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    La distopia delle serie tv. Riflessioni a partire dalla realtà e da Altered Carbon


    Serie tv: l’uomo nella narrazione contemporanea /8

    Fabio Pasqualetti

    (NPG 2022-01-65)



    È importante iniziare con una precisazione terminologica che aiuti a comprendere la distinzione tra utopia e distopia. Entrambe solitamente si collocano in un non-luogo, uno spazio inesistente frutto di fantasia, e da questo punto di vista non sono distinguibili. Se però ci si concentra sul fatto che l’utopia racconta una eu-topia (luogo felice), allora la distopia non è solo il suo contrario, ma qualcosa di irrimediabilmente peggiore.[1] L’enciclopedia Treccani ci offre questa definizione:

    Previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi (equivale quindi a utopia negativa): le d. della più recente letteratura fantascientifica.[2]

    Cogliamo quindi alcuni aspetti che può essere utile tenere presenti. Di solito vengono messi in scena problemi o tematiche del vissuto attuale il cui sviluppo potrebbe portare a situazioni decisamente negative. È una specie di simulazione narrativa basata su cosa accadrebbe se invece di andare in una direzione si andasse in un’altra.
    Non è forse un caso che le recenti narrazioni distopiche abbiano iniziato a diffondersi copiose man mano che la globalizzazione avanzava su scala mondiale. La caduta del muro di Berlino (1989) con la conseguente fine del comunismo, segnava la svolta decisiva della vittoria della democrazia liberale incarnata dal capitalismo che, secondo Francis Fukuyama, rappresentava «il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità» e «la definitiva forma di governo tra gli uomini». In questo senso Fukuyama parlava di «fine della Storia».[3] Questo punto di vista però aveva un grosso limite, non solo perché le ideologie non erano finite, ma perché appiattiva la vita dell’uomo su un presente continuo, impedendo di immaginare un futuro diverso, e quindi di per sé instaurando un principio distopico anche se carico di positività. Tuttavia, l’ottimismo che segnò i primi anni di fine millennio durò davvero poco e l’11 settembre 2001 faceva repentinamente capire che non solo la democrazia liberale non aveva vinto, ma che portava con se le contraddizioni di un modello economico che aveva favorito solo pochi popoli e penalizzato molti altri. Anche la politica assunse un linguaggio distopico. Il presidente George W. Bush, in occasione del discorso dell’unione del 29 gennaio 2002, per indicare il complotto organizzato da Iraq, Iran e Corea del Nord, impegnate nella costruzione di armi di distruzione di massa e favorevoli al terrorismo internazionale, usò l’espressione “axis of evil” (l’asse del male). Il mondo si preparava ad una guerra globale contro il terrorismo. Ancora oggi non ne siamo usciti.

    Quando la realtà supera la fiction

    Non è difficile comprendere come la narrazione distopica abbia avuto facilmente presa all’interno di un panorama umano che dall’inizio del terzo millennio ha dovuto affrontare una guerra globale al terrorismo, una crisi finanziaria mondiale nel 2008, che ha segnato un incremento della povertà anche nei paesi ricchi e oggi sta vivendo l’incubo della pandemia Covid 19. Persino la rete con i suoi social network, visti come una terra di libertà espressiva e un posto sicuro, negli ultimi anni hanno mostrato il volto cupo e distopico di macchine a servizio della manipolazione comportamentale degli utenti esercitata da multinazionali predatorie e luoghi di cyberwars, spionaggio e terrorismo informatico. Il romanzo di Orwell 1984 nella sua genialità tematica non poteva immaginare il dispiegamento tecnologico e la potenza di controllo delle attuali tecnologie digitali.
    È persino imbarazzante parlare di fiction distopica quando la realtà per molti aspetti la batte non tanto nella spettacolarità della trama quanto piuttosto nella durata e nelle conseguenze concrete sulle persone. Di fatto una serie, a volte anche brutale, dura alcune stagioni, con puntate generalmente sui 45-50 minuti dove si mettono in scena le nostre paure; ma è una visione narrativamente controllata che diventa per lo spettatore una forma di esorcismo. Una guerra come quella in Siria o in Afganistan che vanno avanti da decenni non hanno nessun happy ending, inoltre le persone coinvolte stanno da molto tempo soffrendo realmente le conseguenze senza avere a disposizione un super eroe che sappia salvarle e liberarle. Ma anche quando non c’è una guerra, basta solo l’azione discriminatoria di una economia iniqua per generare disuguaglianze e violenze. È sufficiente consultare i rapporti Oxfam negli ultimi cinque anni per vedere il progressivo aumento della distanza tra ricchi e poveri su scala mondiale; e la recente pandemia ha scavato ancora di più il solco delle differenze anche a livello culturale facendo perdere definitivamente la possibilità di studio a milioni di ragazzi e ragazze.
    Riflettere sulle narrazioni distopiche tuttavia non è una perdita di tempo. In prima istanza perché comunque i nostri giovani, ma non solo, si nutrono di queste narrazioni, e in secondo luogo perché possono essere occasione di dialogo e discussione attorno a tematiche importanti. La forza della distopia sta proprio nel fatto che la si può analizzare come un’utopia raccontata al contrario. L’utopia ha perso attrattiva per il fatto che difficilmente si realizza e quindi suscita disillusione in merito al fatto che tutto nella vita sia armonico e buono. L’esperienza quotidiana nega statisticamente l’idea che le cose vadano sempre bene, anzi spesso si ritiene che il violento e il potente siano coloro che fanno le regole del gioco. La distopia, esacerbando le situazioni di violenza, rendendole paradossali e quindi insopportabili, fa scattare l’indignazione necessaria per invocare una giustizia, fa emergere che ci sono valori a cui non si deve rinunciare e per cui vale la pena morire.
    Lo smantellamento progressivo dei valori istituzionali come la famiglia, la scuola, lo stato, la chiesa, da una parte ha certamente messo in atto la necessità di purificare queste istituzioni dalle ipocrisie accumulate nel tempo, allo stesso tempo ha creato un vuoto valoriale che ha favorito un soggettivismo autoreferenziale e narcisistico. Si è smarrito completamente l’ideale del bene comune e le tecnologie digitali hanno indebolito il legame sociale sostituendolo con la debole, ma funzionale, connessione. Le distopie sul piano reale si sono moltiplicate. I giovani a cui viene promesso sin da piccoli una felicità di consumo e una vita facile, sbattono violentemente la faccia contro la precarietà del lavoro, contro un cambiamento climatico che li obbligherà ad adattamenti repentini e migrazioni, un ambiente con le risorse rinnovabili finite il 29 luglio 2021 e una disuguaglianza, come abbiamo visto, sempre più marcata.
    Si spiega quindi anche il successo nelle fiction contemporanee dei Bad guys e dei rough heroes[4], analizzati nel numero di novembre 2021 di NPG, perché rispondono bene al clima contemporaneo della vaporizzazione dei valori, della perdita di ogni orizzonte etico, dell’esaltazione della libertà soggettiva e di uno scenario da Far West dove tutti sono contro tutti. Non stupiscono nemmeno più i titoli dei giornali come quello dell’Huffingtonpost, “Senza più umanità”, in cui si raccontava come una baby gang abbia vessato per anni un 66enne fino a portarlo alla morte. L’avvocato dei ragazzi li descrive come «ragazzi normalissimi, studenti di liceo nati e cresciuti a Manduria in contesti familiari a modo». E nell’articolo si sottolinea come questo comportamento si fosse protratto per «Sette anni di violenze, persecuzioni, e - per la vittima - di paura. Sette anni di assenza di umanità, in una comunità che sapeva, ma che non è riuscita a fermare la gang.»[5] Da allora a oggi i titoli su violenze gratuite e minacce sulla rete e nella vita reale sono all’ordine del giorno. Quale società e quale cultura producono queste situazioni che non sono da fiction, ma molto più inquietanti per l’apparente normalità che le maschera e le protegge?
    Gli artisti sono sensori della cultura che percepiscono ad un livello più profondo il dramma umano e a un livello più alto le possibili vie d’uscita. Limitati solo dai linguaggi che usano danno vita a sguardi e squarci sulla nostra realtà, un invito a riflettere a pensare sul nostro presente anche se proiettato in un futuro a volte non ben definito. Non credo sia un caso che una buona parte dei racconti distopici puntino su due filoni principali: quello totalitario e quello catastrofico. Sono le due condizioni che stiamo sperimentando oggi. Da una parte stiamo assistendo alla crisi della democrazia con pericolose voglie di forme di governo forti, dall’altra stiamo subendo un incremento di catastrofi naturali dovute ai cambiamenti climatici. Non sono del tutto nuovi questi due filoni, perché hanno visto all’inizio del XX secolo le narrazioni sulle più feroci dittature del 900: fascismo, nazismo e comunismo, e quella sulla possibile ecatombe atomica. Oggi riviviamo questi due filoni all’interno di uno scenario socio politico che vede l’imporsi dei populismi, il terrorismo globale, le crisi finanziarie, i flussi migratori, le guerre per procura, i cambiamenti climatici e le pandemie.
    Nelle distopie contemporanee c’è però la componente tecnologica che agisce sia come strumento di salvezza che di distruzione, riproponendo spesso il dibattito di fronte allo sviluppo vertiginoso delle tecnologie digitali e in particolare dell’Intelligenza Artificiale e della robotica. In questo articolo, per ragioni anche di spazio, propongo la riflessione su una fiction recente, Altered Carbon, la cui prima stagione è del 2018 mentre la seconda è stata trasmessa nel 2020 e si è in attesa della terza. La ragione di questa scelta è dovuta al fatto che sullo sfondo della narrazione ci sono problematiche legate al dibattito contemporaneo tra umanesimo, post-umanesimo e transumanesimo.
    Basata sul romanzo di Richard K. Morgan, da cui prende il titolo, la serie televisiva è classificabile come cyberpunk fiction. Grazie all’evoluzione tecnologica, nel 2384 l’umanità può immagazzinare l’identità di una persona in un dispositivo, chiamato “pila corticale” che si inserisce nella colonna vertebrale di un corpo. Questo procedimento permette di sopravvivere alla morte e di ripartire con un altro corpo (sintetico, clonato o naturale) portando però con sé i propri ricordi e la propria coscienza. L’elevato costo di questa tecnologia ne restringe l’accesso a pochi privilegiati. C’è anche una setta di neo-cattolici che rinnegano questa tecnologia come blasfema perché profanazione del dono della vita che deve concludersi con la morte. La distruzione della “pila corticale” porta alla definitiva morte dell’identità. È anche possibile trasferire il contenuto di una “pila corticale” da un pianeta all’altro, permettendo viaggi interstellari. C’è un gruppo di potenti, i Mat (l’origine è Meth che fa riferimento a Mathuselah, Matusalemme) che sono gli unici a potersi permettere copie e back up delle proprie “pile corticali”, il che li rende praticamente immortali. Il personaggio principale della serie è Takeshi Kovacs, ex combattente, di origini slavo giapponesi, che faceva parte del Protettorato, le forze che impediscono ai ribelli di contestare i Mat che governano il mondo. Successivamente però si unisce a dei ribelli “Spedi”, il cui obiettivo è lottare contro i Mat e sovvertire il Protettorato. Quando è ucciso da forze speciali, la sua “pila corticale” viene messa in “stasi carceraria”, in altre parole depositata in un luogo sicuro senza corpo. Dopo 250 anni sarà riabilitata e inserita in un corpo di Elias Ryker, agente di polizia di Bay City (ex San Francisco), per volere di Laurens Bancroft, dell’età di 360 anni, un aristocratico che apparentemente si è suicidato, ma che ovviamente è stato subito reinserito in un suo corpo clone accorgendosi però di non avere le ultime 48 ore di ricordi, misteriosamente cancellate. Chiederà quindi a Takeshi Kovacs di indagare su quello che non ritiene un suicidio, ma un omicidio. Serie avvincente per chi ama gli scenari dark, hi-tech, l’azione, la narrazione, gli effetti speciali e l’ottima caratterizzazione dei personaggi. Perché riflettere su questa serie?
    Se i cristiani credono nell’eternità e in una vita dopo la morte, la scienza e la tecnologia da tempo cercano di migliorare e prolungare la vita su questa terra a tal punto che alcuni filoni ritengono che oggi, con l’evoluzione della tecnologia, sia venuto il momento di andare oltre l’umanesimo, di andare oltre il corpo umano e fare un salto di specie. Si accarezza l’idea di avere corpi le cui prestazioni e resistenza vadano oltre la capacità degli attuali: corpi sempre sani, aumentati cognitivamente e fisicamente, cibernetici, con capacità di interfacciarsi direttamente con macchine e sistemi di Intelligenza Artificiale. Fra le correnti che portano avanti questa visione dell’umano c’è il transumanesimo che vede nelle avanguardie tecnologiche e scientifiche, come la biogenetica, il biohacking, le nanotecnologie, la robotica, il mind uploading, le nuove vie da percorrere per la creazione di una nuova umanità. Sullo sfondo, l’idea che l’uomo possa liberarsi del proprio corpo. Tema che in Altered Carbon è ben rappresentato proprio dal fatto che il corpo è solo un dispositivo facilmente sostituibile.

    Oltre i limiti del corpo umano

    Come siamo giunti a questa idea di manipolazione totale dell’umano? Nella storia della modernità l’uomo ha già dimostrato di aver cambiato il volto della natura e della terra a tal punto che ne stiamo pagando pesantemente le conseguenze. Qualcosa di simile sta accadendo sul “continente” corpo dove l’uomo sta puntando a una modificazione radicale in vista di ottenere un corpo “immortale”. Un concetto che ci può aiutare a capire come si arrivi all’idea di manipolazione totale della realtà è quella che Luciano Floridi chiama infosfera, intendendo con questo termine che tutta la realtà è un “dato” acquisibile e analizzabile nonché manipolabile.[6] Ci si rende immediatamente conto che chi può gestire e intervenire sull’infosfera può incidere significativamente sulla realtà. Questo sta già avvenendo. Le multinazionali del digitale, i padroni dei social network, attraverso i loro algoritmi ci conoscono molto bene, tracciano le nostre attività sulla rete e ci profilano per favorire un marketing personalizzato sempre più efficace. Inoltre, orientano e manipolano i nostri comportamenti grazie alle possibilità di interpretazione predittiva che queste tecnologie forniscono alle multinazionali del digitale. I nostri comportamenti sono già ingegnerizzati.
    Non si può non riconoscere che proprio il corpo sia un problema per l’uomo, in quanto è cagionevole, soggetto a decadenza e morte e quando succedono incidenti, non sempre facilmente riparabile. Oggi sono già in atto esperimenti di esoscheletri sia per la sostituzione di arti per coloro che li hanno persi, ma anche come sistemi di potenziamento del corpo per avere più forza di azione. Ma le aspettative sono soprattutto nel campo delle nanotecnologie e nella bioingegneria con tecniche di riparazione e produzione di tessuti organici, in modo tale da ottenere non solo pezzi di ricambio, ma corpi geneticamente perfetti. Il sogno è che nei prossimi decenni si arrivi a potenziare il fisico umano, eliminare tutte le patologie ancora prima del concepimento, rafforzare la capacità cognitiva per essere all’altezza di interagire con le varie Intelligenze Artificiali, predisporre l’uomo a ibridarsi con macchine.
    Queste sono prospettive non più da fiction ma da laboratori sparsi in tutto il mondo e in competizione per chi prima troverà soluzioni standardizzabili e proponibili per il mercato. Mind uploading, conosciuto anche come whole brain emulation (WBE), è un termine abbastanza diffuso che indica un processo mediante il quale si possono raccogliere ricordi, personalità, caratteristiche di una persona e poi inserirli in un ambiente computazionale artificiale per studi simulativi. Nel 1995 il film di fantascienza Johnny Mnemonic, interpretato da Keanu Reeves ipotizzava l’uso del cervello come spazio per trasportare software illegale. Nel 1999 iniziava la serie Matrix, una trilogia che con il primo film ha aperto un dibattito ampio sul reale e virtuale, intendendo quest’ultimo come la possibilità di creare mondi digitali da abitare e modificare. Nel 2014 nel film Transcendence, il dottor Will Caster, interpretato da Johnny Depp, è il più importante ricercatore nel campo dell'Intelligenza Artificiale. Avversato da un gruppo di terroristi anti-tecnologici, viene avvelenato. Prima che muoia la moglie carica la sua mente in un computer che in seguito verrà connesso a Internet. In questi casi, è come se la fiction avesse agito da apripista non solo per il dibattito, ma per la stessa realtà. L’Intelligenza Artificiale è davvero presente in quasi tutti gli ambiti di studio e ricerca, la robotica sta facendo passi da gigante e le nostre vite sono già gestite da sistemi automatici su scala globale.
    Dal punto di vista educativo, anche se non è possibile seguire tutte le serie TV, è importante però riuscire a problematizzarle con i giovani. Uno dei temi molto attuali è proprio quello del corpo che sappiamo essere oggetto di teorie che ritengono si possa esercitare la propria libertà di modificarlo come si crede in nome del diritto di autodeterminazione. Come si diceva, queste teorie si fondano appunto sull’idea che il corpo sia un dato manipolabile a piacimento perché lo si ritiene un prodotto culturale. Ma il corpo è solo un dato? O è già una informazione che si presenta come materia organica con un progetto proprio? E se così fosse, quell’io che si sviluppa strada facendo dalla nascita, prima di ogni rivendicazione di uso della propria libertà, non dovrebbe forse domandarsi se in quel corpo ricevuto come dono non ci sia un progetto da scoprire?
    È interessante che in Altered Carbon venga rappresentata una setta di Neo-Cattolici contrari alla tecnologia della “pila corticale” visti come oppositori allo sviluppo tecnologico e nemici del progresso. Anche oggi chi si pone in modo critico nei confronti della tecnologia è sempre considerato un conservatore bigotto, luddista e pauroso del futuro. Riconosciuto il fatto che è abbastanza facile denigrare chi non si posiziona nel mainstreaming dell’immaginario dominante, il problema vero che non viene affrontato è che la tecnologia, tratto caratteristico della nostra umanità, racconta non solo il grado di evoluzione dell’uomo, ma anche chi è. Se produco tecnologia di morte, la mia essenza è di morte, se produco tecnologia che genera vita, rispetta l’ambiente, annulla le disuguaglianze, restituisce la dignità alle persone, promuove il rispetto e il bene comune, la mia essenza è di vita. Per noi cristiani poi, il corpo è l’interfaccia attraverso il quale conosciamo il mondo, gli altri e persino facciamo esperienza di Dio. Da troppi secoli abbiamo perso la coscienza che il nostro corpo è connesso con l’intero universo, che il nostro cervello è il nostro corpo e che noi vibriamo insieme al cosmo. Le vere distopie le conosciamo e le abbiamo sempre create noi umani, le fiction, come tutte le narrazioni, sono spie, sono moniti, sono occasioni per riflettere: questa riflessione non deve essere fatta sul futuro ma sul presente.
    Negli anni ’90 il Cardinal Bergoglio, oggi papa Francesco, rivolgendosi alle comunità educative in un periodo di profonda crisi sociale diceva:

    L’utopia trae la sua forza da due elementi: da una parte, il disaccordo, l’insoddisfazione o il malessere causato dalla società attuale; dall’altra, l’irremovibile convinzione che un altro mondo sia possibile. Da qui nasce la sua spinta all’azione. Lontano dall’essere una mera e illusoria consolazione, un’immaginaria alienazione, l’utopia è la forma che prende la speranza in una concreta e determinata situazione storica. [7]

    Se le distopie narrativamente sono più convincenti, nella vita forse conviene coltivare l’utopia che è sempre un già e non ancora. È vero che non si realizza mai pienamente, ma questa è la sua forza perché lascia sempre aperta la porta per un futuro altro dal presente. Gli scenari attuali della pandemia, dei cambiamenti climatici, delle crisi economiche, della disuguaglianza crescente tra ricchi e poveri, invocano davvero una speranza, e quindi una utopia, che sappia incarnarsi in un sogno da realizzare insieme credendo che un mondo diverso è possibile.

    6 agosto 2021
    Anniversario di Hiroshima, la distopia atomica.

     
    NOTE

    [1] Cf. Francesco Muzzioli, Scritture della catastrofe. Istruzione e ragguagli per un viaggio nelle distopie, Milano, Meltemi, 2021, 27.
    [2] Distopia, https://www.treccani.it/vocabolario/distopia2/, (20.07.2021).
    [3] Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Milano, BUR, 2003, 9.
    [4] Personaggi negativi caratterizzati sia nelle debolezze che nella forza dalla loro intelligenza al servizio però di azioni violente, malvagie o vendicative, che sono resi simpatici perché al loro volta sono vittime di un sistema più perverso, in cui non sembra esserci spazio se non per farsi giustizia da soli. È il ritorno del mito del cow boy in versione post-moderna.
    [5] Federica Olivo, Senza più umanità, (26.04.2019), https://www.huffingtonpost.it/2019/04/26/senza-piu-umanita_a_23717970/?utm_hp_ref=it-homepage.
    [6] Cf. Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l'infosfera sta trasformando il mondo, Milano, Cortina, 2017, 44-45.
    [7] Jorge M. Bergoglio, Scegliere la vita. Proposte per tempi difficili, Milano, Bompiani, 2013, 10.


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