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    Una scommessa, un progetto, un metodo



    Intervista a Mario Pollo

    A cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 2002-09-68)


    Domanda
    . I termini “animazione culturale” sono entrati nel vocabolario corrente per chi si interessa di educazione e pastorale giovanile. In effetti essa è una teoria e prassi educativa conosciuta e praticata in vari ambiti, e ha assunto anche dignità di disciplina accademica. Perché “animazione” e perché “culturale”?

    Risposta. Purtroppo nel vocabolario corrente la parola animazione ha assunto un significato molto lontano da quello a cui le sue radici rimandano. Infatti per la maggioranza delle persone animazione indica, come rilevava già ai suoi tempi il Tommaseo, un “moto vivace di persona, passionato o no”. Questo significato non deriva però dalla lingua italiana ma da quella francese.
    Infatti nella lingua italiana animazione ha il significato di “atto del dare l’anima o del mantenere la vita animale” o, ancora, “complesso delle facoltà e degli atti della vita animale”.
    È questo il significato che mi ha convinto molti anni fa a scegliere questo nome per indicare sia un’attività educativa che uno stile di vita che tentavano di mettere al centro del loro progetto l’amore e la cura della vita e che, quindi, erano disponibili ad accettare la scommessa che è possibile far fiorire la vita e l’amore per essa, anche laddove le condizioni personali e sociali, sembrano negare questa possibilità. Molti oggi, invece, intendono l’animazione come una attività tesa a vivacizzare, dinamicizzare certe situazioni e facendo questo ne tradiscono il significato più profondo.
    L’animazione non è un insieme di giochini o di attività espressive, queste al massimo sono degli strumenti di cui essa può avvalersi, ma è un itinerario formativo e di vita che vuole condurre la persona a scoprire la bellezza e il mistero della vita, a dire sì ad essa e ad amarla in se stessi e negli altri e, se possibile, a comprendere che questo amore nasce dall’incontro con Gesù, scoperto e confessato come il Signore della vita.
    L’aggettivo culturale vuole sottolineare una caratteristica costitutiva dell’essere umano: quella di essere un animale progettuale, culturale e simbolico.
    In altre parole, questo significa che, almeno su questa terra, l’uomo non può che esistere all’interno di una cultura sociale. Una cultura sociale che ne tesse la vita e i progetti.
    Per comprendere questa affermazione occorre ricordare che l’uomo, a differenza degli altri esseri viventi, non è definito alla nascita. Questo concetto è stato espresso anche da Nietzsche che definì l’uomo come l’animale non definito. Con questa definizione egli sottolineava, tra l’altro, il fatto che l’uomo al momento della nascita è un essere incompiuto che si completa nel corso della sua vita individuale e sociale.
    L’uomo non è determinato, infatti, da un codice genetico o da costrizioni ambientali assolutamente vincolanti, come accade per gli animali, ragion per cui al momento della nascita ha di fronte a sé una molteplicità di possibilità di essere.
    Affermare che la progettualità gioca un ruolo fondamentale nella realizzazione dell’essere umano significa anche dire che questi è un essere aperto, a differenza delle altre specie viventi che hanno, invece, un ambiente saldamente strutturato dalla loro organizzazione istintuale.
    Questa apertura verso il mondo che caratterizza la specie umana è sottolineata anche dal fatto che nell’uomo il periodo fetale si prolunga di almeno un anno dopo la nascita e che il cervello, sino all’età di quindici anni, si espande e si dilata con un movimento sequenziale, durante il quale incorpora le nozioni di base riguardanti le cose del mondo.
    Ciò vuol dire che vi sono dei processi essenziali di sviluppo dell’organismo che avvengono dopo che il bambino si è già separato dal grembo materno e mentre è già in interazione con l’ambiente naturale e sociale. Negli altri mammiferi, analoghi processi di sviluppo avvengono esclusivamente nel corpo materno. Questo significa che l’interazione con gli altri esseri umani, mediata dal linguaggio e dalla cultura, si intreccia nell’uomo con la sua stessa formazione organica e, in qualche modo, non può non influenzarla.
    Infatti, “il nostro cervello finisce di svilupparsi alla luce del sole, a occhi aperti e con tutti gli altri sensi affacciati sul mondo. Di conseguenza, questo organismo finirà per contenere non solo l’informazione che gli deriva dal patrimonio genetico, cioè dalla saggezza biologica accumulata in milioni di anni di storia evolutiva, ma anche una grande quantità di informazioni sui vari aspetti del mondo che ci circonda”.
    Questa considerazione è quella che già nel passato ha indotto alcuni studiosi ad affermare che “se è possibile dire che l’uomo ha una sua natura, ha più significato dire che l’uomo costituisce la propria natura, o, più semplicemente, che l’uomo produce se stesso”.
    La progettualità nell’uomo riguarda sia la sua formazione come persona, sia la costruzione della realtà, ovvero del mondo che abita. Infatti egli producendo se stesso incorpora la cultura, i linguaggi e tutti i sistemi simbolici che mediano e medieranno il suo rapporto con la realtà.
    Ogni uomo, quindi, può essere compreso ed educato solo all’interno della cultura che abita. L’espressione animazione culturale indica perciò un’educazione centrata sull’amore alla vita che si realizza in una cultura sociale e attraverso di essa e, quando è necessario, trasformandola.

    D. Rispetto ad altre teorie e prassi educative, quali sono dunque le somiglianze e differenze?

    R. Il tema della differenza tra l’animazione culturale e l’educazione si svolge all’interno di due polarità. Chi vuole stabilire a tutti i costi questa differenza persegue, tra l’altro, lo scopo di definire un profilo della figura professionale dell’animatore, soprattutto a livello legislativo, distinto da quello dell’educatore professionale.
    La ricerca della differenza è portata avanti con vigore soprattutto da una parte di coloro che operano professionalmente come animatori del tempo libero, delle attività espressive e sociali in genere, ma che non hanno alle spalle un curricolo formativo nel campo delle scienze dell’educazione.
    Sul fronte di chi sostiene, viceversa, la non separazione dell’animazione dall’educazione professionale, accanto a coloro che operano per un ricongiungimento della figura dell’animatore con quella dell’educatore, vi sono dei pedagogisti per i quali l’animazione, nelle sue varie declinazioni, non sarebbe altro che un corretto modo di intendere e di praticare l’educazione. In altri termini, l’animazione è considerata semplicemente come una buona concezione dell’educazione che è improprio chiamare con un nome diverso da quello di educazione.
    Pur se interessanti, queste posizioni rischiano di essere fuorvianti perché l’animazione culturale non è riducibile completamente a nessuna di queste due posizioni.
    Questo perché l’animazione non ha mai voluto non essere educazione, anche da parte di chi ne ha sottolineato l’aspetto espressivo, ma si è sempre posta solo come un modo diverso, rispetto alle prassi abituali e dominanti, di fare educazione. Diversità che era ed è ancora sottolineata dai particolari soggetti ai quali l’animazione si rivolge e dai luoghi in cui essa si svolge. Infatti, molti di questi soggetti, così come molti di questi luoghi, non erano mai stati considerati, prima della comparsa dell’animazione, soggetti e luoghi educativi.
    Occorre considerare che è stata proprio quest’eccentricità ciò che ha consentito all’animazione di sviluppare quei concetti teorici, quei metodi e quelle tecniche che oggi le consentono di essere riconosciuta come uno dei modi più validi di fare educazione. Con la sua “diversità” l’animazione ha dimostrato che è possibile educare in ogni contesto, in ogni età della vita dell’uomo e in ogni luogo, purché esista un minimo di condizioni di libertà. Ha dimostrato poi che si può educare anche al di fuori delle tradizionali istituzioni educative, oltre a trasformare radicalmente molti concetti base dell’educazione spostandone gli obiettivi e i confini. È forse questo il motivo per cui oggi si possono riconoscere come educative delle attività che prima erano rigorosamente escluse dall’educazione e che invece appartenevano a pieno titolo all’animazione.
    Si può tranquillamente dire che l’educazione può affermare che l’animazione le appartiene solo perché l’animazione ha ampliato i confini del dominio tradizionale dell’educazione.
    Infatti, se oggi l’educazione può prendere in considerazione come soggetti e luoghi dell’educazione persone non in età scolare e ambienti diversi da quelli dell’istituzione scolastica, ciò è dovuto principalmente al fatto che l’animazione, con la sua prassi concreta, ha dimostrato che l’educazione investe tutto l’arco della vita umana e può avvenire in ogni luogo in cui la vita si manifesta.
    Infine, se l’educazione è divenuta una forma di liberazione in molte situazioni storiche in cui le persone vivono uno stato di carente realizzazione umana, anche qui qualche merito, anche se non esclusivo, l’animazione può rivendicarlo.
    Dopo queste sommarie precisazioni però il problema iniziale rimane ancora aperto e irrisolto. Infatti, se l’educazione, grazie all’animazione, ha allargato il proprio dominio tradizionale, ha ancora senso continuare a parlare di animazione? Non sarebbe meglio abbandonare questa locuzione a favore di quella di educazione?
    Questa considerazione è tutt’altro che priva di potere persuasivo, tuttavia alcune osservazioni consentono di respingerla.
    La prima osservazione è che l’animazione culturale non si è mai dichiarata neutrale, come invece fa abitualmente l’educazione, rispetto alle concezioni dell’uomo, della società e del senso della vita che formano il pluralismo delle attuali società complesse e, prima, di quelle semplicemente industriali. L’animazione si è sempre dichiarata, pur, riconoscendo la libertà dei soggetti a cui si rivolge, come un’azione “militante” da parte di persone che credono nel valore liberante dell’educazione e che sono motivate nella loro azione da un particolare credo religioso, politico o sociale. Questo anche dopo l’abbandono post-sessantottesco della funzione politica dell’animazione.
    Il modello del buon educatore, specie di quello che opera all’interno delle istituzioni educative, propone, invece, un modo di essere il più aperto possibile nei confronti del pluralismo culturale, politico, sociale e religioso della società in cui opera. Questa posizione è perciò assai diversa da quella dell’animatore che, pur rifiutando energicamente la manipolazione e l’indottrinamento e pur facendo del metodo critico un fondamento del suo agire, è un educatore di parte che non educa solo “per mestiere” ma principalmente perché è motivato da una qualche fede.
    Sia chiaro però che nell’animazione non possono confluire tutte le fedi. Solo quelle che mettono al centro il discorso della dignità, della libertà e dell’autonomia della persona umana hanno titolo per sostenere e motivare l’azione dell’animazione.
    Una seconda osservazione è quella che deriva dalla constatazione che l’animazione, nonostante in molti casi sia entrata nelle istituzioni, educative e non, non ha bisogno per realizzarsi del contesto istituzionale, al contrario dell’educazione che si fonda sempre su un’istituzione: scuola, famiglia, chiesa, ecc.
    Una terza osservazione, che consegue direttamente alla seconda, è quella che i soggetti dell’animazione sono quasi sempre volontari in quanto essi, almeno parzialmente, scelgono volontariamente di vivere questa particolare esperienza educativa e non perché costretti dalle regole sociali.
    Un’ultima osservazione è quella che l’animazione, a differenza dell’educazione, non deve trasmettere un sapere sociale e dei modelli di comportamento che sono riconosciuti come validi dalla cultura sociale dominante, ma deve invece aiutare la persona a realizzarsi e a divenire protagonista della propria costruzione come individuo e come soggetto sociale.
    Questo non vuol dire che l’animazione non trasmetta alcun sapere sociale consolidato o alcun modello di comportamento dominante, ma solo che questi non sono al primo posto tra i suoi obiettivi formativi. Basti pensare a quelle situazioni in cui l’animazione si fa strumento dell’espressione, da parte di un gruppo di persone, della solidarietà e della fiducia nei confronti di persone che soffrono la distruttività del disagio, della devianza e dell’emarginazione.
    In questi casi si ha l’esaltazione dell’animazione come espressione, a livello educativo, dell’amore alla vita e della fede nella capacità dell’uomo di evolvere al di la del suo stato attuale. L’animazione, proprio per la sua intima natura, si pone sempre come manifestazione concreta della fiducia che la vita si esprime anche laddove tutto sembra negarla. Ora questa scommessa, che anche le istituzioni educative possono fare e, a onor del vero, in qualche caso fanno, è tipica dell’animazione e ne costituisce il fondamento.
    L’utopia scalda sempre il cuore dell’animatore proiettandolo verso il futuro più che verso il passato, verso l’innovazione più che verso la pura e semplice conservazione. In altre parole, al centro dell’animazione non vi sono una società e una cultura sociale che vogliono perpetuarsi, ma degli individui che cercano di emanciparsi dalle costrizioni interne ed esterne che impediscono la loro realizzazione personale, per ottenere la quale, magari, operano per modificare la struttura e la cultura sociale.
    Queste brevi considerazioni, e altre se ne potrebbero fare, motivano il perché, nonostante si riconosca che l’animazione è un modo di fare educazione, è conveniente che essa mantenga una sua specifica identità.

    D. Ogni teoria educativa ha un humus culturale e personale-esistenziale. Quale è quello dell’animazione culturale?

    R. L’animazione culturale affonda le sue radici in un terreno composito, multidisciplinare e in alcuni ben definiti orientamenti esistenziali.
    Le discipline che sono sottostanti all’animazione sono l’antropologia culturale e la etnolinguistica, la sociologia, la psicoanalisi, specialmente quella di orientamento junghiano, la psicologia culturale, le teorie della comunicazione, tra cui anche la cibernetica, la metodologia della ricerca, la semiologia, la psicologia sociale, la fenomenologia della religione e, perché no, la filosofia. Il tutto condito da frequentazioni nei domini della letteratura, della poesia e dell’arte.
    Nonostante la pluralità delle sue radici l’animazione culturale non deve essere intesa come una disciplina eclettica, ma come una disciplina che partendo da contributi diversificati ha saputo reinterpretarli, riformulandoli all’interno di una teoria unitaria.
    Per quanto riguarda l’humus esistenziale esso, originariamente, è stato costituito da una constatazione e da una speranza.
    La constatazione è che oggi viviamo in un tempo di crisi culturale drammatica e complessa in cui la persona è al centro di una trama di relazioni politiche, economiche, culturali, che la condizionano e spesso la soffocano.
    La speranza è che in questo contesto l’animazione intende svolgere, consapevolmente, la sua funzione: rendere l’uomo felice, restituirgli la gioia di vivere. È una piccola cosa questa nella mischia delle sopraffazioni, degli intrighi, degli sfruttamenti e delle violenze; ma è una cosa tanto grande che vale la pena di spendere la vita per perseguirla.
    L’animazione è allora una scommessa sulla vita e sull’uomo: scommessa sull’uomo e sulla sua capacità di liberazione storica, pur nella povertà che contraddistingue ogni sua azione. Essa, per rifarci al linguaggio di Paulo Freire, è un “tema generatore” di vita nel momento in cui la vita stessa è minacciata. Un luogo di speranza per il futuro dell’umanità, un luogo in cui liberare la ricchezza delle nuove generazioni e in cui continuamente rigenerare l’uomo e la stessa società.
    L’amore alla vita che l’animazione persegue è, per prima cosa, la fiducia che, nonostante tutto, è possibile per l’uomo costruirsi secondo un progetto che accanto alla sopravvivenza e all’adattamento sociale colloca le domande fondamentali sul senso dell’esistenza.
    Un progetto che sa che all’uomo non è negato il farsi effettivamente a immagine e somiglianza di Dio.
    Un progetto che sa anche che la storia, così come è disegnata dalla vita sociale odierna, non è ancora per tutti gli uomini il luogo fecondo di questa possibilità.
    Un progetto che sa che l’uomo deve costruire se stesso dentro il lavoro per la realizzazione di una diversa, più giusta e vera società, di una nuova storia.
    Un progetto che sa che tutte le sconfitte che l’uomo subisce nella sua quotidiana fatica di vivere non riescono a intaccare irrimediabilmente il suo futuro.
    L’animazione è, da questo punto di vista, un progetto educativo e uno stile di vita che mette la costruzione dell’uomo all’interno di un faticoso lavoro di redenzione della convivenza sociale e della storia. L’animazione sa che, perché tutto questo avvenga, è necessario che l’uomo si emancipi da tutti quei vincoli, da tutte quelle dipendenze che inibiscono il fiorire del suo essere.
    Questi vincoli non sono che la forma moderna in cui si manifestano gli idoli, nel nome dei quali l’uomo sacrifica il divenire pienamente se stesso. 1 nomi di questi idoli sono assai comuni: successo, ricchezza, piacere, potere, ecc. L’idolo infatti è tutto ciò che allontana l’uomo da una comprensione globale di sé, che fa sì che un aspetto parziale della vita umana divenga lo scopo totalizzante della vita stessa.
    Amore per la vita e amore per l’uomo sono alla fine la stessa cosa. È su questa convinzione che poggia il modo di vivere nello stile dell’animazione.
    La scommessa è quella centrata sull’affermazione che oggi è possibile non essere idolatri, ma bensì portatori di quel progetto che impedisce all’uomo di rinchiudersi nei limitati orizzonti che il conformismo sociale propone. Un progetto permeato dal significato le cui radici sono al di là della soglia del mistero.
    Un amore alla vita tuttavia non facile perché intriso dalla sofferenza e dalla sconfitta. Infatti, dire un progetto non idolatra oggi significa pagare un qualche prezzo in termini di sofferenza personale e di gruppo. Allo stesso modo, il lavoro di trasformazione della storia sembra essere sempre sconfitto dalle logiche del potere dominanti.
    La speranza nella sofferenza è un altro connotato dell’amore alla vita nello stile dell’animazione. La sofferenza, da scandalo che ancora affligge il mondo, può divenire la forza rigeneratrice delle infedeltà dell’uomo al proprio essere.
    La logica dell’amore per la vita dell’animazione si fonda, alla fine, sulla irriducibilità della speranza, sulla fede cioè nella redimibilità di ogni situazione umana, anche della più disperata.

    D. Quale ne è l’essenza? Una antropologia, una metodologia educativa?

    R. Il cuore dell’animazione culturale è senza dubbio la sua antropologia, mentre il metodo ne costituisce il braccio operativo. Il metodo, pur avendo una precisa identità, è comunque più flessibile dell’antropologia e, quindi, maggiormente soggetto ai cambiamenti dovuti alle situazioni particolari e alle innovazioni culturali.
    Il cuore dell’antropologia dell’animazione culturale è quello indicato nella risposta alla prima domanda, ovvero è la visione dell’uomo come un essere progettuale, culturale e simbolico, che è mistero a se stesso, in quanto immagine di Dio e in quanto abitatore della linea di confine tra il finito e l’infinito.
    Un uomo considerato come una totalità indivisibile, che con la sua natura aperta può sfuggire ai determinismi biologici e ambientali e giocare la sua libertà, nella scelta della sua vita e di ciò che vuole divenire: un angelo e un figlio di Dio o un animale rapace, una bestia feroce.
    Un uomo che è consapevole della sua mortalità e che tesse l’ordito del tempo per ritrovare il senso più profondo dei suoi giorni nell’orizzonte terrestre.
    Un uomo che sa di compiere la propria individualità solo nella relazione con l’altro, solo condividendo e sostenendo solidarmente il progetto di vita dell’altro e il proprio.
    Un uomo che sa che non può esistere alcun Io senza il Tu e senza il Noi.
    Un uomo che sa cogliere i segni dell’infinito nella finitudine della sua condizione.
    Per quanto riguarda il metodo esso poggia su quattro cardini: un modo adulto di accostarsi e accogliere il mondo giovanile; la creazione di una relazione educativa tra animatore e giovani fondata sulla riscoperta della comunicazione autentica in chiave esistenziale; la crescita del gruppo quale luogo educativo attraverso un preciso itinerario di maturazione; un modello empirico-critico di progettazione educativa.
    Questi quattro cardini sono integrati da altri tratti dai particolari ambiti di attività in cui l’animazione si sviluppa: pastorale, sportivo, caritativo, ecc.

    D. Finora la si è utilizzata soprattutto (ed è conosciuta) nell’ambito della pastorale giovanile. Quali altre applicazioni sono state esplorate o sono possibili? Dove dunque rivela o può rivelare la sua fecondità?

    R. L’animazione culturale, oltre che nell’ambito della pastorale giovanile, ha visto delle interessanti applicazioni nell’ambito scolastico, del recupero dei giovani che vivono delle situazioni di marginalità e di disagio, nelle attività ludico-espressive fondate sulla creatività e nella ricerca terapeutica dell’autenticità personale.
    Un bilancio preciso non è però possibile farlo, perché manca una ricerca valutativa circa gli effettivi risultati e gli eventuali problemi connessi all’applicazione dell’animazione a queste attività.
    A naso i risultati sembrano assai promettenti.

    D. Si parla altrove di animazione sociale o socioculturale. Quali i punti di convergenza e di divergenza?

    R. L’animazione socioculturale è stata fondata dal compianto Don Aldo Ellena e dai suoi collaboratori e si caratterizza come “una pratica sociale finalizzata alla presa di coscienza e allo sviluppo del potenziale represso, rimosso o latente, di individui, piccoli gruppi e comunità”.
    Un elemento specifico di questa concezione dell’animazione è costituito dal suo collegamento con il volontariato e dal fatto che colloca la sua azione come intervento nel territorio, al fine di favorire i processi di crescita della capacità delle persone e dei gruppi di partecipare e gestire la realtà sociale e politica in cui vivono. È una pratica sociale liberatrice che si avvale, oltre che dell’azione nel territorio, dell’uso della azione psicosociale volta a promuovere la capacità espressiva delle persone. È questo un movimento oramai consolidato con alle spalle un consistente retroterra teorico e metodologico che costituisce uno dei maggiori punti di riferimento per chi voglia fare animazione in Italia. Occorre poi segnalare che un ruolo importante nell’animazione socioculturale è giocato da quella pratica sociale che può essere definita come sociocomunitaria.
    Questo pratica si fonda sulle acquisizioni sia della psicosociologia di comunità, sia del lavoro di sviluppo delle comunità fondato su parametri di tipo sociopolitico. La sua finalità è, da un lato, quella del sostegno alle comunità locali nella riappropriazione della propria soggettualità sociale e politica e, dall’altro lato, lo sviluppo dei processi di partecipazione e di autogestione tra i membri delle stesse comunità locali.
    Normalmente questo modello non è però attivo all’interno delle comunità speciali, terapeutiche e riabilitative, dove invece è presente in alcuni casi l’animazione culturale o quella teatrale o quella ludico-espressiva.
    La differenza con l’animazione culturale emerge chiaramente da questa breve sintesi. Infatti, come si è visto, l’animazione socioculturale opera nel tessuto sociopolitico della comunità locale, mentre quella culturale sui processi educativi, in quanto mira al cambiamento della cultura sociale attraverso il cambiamento delle singole persone, aiutandole a liberare la propria individualità e, quindi, la propria specifica unicità, e nello stesso ad agire con gli altri per modificare la cultura sociale e, quindi, la vita della comunità sociale.
    Mentre l’animazione socioculturale parte dall’azione sociale per promuovere la crescita della persona, l’animazione culturale fa esattamente il contrario e mette al centro la persona.
    A parte questo, i punti di convergenza sono moltissimi sia a livello antropologico che metodologico. Si può dire anzi che in questi ultimi anni c’è stato un forte avvicinamento tra le due partiche, dopo un periodo di competizione accentuata.

    D. Quali le critiche più frequenti al modello? Punta troppo (solo) sul gruppo? Ha poca attenzione all’istituzionale e al sociale? Vale solo per i giovani e i loro gruppi informali?

    R. Le critiche al modello dell’animazione culturale nascono spesso dal non considerarla semplicemente una delle molte vie, attraverso cui la liberazione dell’uomo e l’educazione dei giovani può essere perseguita. Ogni via sceglie un percorso che permette di toccare alcuni territori ma, nello stesso tempo, ne esclude molti di più di quanto ne tocchi.
    Comunque al di là di questa constatazione, un po’ banale ma necessaria, occorre dire ad esempio che non è vero che l’animazione culturale ha poca attenzione al sociale. È chiaro, per quanto detto a proposito delle differenze con l’animazione socioculturale, che essa non ha come obiettivo primario il cambiamento sociale, tuttavia cerca di promuoverlo indirettamente attraverso il cambiamento delle persone.
    Non è vero poi che l’animazione culturale funzioni solo con i gruppi giovanili informali, anzi funziona ancor meglio con i gruppi formali, anche formati da adulti o da anziani.
    Infine, anche se ufficialmente essa punta sul gruppo come luogo educativo, tuttavia conosce alcune varianti legate alla relazione duale e alle assemblee.
    Manca però una formalizzazione metodologica di queste esperienze.
    Comunque, anche se privilegia il gruppo e centra l’attenzione sulla persona e non sul sociale e l’istituzionale, essa ha comunque egualmente un valore. Il mondo cambia se cambia l’uomo.

    D. Quali i possibili e futuri sviluppi?

    R. L’animazione culturale può avere un grande futuro, anche se la cultura sociale odierna presenta dei caratteri che, a prima vista, difficilmente sembrano accordarsi con le concezioni di uomo e con i modelli esistenziali di cui l’animazione è portatrice.
    Un esempio di questa dissonanza tra l’animazione e la cultura sociale è facilmente leggibile nel modo di porsi oggi di molte persone di fronte al tempo. È sufficientemente noto, infatti, che l’uomo contemporaneo tende a vivere il tempo come un eterno presente e non come una storia che va da un passato verso un futuro. Una delle conseguenze di quest’atteggiamento è la perdita della dimensione progettuale. Ciò significa, per molte persone, l’incapacità di vivere secondo un dover essere che permetta, attraverso scelte continue, di rimanere fedeli ad un proprio personale progetto di autorealizzazione.
    Oggi, invece, la maggioranza degli abitanti le società complesse tende a vivere cogliendo nel presente il maggior numero possibile di opportunità di autogratificazione e di consumo, senza curarsi della loro compatibilità o del loro valore etico. La coerenza non è più un valore perseguito e l’incoerenza non genera più sensi di colpa.
    L’animazione culturale è rilanciata con nuovo vigore sulla scena educativa proprio dal fatto che l’attuale cultura sociale sembra smentire i valori su cui essa si fonda, e in primo luogo quelli inerenti la dimensione progettuale dell’essere umano.
    Quest’affermazione non nasce dal gusto del paradosso, ma semplicemente dalla constatazione che la perdita del senso storico del tempo è una grave forma di malattia esistenziale per l’uomo contemporaneo. Malattia che egli vive, ad esempio, con la massificazione da un lato e con l’isolamento dall’altro. Oppure con la ricerca di un senso in pratiche e consumi che lo allontanano da se stesso, dalla sua vita e dalla storia che la inscrive.
    Il narcisismo, l’individualismo e la competitività esasperata non sono che gli effetti concreti di questa malattia esistenziale. Ora, essendo l’animazione da sempre uno strumento, povero ma efficace, attraverso cui è offerta alle persone la possibilità di scoprire una dimensione più autentica di esistenza individuale e collettiva, si può comprendere il perché essa non abbia assolutamente esaurito il suo ruolo ma, anzi, abbia di fronte a sé nuove e ancora più appassionanti avventure educative da vivere.
    È chiaro che questo spazio, che le trasformazioni della cultura sociale offrono all’animazione, per essere adeguatamente utilizzato richiede che l’animazione sappia aggiornarsi, riformularsi per adeguarsi ai nuovi terreni della sfida che la società complessa le offre. È necessario perciò, ancor più che nel passato, che gli animatori nutrano la loro militanza ideale di nuovi e più sofisticati contenuti scientifici e culturali. Purtroppo, invece, la diffusione dell’animazione ha favorito il nascere di modi di fare animazione e di animatori assolutamente inadeguati rispetto a questi obiettivi.
    Molti animatori sono, infatti, solo degli apprendisti stregoni che utilizzano, spesso a sproposito, tecniche del lavoro psicosociale senza possedere un’adeguata conoscenza sia delle tecniche sia dei fondamenti teorici che le motivano. O, ancora, per molti di essi animare è solo un modo per riverniciare di nuovo delle attività educative assolutamente tradizionali.
    Per fortuna accanto a questi animatori ve ne sono altri ben preparati, idealmente motivati che hanno seguito dei percorsi di formazione validi.
    Questa situazione, se l’animazione vuole proseguire il suo sviluppo, deve essere superata andando alla creazione di un sistema formativo e informativo che diffonda in modo più efficace la cultura dell’animazione. Molto è già stato fatto, ma ancora di più resta da fare, specialmente per far entrare la cultura dell’animazione nei centri della formazione universitaria, dove è presente solo in alcuni casi e per frammenti. Tuttavia è consolante pensare che, in un grandissimo numero di centri di formazione del mondo cattolico, la cultura dell’animazione ha già affondato radici abbastanza profonde. Per non correre però il rischio di una sorta di ghettizzazione, essa deve muovere in campo aperto e contribuire al rinnovamento della cultura sociale attuale, offrendo i doni delle sue elaborazioni e dei suoi vissuti, che sono oramai molto ricchi e significativi.
    Concludendo si può dire che l’animazione non ha affatto esaurito la sua carica di liberazione attraverso l’educazione ma che, anzi, le trasformazioni della società nella seconda modernità indicano la necessità di una sua rinnovata presenza

    D. Cosa è dunque un “animatore” nel senso dell’animazione culturale? E come agisce, con chi? Quale la figura da essa delineata?

    R. L’obiettivo generale dell’animazione è costituito dallo sviluppo della coscienza delle persone, quindi della loro capacità di vivere in modo consapevole, critico e progettuale l’avventura dell’esplorazione dello spazio-tempo che la vita ha loro donato.
    Questo obiettivo, estremamente impegnativo, richiede all’animatore una collocazione senza incertezze sul terreno della consapevolezza critica e riflessa. Infatti un animatore non può educare alla consapevolezza muovendosi in modo inconsapevole, magari per prova ed errori o per intuizioni inverificate, nella realtà in cui opera.
    L’animatore, per sviluppare quella coscienza critica, deve acquisire quelle conoscenze e abilità di tipo contenutistico e metodologico derivate dalle scienze umane. Ma non solo. All’animatore, infatti, è richiesta anche la conoscenza del dominio specifico in cui esercita la sua azione. Dominio che può variare da quello pastorale a quello riabilitativo, passando attraverso un gran numero di domini intermedi, tra cui, ad esempio, quello sportivo.
    Si può quindi affermare che l’animatore, oltre che la competenza dei metodi e dei contenuti tipici dell’animazione, deve possedere in modo adeguato anche quella del dominio in cui applica la sua azione. Questo significa che i saperi tipici dell’animazione debbono integrarsi in un tutto armonico con quelli fondamentali del dominio in cui l’animazione si svolge. Questo non vuol dire che l’animatore non abbia una sua professionalità specifica autonoma, ma solo che questa deve esprimersi attraverso il linguaggio specifico dell’attività particolare in cui essa si svolge.
    Per esprimere una azione di animazione è necessario che l’animatore condivida il fatto che lo sviluppo della coscienza delle persone, intesa come assunzione di capacità di governare nel segno dell’autonomia e della libertà il proprio personale progetto di vita, muove dall’acquisizione di una identità personale radicata nella memoria della cultura, passa attraverso una capacità di partecipare ai vari livelli della vita sociale in modo solidale e, infine, si conclude nella scoperta del senso dell’esistenza, religioso o laico, attraverso l’apertura al trascendente, al radicalmente Altro.
    Questo itinerario dello sviluppo della coscienza viene proposto dall’animatore solitamente all’interno di una esperienza di gruppo formativo in grado di produrre una esperienza di comunicazione interpersonale autentica, sia sul piano affettivo che dei contenuti, al proprio interno.
    Lo strumento che l’animatore ha a disposizione per raggiungere questo obiettivo è molto semplice, ed è costituito dalla relazione, ovvero dalla gestione sapiente del processo comunicativo che egli instaura con il gruppo e i suoi componenti.
    Questo processo comunicativo richiede due competenze. Una di carattere esistenziale, l’altra di carattere tecnico scientifico. Queste due competenze non sono scisse, ma intrecciate in modo inestricabile. Affermare poi che l’animatore deve possedere una competenza esistenziale significa, di fatto, affermare che per lui la scelta dell’animazione è per prima cosa una scommessa sull’uomo e sulla vita. Questa passione per l’uomo e per la sua vita l’animatore la esprime nella relazione che instaura con il gruppo e i suoi membri.
    Il primo carattere che indica una relazione segnata da questa passione, e quindi il possesso della competenza esistenziale da parte dell’animatore, è dato dalla capacità di svolgere quella accoglienza incondizionata, che caratterizza il metodo dell’animazione, nei confronti di ogni persona, anche da quella più distante dal proprio modello di vita. Accoglienza che si traduce nella fiducia che l’animatore manifesta nel fatto che queste persone, al di là del loro stato attuale, possiedono in se stesse tutte le risorse e le potenzialità per realizzare, secondo la propria irrepetibile originalità, un più autentico progetto di vita.
    Il secondo carattere è dato dalla capacità dell’animatore di cogliere la profonda originalità, segno della libertà, che ogni persona o gruppo mette in gioco nel percorrere l’itinerario dell’animazione e, quindi, il profondo rispetto dei tempi, dei ritmi e di tutte le diversità che ognuno di essi esprime. In questa accettazione della libertà dei soggetti dell’animazione c’è anche la consapevolezza dell’imprevedibilità del processo di animazione e, quindi, del suo eventuale insuccesso. Questo richiede una profonda umiltà, un atteggiamento antiprometeico dell’animatore che sa che molto spesso le ragioni del successo e dell’insuccesso sono sovente al di là del suo agire.
    Il terzo carattere che segna la competenza esistenziale dell’animatore, infine, è la sua capacità di vivere la complessità multidimensionale della relazione con il gruppo e i suoi membri. Questa capacità è quella che gli consente di gestire, oltre ai contenuti della comunicazione, quelli della metacomunicazione, ovvero la dimensione in cui si dà l’accettazione o il rifiuto emotivo e si afferma, quindi, la verità o la falsità esistenziale di ciò che viene detto.
    Il quarto carattere nasce dalla capacità dell’animatore di vivere lo squilibrio della relazione educativa a cui viene dato il nome di asimmetria.
    L’animatore, infatti, per svolgere efficacemente il suo ruolo educativo, deve valorizzare al massimo la differenza che lo separa dai soggetti dell’intervento. E questa differenza si basa sul fatto che l’animatore è portatore di una responsabilità e di un patrimonio professionale e culturale che deve far entrare nel gioco dell’animazione. Questa immissione del patrimonio professionale può avvenire solo perché c’è una asimmetria tra l’animatore e i soggetti dell’intervento.
    L’asimmetria, tuttavia, non significa che tra l’animatore e gli animandi debba esistere una relazione autoritaria in quanto essa deve essere sempre fondata sulla reciprocità, sulla criticità e sulla democraticità, ovvero sul confronto e sul dialogo.
    L’essere animatore comporta, perciò, la capacità di costruire una relazione asimmetrica, democratica, partecipata e critica che, nello stesso tempo, consenta il protagonismo dei soggetti dell’animazione.
    Queste competenze esistenziali, per attivarsi e divenire produttrici di animazione, debbono però essere integrate con un sapere tecnico-scientifico in grado di offrire all’animatore gli strumenti per gestire le dinamiche del gruppo, i processi comunicativi, la ricerca, l’espressività e il percorso di realizzazione degli obiettivi particolari del gruppo.
    Egli poi deve essere per il gruppo un “nomade”. Colui che è in luogo ma per andare in un altro luogo.
    Che è dentro e fuori le esperienze del gruppo perché si riserva sempre di poter esercitare il dono della profezia, dell’analisi lucida e critica che, anche se spesso, rifiutata dal gruppo e dalla comunità, sono il lievito necessario per la loro crescita.
    Da questo punto di vista l’animatore deve accettare di essere un solitario, che abita con chiunque lo ospiti ma non regala la propria libertà di nomade ad alcuno. Libertà che gli consente di sviluppare le sue credenze, le sue idee e i suoi paradigmi interpretativi che nutrono la sua vita oltre che il suo agire.
    In altre parole questa funzione è quella che fa sì che l’animatore sia lo straniero che irrompe nel gruppo, portando quello sguardo che, spiazzando le interpretazioni stanche della realtà, produce un cambiamento.
    Infine l’animatore è un diffusore di linguaggi, a partire dalla lingua, come strumenti di arricchimento del rapporto delle persone che vivono il percorso di animazione con se stesse, con gli altri e con il mondo.
    Linguaggi che sono anche lo strumento attraverso cui la persona scopre le potenzialità di cui è portatrice e impara ad esprimerle.
    L’animatore, sull’esempio di don Milani, scopre il valore emancipatorio del linguaggio.
    Come si è visto, quella dell’animatore è una figura complessa, ricca di intenzionalità umane, etiche, religiose, politiche ed estetiche, che si pone nei confronti del compito animativo carica di un forte impegno, che può essere considerato una vera e propria militanza.
    Tutto questo indica che la formazione dell’animatore non può essere una formazione che si esaurisce negli apprendimenti a livello cognitivo, ma richiede dei veri e propri percorsi di iniziazione esistenziale.
    Percorsi che, tra l’altro, sono dello stesso tipo di quelli che l’animatore propone ai gruppi che anima.


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