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    La trama invisibile: le competenze trasversali nella formazione


    Saper essere. Le competenze trasversali nei contesti educativi /0

    Alessandra Augelli

    (NPG 2024-02-60)


    “Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto.
    Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano. (…)
    Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto.
    È la sua forma che conta, non ciò che sente”.
    (W. Szymborska)


    Il prezioso testo della poetessa polacca dal titolo “Scrivere un curriculum”, provocatoriamente, ci aiuta a riflettere su quanto oggi, nel narrare chi siamo e ciò che ci caratterizza, rischiamo di mettere in luce dimensioni formali, più che sostanziali, sottolineando elementi quantitativi e funzionalistici e lasciando in ombra la qualità, l’esistente. In altri termini, Benasayag tratteggia lucidamente la situazione di un mondo in cui è costantemente richiesto di funzionare bene, dove prevale il profilo che “è una costruzione dell’umano come pura esteriorità. (…) Ogni umano divenuto profilo è un aggregato di moduli, e l’uomo modulare è permanentemente valutato e autovalutato in funzione di performance che obbediscono a criteri esterni. Il profilo è quindi il regno degli esoscheletri, nei quali ogni interiorità che implica sempre una certa opacità è mal vista e persino sospetta”[1].
    Riprendere il tema delle competenze nei percorsi di formazione significa camminare in un terreno scivoloso, dove il pericolo di cadere nelle logiche performative e nell’utilizzo di alcune esperienze negli sviluppi di carriera è molto alto. Il passaggio dalle conoscenze alle competenze è stato senz’altro foriero di grandi possibilità, in quanto ha permesso di valorizzare maggiormente le dimensioni esperienziali e le abilità dei soggetti, andando oltre gli elementi meramente cognitivi; al contempo la formalizzazione delle competenze rischia di assecondare i parametri performativi e una certa “disintegrazione” dell’umano, distinguendo in modo capillare e isolato parti che non hanno senso al di fuori di una visione d’insieme.
    Da diverso tempo il pensiero e l’approccio basato sulle competenze ha fatto il suo ingresso anche negli ambiti informali dell’associazionismo, della pastorale, delle realtà aggregative giovanili: ciò comporta, evidentemente, la possibilità di evidenziare quanto questi mondi, con le loro specifiche caratteristiche siano essenziali proprio nella formazione e nel consolidamento di quelle competenze che definiamo soft o trasversali. È indice, inoltre, del desiderio di creare servizi e proposte di qualità, basati su progressi e conquiste significative nell’ambito delle scienze umane. Risulta importante, al contempo, prestare attenzione perché queste scelte non si traducano in un eccesso di professionalizzazione che riduce e confina le dimensioni peculiari dell’informalità e della gratuità che vanno salvaguardate. La possibilità di vivere in oratorio e nelle comunità ecclesiali esperienze di esercizio di ascolto e di comprensione, di partecipazione civica al quartiere, di accoglienza e di circolarità di talenti personali, ecc… è un vissuto concreto, che riguarda i cammini di vita e che spesso risulta anche difficile da raccontare, in quanto rimane nelle pieghe dell’implicito, dell’incalcolabile, che, per dirla con Benasayag, sfugge ai dispositivi e alle logiche di funzionamento, e appartiene all’esistenza. Si tratta, allora, di guardare alle competenze come espressione di una complessità da contemplare e come una modalità per far luce sulla formazione integrale della persona. Se, infatti, accogliamo la definizione condivisa a livello europeo, per cui ci si riferisce ad una “combinazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti appropriati al contesto”[2], ci accorgiamo di un necessario cambiamento di paradigma della cultura formativa, volta a considerare, valorizzare e attivare nelle esperienze i livelli del sapere, del saper fare e del saper essere, in relazione a specifiche situazioni. In altri termini, stare in una prospettiva formativa centrata sulle competenze non significa tanto adeguarsi ai modelli e ai “programmi” performativi che il mondo richiede, ma poter sviluppare un’attenzione rivolta ai differenti modi in cui il soggetto in formazione può svilupparsi, mettendo in dialogo la mente, il cuore e le mani, armonizzando dunque parti differenti del sé e soprattutto legando saperi e abilità non a dimensioni astratte ma a situazioni contingenti nel quale ci si trova implicati nella quotidianità dell’esistenza.

    Dal concetto al processo: riscrivere il senso del competere

    La considerazione delle competenze di ogni soggetto ci porta a passare da una dimensione statica ad una dinamica e processuale: molti studi convergono sul fatto che la competenza è un “sapere combinatorio”[3], caleidoscopico potremmo anche dire, maturato dal soggetto quando mobilita e intreccia risorse interne (conoscenze, abilità, attitudini personali…) e risorse esterne (materiali, strumenti, persone…) proprie del contesto e delle relazioni che lì si stabiliscono[4].
    Ormai l’attenzione alle competenze è consolidata in moltissimi ambiti non solo professionali e scolastici, ma anche in quelli informali, dove il focus è fortemente spostato sulle cosiddette soft skills o competenze trasversali. Queste ultime, a differenza di quelle hard, sono meno osservabili e quantificabili in quanto attengono, come vedremo, ad una serie di facoltà e “posture” della persona che si sviluppano in maniera anche silenziosa e latente e che emergono soltanto in relazione al raggiungimento di certi esiti. Le competenze trasversali sono sempre più attenzionate in quanto si è compreso che non sono relative ad una sorta di patrimonio “genetico”, dato e immodificabile, quanto piuttosto un sostrato personale da formare e orientare, in stretto contatto con l’esperienza di vita. Proprio in quanto riferite a dimensioni del soggetto e del suo essere in relazione con la realtà e con gli altri, le competenze trasversali possono essere affinate e, appunto, trasferite, spostate, mobilitate da un contesto all’altro. Possiamo anche osservare che la maggior parte di esse vengono perlopiù elaborate proprio in contesti informali, dove non ci sono specifiche richieste di raggiungimento di obiettivi standardizzati e dove la valutazione non è strettamente legata ai risultati, ma dove si tende a valorizzare maggiormente il percorso e il processo.
    Per questo, luoghi formativi come l’oratorio, le associazioni e i movimenti, il volontariato, ecc… sono particolarmente preziosi nella maturazione delle soft skills, ed è importante che si “attrezzino” per accrescere l’intenzionalità educativa in tal senso.
    Su questo terreno è, inoltre, possibile riscrivere il senso autentico della competenza che etimologicamente richiama il “convergere verso un medesimo punto”, l’“andare insieme in una stessa direzione”. Da qui scaturiscono due grandi consapevolezze: la prima, a cui si è fatto cenno, è che a convergere verso medesimi obiettivi siano dimensioni differenti del sé, il cuore, la mente e le mani, ovvero la parte cognitiva, quella emotiva e quella fisica-corporea; la seconda è che nel significato più profondo della competenza è insita la sua radice relazionale, ovvero il fatto che per essere promossa e accresciuta nel soggetto c’è bisogno di vissuto di cooperazione, coordinamento, interscambio tra il soggetto e l’altro, tra il soggetto e il mondo.
    “Competere”, in questa cornice, non richiama più il gareggiare o il confrontarsi con altri, quanto piuttosto la necessità della persona di essere presente a se stessa, di orientare correttamente le proprie risorse ed energie, coinvolgendo anche gli altri ed eventualmente chiedendo aiuto. La persona competente quindi è chi ha sì la padronanza di certe risorse e cognizioni in un certo ambito, ma anche chi ha facoltà e possibilità di mettere a disposizione il proprio contributo, tenendo in dialogo le varie parti di sé e lasciando aperto il confronto costante con gli altri.
    Una certa confusione sul termine ha fatto sì che in nome delle “competenze” si disintegrassero alleanze interne ed esterne al soggetto: “Nella società della tanto esaltata «pedagogia delle competenze» educare significa insegnare a modellarsi secondo gli schemi della società della performance”,[5] e spesso la fluidità richiesta dal mercato del lavoro chiede ai soggetti di dis-integrarsi, di dividersi in parti senza poter vedere il tutto.
    Progettare percorsi formativi e focalizzare l’attenzione sulle competenze trasversali nella pastorale giovanile e nei contesti educativi non significa, dunque, creare una curvatura professionalizzante o performativa; al contrario si vuole valorizzare proprio la genuinità e la generatività dei contesti e delle relazioni che in essi si vivono come fonte di acquisizione e di rafforzamento di tratti personali e relazionali che incentivano e accrescono competenze trasversali importanti. Questo si traduce nella cura della consapevolezza e dell’intenzionalità formativa che in questi luoghi si possono promuovere e nella possibilità di creare “occasioni”, situazioni, esperienze perché le risorse personali e comunitarie possono essere intrecciate in maniera feconda dal soggetto per maturare competenze.
    L’attenzione al tipo di esperienze che si promuovono nei contesti di pastorale permettono di salvaguardare sia la qualità dei soggetti a cui si offrono, sia la motivazione delle figure educative con funzione di guida e coordinamento: anche per loro, infatti, l’esperienza di servizio non deve essere vissuta in termini di “onorificenza”, di “prestazione d’opera” o di performance, ma come spazio interiore dove maturare motivazione e senso. Non si tratta, in altri termini di iscrivere queste esperienze nel proprio curriculum professionale, ma di lasciarsene segnare il percorso biografico.

    “Se lo senti lo sai”: il valore dell’esperienza

    La maturazione delle competenze, si è visto, non avviene mai in astratto, secondo percorsi programmatici e standardizzati, ma a contatto con l’esperienza, nel vivo dell’esistenza. La natura multidimensionale della competenza richiede che siano esercitate, infatti, ovvero messe in movimento e sviluppate a contatto con le situazioni contingenti una serie di percezioni, cognizioni, idee, ma anche azioni, scelte nel momento in cui vi è una situazione che ci coinvolge, nella quale siamo implicati. “Se te lo spiegano non lo capirai, ma se lo senti lo sai” recita una nota canzone di Jovanotti: in effetti tutto ciò che riguarda l’esistenza difficilmente si riesce a “spiegare”, a far stare in una cornice, in una sequenza logica e razionale; molto più spesso le situazioni di vita e, dunque, le competenze relazionali che in esse si dispiegano, possono diventare fonte di apprendimento solo quando sono “attraversate” dai sensi.
    Per allenare alcune competenze è, infatti, necessario restare “vigili” e svegli rispetto alle esperienze che facciamo e accoglierle negli interrogativi che ci pongono, negli elementi che ci sollecitano a rivedere e riconsiderare, coltivando assieme al “fare”, al “mettere le mani in pasta” che caratterizzano il proprio servizio pastorale, anche la riflessività e il “ritorno” sull’esperienza stessa. La persona competente non è quella che ha semplicemente fatto molte esperienze, ma chi ha saputo rendere profonde le consapevolezze colte e guadagnate anche solo in qualcuna di esse: ciò vale a maggior ragione in riferimento alle dimensioni trasversali, che attengono alla relazione, all’empatia, alla comunicazione, alla gestione del tempo, ecc…: su questo piano, infatti, ciò che è davvero conta è l’incisività dell’esperienza rispetto a ciò che si pensava di sapere, dunque la potenzialità decostruttiva, ossia la possibilità di andare a scardinare le nostre sicurezze e credenze. Queste ultime, infatti, ci fanno stare sempre in un dispositivo noto, in un processo di funzionamento, di efficienza, mentre le situazioni esigono il coraggio dell’esistenza e ci mettono alla prova. Possiamo, allora, dar prova di coraggio davanti alle nostre credenze: dandoci la possibilità di far posto alla vita, osando abitare le situazioni che ci costituiscono[6]. I contesti di oratorio, gli spazi parrocchiali, le strade, i luoghi di vita dove i giovani si incontrano e confrontano possono essere “palestra” di comunicazione, di ascolto, di autostima, di gestione degli imprevisti, possono aiutare a sviluppare forme costruttive di leadership nonché la capacità di progettare e relazionarsi con la e nella complessità. Possono esserlo nella misura in cui gli educatori e gli adulti si sentano esperienzialmente giovani, capaci di esplorare e sviluppare la propria personale potenza: “Un giovane è uno che esplora le possibilità, uno per cui la vita non è pianificata come un viaggio organizzato (con tutte le necessarie assicurazioni), uno che non considera la vita come una linea dritta – la strada più breve, il percorso più comodo e con il minimo spreco di energie. Al contrario uno che sperpera, che rischia e non valuta le sue azioni in base al rapporto costi-benefici”[7]: è solo, infatti, quando ci si dimenticherà che quell’esperienza può “servire” in un bilancio di competenze che essa diventerà davvero preziosa e fondante per la propria biografia. E dunque, competenza trasversale preliminare ad ogni altra è, come dice la Candiani, la capacità di meravigliarsi, perché «chi sa o crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra»[8]. Smettendo di conteggiare e di mettere in fila i guadagni di ciò che si vive, ci si può prendere cura della propria biografia, sempre eccedente rispetto a ciò che si sa fare o ciò per cui si è visibili e riconosciuti.


    NOTE

    [1] M. Benasayag, Funzionare o esistere? Vita e Pensiero, Milano, 2019, p. 90.
    [2] https://education.ec.europa.eu/education-levels/school-education/key-competences-and-basic-skills
    [3] G. Le Boterf, Costruire le competenze individuali e collettive, Alfredo Guida Editore, Napoli 2008, p. 89.
    [4] M. Pellerey, Le competenze individuali e il portfolio, Roma, La Nuova Italia, 2004.
    [5] M. Benasayag, Funzionare o esistere?, op. cit., p. 15.
    [6] Cfr. Ibidem, pp. 83-84.
    [7] Ibidem, p. 20.
    [8] C. L. Candiani, Questo immenso non sapere, Einaudi, Torino, 2021, p. 9.


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