cura e amore, senza indugi e senza affanni, senza presunzioni e senza scoraggiamenti, custodendo in ogni circostanza quella pace del cuore che viene solo – secondo la testimonianza efficace dei santi – dalla fiducia illimitata in Dio e nella sua Provvidenza;


    2. Si potrebbe anche dire così: il credente è colui che punta a fare di ogni sua azione un atto di carità, cioè un atto che sgorga dall’amore di Dio e testimonia l’amore di Dio, che sa incontrare Gesù negli altri e gli altri in Gesù. Questo è l’unico modo per superare l’alternativa fra un’azione storica secolarista, dove Dio, la sua potenza e la sua provvidenza, non hanno spazio, e un’azione storica spiritualista, dove l’umano, la creaturalità dell’uomo e tutti i suoi dinamismi, sono sostanzialmente svalutati. Questo è anche l’unico modo in cui le azioni e le imprese umane possono avere efficacia positiva e duratura, per la vita terrena e in vista della vita eterna.


    LA FEDE E L'AMORE

    Abbiamo già visto come il primato dell’amore non si afferma senza la priorità della fede: l’amore è la forma della fede, ma la fede dice la verità dell’amore. Verità e carità sono inseparabili: secondo l’insegnamento di San Paolo, la verità si attesta nella carità (veritas in caritate) e la carità si esercita nella verità (veritas in caritate): occorre riconoscere che «solo nella verità la carità risplende», e che «senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo» (Caritas in veritate, 3).
    Separato dalla fede, l’amore diventa qualunque cosa, il vocabolo più usato e abusato, il nome di Dio e l’idolo più grande, il massimo desiderio dell’uomo e la sua massima frustrazione. Senza la fede, l’amore fa una brutta fine, «diventa un guscio vuoto da riempire arbitrariamente» (Caritas in veritate, 3). C.S. Lewis ha giustamente osservato che «quando l’amore non è più Dio, o quando l’amore è elevato a dio, si trasforma in un demonio»[5]! Quanto questo accada ogni giorno, lo sa solo Dio, ma un poco lo sappiamo anche noi. Fuori dal vincolo della fede, il mistero dell’amore si capovolge in un presupposto pacifico di cui tutti si dischiarano competenti: l’amore cessa allora di essere la sintesi della legge, e diventa la legittimazione di ogni comportamento fuorilegge. E dire che Gesù ha fatto dell’amore il comandamento supremo – il “suo” comandamento! – per due buonissime ragioni: che non c’è niente di più necessario dell’amore, e quindi fallire nell’amore è fallire nella vita; e che non c’è più niente di libero dell’amore, e infatti dove non c’è vera libertà non occorrono leggi: non perché la legge non si addica all’amore, ma perché l’amore realizza il senso della legge!
    Fuori dalla fede, l’amore diventa la più grande eresia: assicura una parte di verità, mentre altre parti vengono dimenticate. Fatta eccezione di coloro, antichi e moderni, che negano l’esistenza dell’amore come fenomeno spirituale, propriamente umano, e quelli che lo naturalizzano riconducendolo a coordinate bio-psicologiche studiabili e prevedibili come tutti i fenomeni naturali, nella storia del pensiero si trovano le interpretazioni più disparate. Per alcuni è istante ed eternità, per altri è durata e fedeltà. Molti lo inquadrano nel sistema dei bisogni, altri al contrario lo riconoscono soltanto nell’ottica dell’amore puro, del disinteresse. Vi è chi lo pensa come desiderio, aspirazione, mancanza, struggimento, e chi lo pensa piuttosto come possesso, pienezza, riposo, godimento. La gente inclina oggi a pensare l’amore come forza irrazionale, mentre i cristiani lo vedono come ragione di ogni cosa. Alcuni lo associano all’impegno e al sacrificio, altri lo ritengono autentico solo se spontaneo. Si arriva persino a ritenerlo un fenomeno contraddittorio, incapace di uscire dall’alternativa dell’affermazione e della negazione di sé, dell’egoismo mascherato da una parte, e di un’inevitabile alienazione dall’altra.
    In tema di amore vi sono idee e sensibilità diverse anche all’interno della fede. Il dibattito di sempre è tra chi vede una frattura insanabile fra amore umano (eros) e amore divino (agape), e chi ne coglie piuttosto la continuità. Nel primo caso, prevalente in ottica evangelica, eros e agape si oppongono come carne e spirito, come concupiscenza e benevolenza, amore di desiderio e amore di pienezza, amore ascendente e discendente, spiritualizzazione dell’amore e incarnazione dell’amore. Nel secondo caso, prevalente in ottica cattolica, l’amore umano proviene dall’amore divino e ad esso si orienta. In altre parole, eros e agape sono inconfondibili e inseparabili: l’eros è destinato a trascendersi in agape, l’agape è la verità trascendente dell’eros. In questo senso, come ha precisato Benedetto XVI nella sua prima enciclica, «eros e agape non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro», perché in fondo «l’amore è un’unica realtà, seppur con diverse dimensioni» (DC 7.8). Ad ogni modo, se si dimentica la reciproca appartenenza, risulta oggi molto difficile non identificare l’eros con l’erotismo e l’agape col misticismo, ma allora l’estasi dell’eros smette di essere ascesa e diventa caduta e degrado, e l’estasi di agape, dimenticando le forme concrete dell’amore, non riesce più ad essere esodo, elevazione, maturazione effettiva del cuore (Cfr. DC 6.). Il Papa suggeriva addirittura, in maniera davvero ardita, che non solo l’eros è mosso dall’agape all’agape, ma anche l’agape è intimamente attraversata dall’eros, nel senso che la perfezione dell’amore di Dio non è senza passione, e la sua pienezza non è senza desiderio: il suo amore «può essere qualificato senz’altro come eros, e tuttavia è anche e totalmente agape» (DC 9).
    Fuori dal vincolo della fede, l’amore vive oggi due minacce inedite. Esse sono il frutto amaro di un lungo processo storico, che dal medioevo ha progressivamente sostituito le figure dell’amore cristiano, che è tanto spirituale quanto incarnato, con le figure dell’amore romantico, che è erotico ma non sessuale, passionale ma non sponsale. Così l’amore, separato dalle forme concrete in cui accade, si sviluppa e matura, perde tutte le sue dimensioni e proporzioni. Il fenomeno più vistoso è la riduzione sentimentale, erotica ed economica che l’amore ha subìto nel passaggio dall’epoca moderna a quella postmoderna: la consegna dell’amore alle variazioni dell’emozione, ai meccanismi dell’istinto e alla logica dello scambio privano l’amore di quegli aspetti di fedeltà, libertà e gratuità che lo costituiscono. L’altro fenomeno, evidente nell’ottica della fede, è il capovolgimento dell’unico e triplice comandamento di Dio, che chiede di amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi. Vi è cioè un ordine dell’amore che non può essere sovvertito impunemente: amore di Dio, amore del prossimo, amore di sé. Cosa succede quando il primato di Dio viene negato o emarginato, è sotto gli occhi di tutti: l’irreligione scatena l’egoismo e produce il narcisismo. Sì, perché quando la cura di sé prende il posto del culto di Dio e dell’amore del prossimo, non stupisce che i giovani accusino identità deboli, senso di inadeguatezza, scarsa autostima, poca forza d’animo nel prendere decisioni di vita e nell’affrontare i conflitti. La sapienza di Dio parla chiaro: primo, non si possono amare le creature come si ama il Creatore, perché questo sarebbe idolatrico, illusorio e schiacciante; secondo: amare è propriamente dare la vita ad altri, non ripiegarsi su di sé; terzo, c’è una misura nel rapporto fra amore di sé e dell’altro, perché altrimenti non si evitano le opposte tentazioni del dominio e della dipendenza, della manipolazione e del risentimento.
    Che cos’è dunque l’amore secondo la fede? Ecco i tratti irrinunciabili.
    L’amore è dono e comandamento. Segnati dal limite e dal peccato, noi non siamo nella condizione di definire l’amore e di stabilirne le esigenze. «Dio è Amore»: possiamo averne una certa precomprensione, ma è Lui a dire cos’è l’amore, è Lui che ci rende capaci di amare, è Lui che ci giudicherà sull’amore!
    L’amore è gratuità, reciprocità e fecondità. Lo è sempre e ovunque, in cielo e sulla terra. Infatti, poiché l’uomo è creato ad immagine di Dio, «al Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Esso diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo, e viceversa, il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano» (DC 11). Non si può perciò ridurre l’amore ad attaccamento o sentimento, né si può conoscere l’amore separandolo dalle prime forme della prossimità: l’amore tra sposo e sposa, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle. Gli affetti familiari sono legami sacri non meno che naturali: si fondano nell’amore di Dio e all’amore di Dio rimandano!
    L’amore è dono di sé e accoglienza dell’altro. Esso è scambievole, ma non risponde alla logica dello scambio: diventa reciproco solo se osa essere gratuito, si fa bilaterale solo se ha il coraggio di essere unilaterale: «non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici»!
    L’amore è affetto e servizio. L’amore va al di là dei diritti e dei doveri, include e supera la giustizia, ha il suo apice nella misericordia. Se l’amore non si fa servizio, prevale l’amor proprio e il limite dell’altro, le proprie ragioni e i torti altrui. Nell’Ultima Cena, Gesù ci ha chiamato amici e si è fatto servo, ci ha mostrato che nell’amore il potere si manifesta nel servizio!
    L’amore richiede umiltà e sacrificio. Chi è pieno di sé non fa spazio all’altro, e chi vuole solo star bene non sa farsi carico di altri. Senza umiltà, i doni di Dio non trovano dimora, e senza disponibilità al sacrificio la testimonianza del Vangelo non ha efficacia. Perciò, dice Gesù, «chi mi vuole seguire, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la propria croce e mi segua» (Lc 9,23)!
    L’amore è povero, casto e obbediente. Così era l’amore di Gesù e di Maria. I consigli evangelici non si aggiungono all’amore, gli appartengono, lo qualificano: non si può amare dove c’è avidità nel rapporto con le cose, cupidigia negli affetti, superbia nell’esercizio della libertà!
    L’amore è gioia e pace, che non a caso sono i primi due frutti dello Spirito, il quale è l’Amore di Dio in persona, il riflesso della Sua presenza nel cuore e sul volto dell’uomo. Gioia e pace sono il frutto e il termometro dell’amore: dove mancano o scarseggiano, c’è poco amore, o è molto imperfetto; dove crescono e abbondano, lì l’amore di Dio diventa perfetto!

    LA FEDE E LA VISIONE

    La fede che cammina nella speranza e opera nella carità è il vero miracolo che unisce la terra e il cielo. Credere è guardare il visibile alla luce dell’invisibile, attraversare la storia nella prospettiva dell’eternità, guardare le cose del mondo dal punto di vista di Dio, nominare le realtà della terra nella luce della Parola, vedere la vitalità e la fecondità di Dio che opera nella debolezza mortale delle creature. Il credente ne fa esperienza fin da ora, perché la vita di grazia non solo è orientata alla gloria, ma è già inizio della gloria. Grazia e gloria si rapportano come il “già” e il “non ancora”, come la caparra e il possesso, come l’anticipo e il compimento, come l’inizio e la pienezza, come l’aurora e il pieno giorno, come il tempo del cammino, della lotta, e il tempo del riposo, della vittoria. Esemplare è il modo di esprimersi di Giovanni: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,1-2).
    Ecco dunque l’ultima verità che vogliamo mettere in evidenza a proposito della fede: la vita terrena è fatta per la vita eterna, la fede per la visione. Qui viene in luce il carattere paradossale e sovversivo della fede, quel capovolgimento di mentalità che si attua in chi crede e per il quale la fede è anzitutto opera di conversione. Chi crede ha infatti le proprie radici e il proprio baricentro interiore in cielo, non sulla terra: «se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,1-2). D’altra parte chi crede ha i piedi per terra proprio perché ha il cuore in cielo, e riesce ad essere cittadino del mondo proprio perché ha una dimora celeste: «la nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3,20).
    Coerentemente, va chiarito che la fede nella vita eterna non distoglie dall’impegno storico, ma infonde un sano distacco dalle cose del mondo e un grande coraggio in tutte le difficoltà: il credente è convinto che «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,35), perché ha la certezza, garantita dalla Pasqua del Signore, che «se questa tenda che è la nostra dimora terrena viene disfatta, abbiamo da Dio un edificio, una casa non fatta da mano d'uomo, eterna, nei cieli» (2Cor 5,1). Davvero, lo sguardo rivolto in cielo non fa perdere aderenza alla terra, ma rende il credente molto concreto in tutte le sue valutazioni: «che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima?» (Mc 8,36-37). È paradossale, ma è così: senza la vita eterna si perde anche la vita terrena, perché essa non riuscirà a superare la barriera della morte, né avrà abbastanza motivi per affrontare le prove della vita; al contrario, chi crede otterrà la vita eterna, e insieme ad essa sperimenterà cento volte tanto i beni della terra (cf. Mc 10,30).
    In definitiva, la fede nella vita eterna libera dalle paure e riempie il cuore di gioia: per questo il Signore ammonisce di «non temere coloro che uccidono il corpo e dopo non possono far più nulla», ma «colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna» (Lc 12,4-5), e invita i suoi discepoli a rallegrarsi non per i successi terreni, ma perché i loro nomi «sono scritti in cielo» (Lc 10,20). La gioia della fede può essere così grande, che la persecuzione a motivo della fede si trasfigura in beatitudine: «beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli (Mt 5,11-12).
    Il carattere intimamente escatologico della fede, che ci fa vivere sulla terra radicati e orientati al cielo, richiede almeno tre approfondimenti.

    1. Occorre anzitutto chiarire che la “vita eterna” non va intesa soltanto come durata indefinita, vita che dura per sempre, vita non più soggetta alla morte. Tanto è vero che l’eternità nel senso della durata vale sia per il paradiso che per l’inferno! La vita eterna è essenzialmente la qualità della vita di Dio, è la comunione d’amore trinitario partecipata all’uomo. Il significato della vita umana non si riduce dunque né all’esistere né al sopravvivere: vivere è amare, è maturare nell’amore, compiersi nell’amore, in concreto è incamminarsi verso il Paradiso. Da qui il senso profondo delle famose parole di sant’Ireneo: «la gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio»[6].


    2. La fede non è soltanto sapere che la vita eterna esiste ed è il nostro destino, ma è quell’atto, quella disposizione del cuore e quella virtù teologale che ci fa entrare realmente nella vita eterna. Su questo punto le parole del Signore Gesù sono inequivocabili e non vanno minimizzate: «chi crede in me ha la vita eterna» (Gv 6,47), e «anche se muore, vivrà» (Gv 11,25). Qui si vede bene come la fede sia il fondamento della speranza e il motore della carità: la promessa della vita eterna, che nella fede è già realtà, sostiene il cammino, sorregge nelle prove, infonde coraggio; inoltre assicura che la storia ha un senso e che tutto quanto è seminato nell’amore, pur fra le lacrime, non è inutile e non è destinato a cadere nel nulla. Da qui il realismo delle parole di Gesù, il quale afferma che ogni atto d’amore ha un peso teologale, un valore assoluto, incancellabile: «ogni volta che avete fatto questo, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).


    3. Circa la vita eterna, la verità più bella e più difficile da interiorizzare, in quanto sorpassa nettamente sia l’idea della durata interminabile che quella del premio finale, è che la vita eterna è Gesù stesso! Cerchiamo di comprendere: Gesù è il Figlio, colui che il Padre ha eternamente generato e al quale il Padre ha donato ogni cosa, tutto se stesso e tutto il mondo, colui che porta in sé la Vita: «come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26) e a Lui «è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Dunque la vita eterna non è qualcosa, ma qualcuno: è proprio Gesù, Lui in noi e noi in Lui. Noi abbiamo la vita eterna in quanto e quanto più siamo in comunione con Lui! E perdiamo la vita quando e quanto più ci allontaniamo da Lui. Anche qui le parole del Signore non sono riducibili a semplici metafore: «io sono la via, la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Gesù è talmente identico alla vita eterna, che quando chiede a Marta, sorella di Lazzaro, se crede nella risurrezione, ed ella gli risponde che sì, alla fine si risorgerà – mostrando così di non aver ancora capito quanto sia radicale il dono di Gesù – Gesù le dice con grande chiarezza che la vita eterna si rende presente proprio nella sua persona: «io sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25).

    Se la fede unisce la terra al cielo operando nella carità e mirando alla vita eterna, si comprende come mai le due più grandi insistenze spirituali e pedagogiche di don Bosco fossero la moralità e la gioia, la prima intesa soprattutto come purezza – perché solo i puri di cuore vedono Dio (cf. Mt 5,8) – e la seconda come paradiso – perché perdere il paradiso è perdere tutto (cf. Lc 9,25). È significativo che fin dall’esordio del Giovane Provveduto, il libro che don Bosco scrisse per educare i ragazzi alla preghiera, il programma si presenta come un chiaro invito a vivere coi piedi per terra e col cuore in cielo: «buoni cittadini in terra per essere poi un giorno fortunati abitatori del cielo». E altrettanto chiari sono gli avvertimenti intorno ai due principali inganni con cui il demonio cerca di allontanare i ragazzi da Dio: «il primo è far loro venir in mente che il servire al Signore consista in una vita ma­linconica e lontana da ogni divertimento e piacere», e il secondo è suggerire la falsa «speranza di una lunga vita colla comodità di convertirsi nella vecchiaia od in punto di morte». Come si vede, il primo inganno corrompe la moralità, perché orienta il cuore dei giovani alle gioie terrene invece che a quelle eterne, il secondo allenta la speranza, perché distoglie i giovani dalle gioie celesti per consegnarli alla mondanità.
    Oggi si parla poco della vita eterna, della gioia del Paradiso e dell’orrore dell’inferno, non senza gravi danni nel cuore dei credenti. Don Bosco, invece, ne parlava senza alcun timore, senza reticenze e senza attenuazioni, suggerendo così al tempo stesso la serietà drammatica della vita terrena e la gioia consolante della vita eterna, la terribile possibilità di perdere Dio e se stessi, e l’entusiasmante obiettivo di guadagnare Dio e in Lui ogni altra cosa. Un esempio per tutti, sempre tratto dal Giovane Provveduto: «due sono i luoghi che nell’altra vita stanno a noi preparati. Un inferno per li cattivi, dove si patisce ogni male. Un Paradiso per li buoni ove si godono tutti i beni. Non c’è cosa che tormenti maggiormente i dannati nell’inferno, che l’aver passato in ozio quel tempo, che Dio aveva loro dato per salvarsi. Al contrario non c'è cosa che più consoli i beati in Paradiso, quanto il pensare che un po' di tempo impiegato per Dio loro procacciò un bene eterno». Qui l’attesa e la vigilanza, lo sguardo contemplativo e l’impegno attivo, sono una cosa sola».


    NOTE

    [1] Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la quaresima 2013.
    [2] Instr. Lab. Sin. Nuova Ev. 123.
    [3] Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la quaresima 2013.
    [4] Ibid.
    [5] I 4 amori, Jaca Book, Milano 1990.
    [6] Adv. Haer. IV, 20, 7.


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