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    Il corpo custodito, curato e trasfigurato dalla liturgia


    Elena Massimi *

    (NPG 2022-03-27)

     


    Premessa

    Nella pars III, q. 1, della Summa Theologiae, Tommaso pone sei quesiti sulla convenienza dell’incarnazione, custodendo alcune delle verità dimenticate dal cristianesimo contemporaneo: l’uomo è corpo - “non ha semplicemente un corpo” -, e la dimensione corporea della relazione con Dio.
    Al quesito «se l’incarnazione del Verbo di Dio fosse necessaria per la redenzione del genere umano» (pars III q. 1 a. 2) Tommaso risponde che l’incarnazione si è dimostrata necessaria come «il mezzo agevola il raggiungimento del fine». Ancora nella pars III, q. 61, a.1, relativa alla necessità dei sacramenti, evidenzia come «la provvidenza divina suole provvedere a ogni essere secondo la sua condizione. Perciò è conveniente che la divina sapienza offra all’uomo gli aiuti per la salvezza sotto dei segni corporei e sensibili, che vengono detti sacramenti». Infatti l’uomo «deve essere condotto per mezzo di realtà corporee e sensibili alle realtà di ordine spirituale e intelligibile».
    Tommaso, quindi, mette ben in luce la convenientia dell’incarnazione e la necessità dei sacramenti proprio in virtù della costituzione corporea dell’uomo.
    Oggi, purtroppo, dimentichi di cosa ci consegna la tradizione, siamo ancora fortemente tentati da uno spiritualismo disincarnato, che nega la mediazione corporea nella relazione con Dio, nonostante l’orizzonte sacramentale della Rivelazione, «la modalità storico-salvifica con la quale il Verbo di Dio entra nel tempo e nello spazio, diventando interlocutore dell’uomo, chiamato ad accogliere nella fede il suo dono»[1]. «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14), sarx, Dio si è fatto uomo, cioè piede, mano, bocca, occhi, sensi, sentimenti. La salvezza avviene proprio nell’intervento di Dio nella carne e nel corpo. Caro salutis cardo, scriveva Tertulliano, consapevole di come la carne fosse il cardine della salvezza, partecipe della salvezza:

    Sarebbe tuttavia sufficiente constatare che nessuna anima può in alcun modo conseguire la salvezza, se non ha accolto la fede nel tempo che la vede unita alla carne: a tal punto la carne è il fondamento della salvezza! Quando Dio lega a sé l’anima che si trova nella carne, è la carne stessa che rende possibile tale legame. Ma c’è di più: la carne riceve il lavacro perché siano tolte le macchie dell’anima; la carne riceve l’unzione perché l’anima sia consacrata; la carne riceve il sigillo, perché l’anima sia fortificata; la carne è adombrata con l’imposizione delle mani, perché l’anima sia illuminata dallo Spirito; la carne si nutre del corpo e del sangue di Cristo perché anche l’anima si sazi di Dio. Non è possibile, dunque, che non siano unte nella ricompensa due sostanze che hanno agito congiuntamente[2].

    Il corpo nei sacramenti

    L’antidoto alla tentazione di rimuovere la mediazione corporea nella relazione con Dio è rappresentato dalla liturgia, che custodisce, accompagna, cura il corpo dell’uomo dal suo nascere (alla vita cristiana) fino alla morte, nel passaggio dall’essere “corpo giovane” a “corpo anziano e malato”. Vogliamo ripercorrere in questa sede alcune sequenze rituali significative che mettono in luce quanto appena affermato.
     
    Il catecumenato
    Nel Rito dell’ammissione al catecumenato, a discrezione del celebrante, può essere tracciato un segno di croce sugli orecchi, gli occhi, la bocca, il petto, le spalle; ciascun segno di croce è accompagnato da una formula che ne esplicita il senso: “Ricevete il segno della croce sugli orecchi per ascoltare la voce del Signore”; “Ricevete il segno della croce sugli occhi per vedere lo splendore del volto di Dio”… è evidente come sin dall’inizio del cammino per divenire cristiani il corpo assuma un ruolo fondamentale nella relazione con Dio, è il luogo di tale relazione.
     
    Il battesimo
    Nel Rito del battesimo, con il quale il nostro corpo “rinasce” a vita nuova, vogliamo prendere in esame l’unzione pre-battesimale con l’olio dei catecumeni che può essere fatta sul petto o su ambedue le mani e, se si ritiene opportuno, su altre parti del corpo dei battezzandi. Tale unzione vuole richiamare l’unzione sugli atleti lottatori, che tonificava il loro corpo e lo rendeva scivoloso alla presa dell’avversario. Come per gli atleti, l’unzione con l’olio dei catecumeni rafforza coloro che stanno per essere battezzati, preparandoli alla lotta contro il male e Satana. Con tale formula, infatti, viene accompagnata l’unzione: “Vi ungo con l’olio, segno di salvezza: vi fortifichi con la sua potenza Cristo Salvatore, che vive e regna nei secoli dei secoli”.
     
    L’eucaristia
    Nella celebrazione eucaristica è evidente come il corpo rappresenti per eccellenza il luogo della comunione con Dio. Mangiamo il corpo di Cristo e beviamo il suo sangue, per divenire corpo di Cristo, per essere a nostra volta trasformati nel suo corpo. «Tutti coloro che mangiano dell’unico pane spezzato, Cristo, entrano in comunione con lui e formano in lui un solo corpo» (CCC 1329). Nell’Eucaristia accogliamo il dono della salvezza, che raggiunge il suo culmine proprio nella condivisione del corpo del Signore. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 54): Cristo dona la salvezza a chi mangia il suo corpo e beve il suo sangue; ed è bene sottolineare come il mangiare e il bere sono azioni vitali: nessuno può farne a meno per vivere. «Mangiare e bere sono azioni primordiali e riconoscimento iniziale del mondo. Ancor prima che i suoi occhi si aprano e che le gambe si drizzino perché possa camminare sulla terra, il cucciolo d’uomo mangia, o, più esattamente, beve»[3].
     
    L’unzione degli infermi
    Nella liturgia il nostro corpo non solo viene “nutrito”, ma anche curato. I Vangeli mettono ben in luce la premura di Cristo per i malati: «Egli li cura nel corpo e nello spirito, e raccomanda ai suoi fedeli di fare altrettanto» (Rito dell’unzione degli infermi, Premesse, 5). Nel Rito dell’Unzione degli infermi troviamo l’unzione con l’Olio santo sulla fronte e sulle mani da parte del sacerdote, appunto perché il malato abbia la grazia dello Spirito Santo, e riceva aiuto per la sua salvezza, si senta rinfrancato dalla fiducia in Dio e ottenga forze nuove contro le tentazioni del maligno e l’ansietà della morte (cf. Premesse, 9). A tale proposito è significativa la prima preghiera proposta dal rituale dopo l’unzione, nella quale si chiede la guarigione fisica e l’allontanamento delle sofferenze dell’anima e del corpo: «O Gesù, nostro Redentore con la grazia dello Spirito Santo, conforta questo nostro fratello, guarisci le sue infermità, perdona i suoi peccati, allontana da lui le sofferenze dell’anima e del corpo, e fa’ che ritorni al consueto lavoro in piena serenità e salute. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli».
     
    Le esequie
    Ci vogliamo infine soffermare sul rito delle esequie, nel quale il corpo del defunto viene asperso con l’acqua benedetta in memoria del Battesimo, e incensato, proprio perché tempio dello Spirito Santo. Una delle orazioni che introducono il rito recita così: «Lo aspergiamo con l’acqua del Battesimo. Onoriamo il suo corpo con il profumo dell’incenso, che sale a Dio con la nostra preghiera».
    Gli esempi riportati, mostrano, quindi, come la liturgia “accompagni” il nostro corpo durante tutto l’arco dell’esistenza, dal suo nascere fino al morire.

    L’eccezione: il sacramento della penitenza

    Abbiamo visto, quindi, come i sacramenti custodiscano la “mediazione corporea della salvezza”. Volutamente non è stato citato il sacramento della penitenza, che merita una trattazione a parte, anche in forza della “crisi” che oramai attraversa da anni, in modo particolare nei contesti giovanili, ma non solo.
    Se, come visto, negli altri sacramenti[4] la dimensione corporea della salvezza è evidente, nel sacramento della penitenza (o riconciliazione) possiamo ravvisare “quasi una mancanza della dimensione corporea” (almeno nella prima forma, il Rito per la riconciliazione dei singoli penitenti). Si può constatare come quello che nella chiesa antica era un lungo processo di conversione/penitenza, della durata di diversi anni, nella forma rituale che ci è stata consegnata dal Rituale del 1614 (il Rito della penitenza in realtà è l’unico rito che non è stato rivisto profondamente nella Riforma liturgica del Vaticano II) viene ridotto ad atto puntuale del penitente. Il catechismo della Chiesa cattolica parla di “dinamismo della conversione e della penitenza” (CCC 1439), e nelle premesse al Rito della penitenza, relativamente alla contrizione, si legge che «al regno di Cristo noi possiamo giungere soltanto con la “metànoia”, cioè con quel cambiamento intimo e radicale, per effetto del quale l’uomo comincia a pensare, a giudicare e a riordinare la sua vita, mosso dalla santità e dalla bontà di Dio, come si è manifestata ed è stata a noi data in pienezza nel Figlio suo (cf. Eb 1,2; Col 1,19 e passim; Ef 1,23 e passim). Dipende da questa contrizione del cuore la verità della penitenza». È evidente come la contrizione coinvolga tutte le dimensioni dell’uomo, la sua vita interiore ed esteriore.
    Se la contrizione è stata “ridotta” ad un atto puntuale, frutto di un breve esame di coscienza prima di “entrare nel confessionale” o addirittura dentro il confessionale stesso, ed è dichiarata con l’Atto di dolore, la soddisfazione, che un tempo prevedeva un lungo e impegnativo cammino penitenziale, della durata di diversi anni, nella maggior parte dei casi è ridotta alla recita di un’Ave Maria. Cosa fare per recuperare il dinamismo della conversione e della penitenza dando così “corpo” al sacramento della riconciliazione?

    La dimensione penitenziale della vita cristiana

    Per ridare corpo al sacramento della riconciliazione è necessario recuperare il contesto in cui deve essere collocato: la dimensione penitenziale della vita cristiana. Solo così contrizione e penitenza torneranno ad essere processi che coinvolgono tutte le dimensioni della vita dei fedeli. Già Paolo VI, nel 1966, nella costituzione apostolica Paenitemini, sottolineava come «tra i gravi e urgenti problemi che si pongono alla nostra sollecitudine pastorale, non ultimo ci sembra quello di richiamare ai nostri figli – e a tutti gli uomini religiosi del nostro tempo – il significato e l’importanza del precetto divino della penitenza». La nota CEI del 1994 Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza sottolinea a tale proposito come nella penitenza sia coinvolto «l’uomo nella sua totalità di corpo e di spirito: l’uomo che ha un corpo bisognoso di cibo e di riposo e l’uomo che pensa, progetta e prega; l’uomo che si appropria e si nutre delle cose e l’uomo che fa dono di esse; l’uomo che tende al possesso e al godimento dei beni e l’uomo che avverte l’esigenza di solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini. Digiuno e astinenza non sono forme di disprezzo del corpo, ma strumenti per rinvigorire lo spirito, rendendolo capace di esaltare, nel sincero dono di sé, la stessa corporeità della persona».
    Una delle forme della penitenza cristiana è data proprio dal digiuno, necessario per la lotta contro la tentazione e il peccato, in vista di una adesione sempre più libera e profonda a Cristo morto e risorto. La colletta del mercoledì delle ceneri mette ben in luce tale dimensione: «O Dio, nostro Padre, concedi al popolo cristiano di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione, per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il combattimento contro lo spirito del male».
    Dobbiamo essere coscienti però che oggi il digiuno viene soprattutto praticato per motivi non religiosi, ma come pratica di benessere: diversi medici, nutrizionisti evidenziano i benefici del digiuno per il corpo e per la mente. Ed è ancor più interessante il fenomeno che vede i cristiani digiunare per salute o per la “cura del corpo” e non digiunare per “far spazio all’Altro e all’altro”, o ancora non digiunare dal cibo (che è necessario per la vita) ma da cose non necessarie (ad esempio l’ascolto della musica) che non fanno percepire i “morsi della fame”[5].

    Il digiuno cristiano

    Tra il digiuno come pratica di benessere e il digiuno cristiano vi è una enorme differenza: il primo centra l’uomo su se stesso, causando in certe circostanze una oggettivizzazione e spettacolarizzazione del corpo stesso. A tale proposito è bene considerare come oggi si tenda a valorizzare

    un solo modello corporeo: vige l’ideale della snellezza per il genere femminile e della tonicità muscolare per il genere maschile. Entrambi i sessi sono inoltre invitati a mantenersi “giovani” il più a lungo possibile, cancellando con ogni mezzo i segni dell’età che avanza. Il disciplinamento del corpo (l’esercizio fisico, il contenimento della fame, la cura costante delle singole parti che lo compongono), come indica in primo luogo la pubblicità, viene idealmente premiato con il successo in ogni settore della vita – sesso, amore, figli, carriera, relazioni sociali – e dunque con l’agognata sensazione di benessere e felicità[6].

    Ben altro è l’orizzonte del digiuno cristiano, che custodisce l’unità dell’umano: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Attraverso l’astinenza dal cibo, attraverso quindi la rinuncia ad un elemento fondamentale per la vita, l’uomo si riscopre dipendente da Dio e chiamato a donarsi ai fratelli:

    Il digiuno afferma la distanza dell’uomo rispetto al mondo che lo nutre e corregge la tendenza a prendere da sé ciò che bisognerebbe sempre considerare come domandato e donato. […] Nel giardino dell’Eden, Dio aveva donato all’uomo tutti gli alberi, non solo “belli alla vista”, ma “buoni da mangiare”, e tuttavia, a proposito di uno di essi aveva detto “Tu non ne mangerai”. Cibo e digiuno sarebbero così come i due poli del giusto rapporto con il nutrimento[7].

    La liturgia trasfigura il corpo dell’uomo

    Se la liturgia custodisce, cura e accompagna il corpo, al termine di questo nostro breve contributo non possiamo non soffermarci su come la liturgia trasfiguri il corpo.
    Tutto ciò che entra nella liturgia viene trasfigurato; Dio nel suo rendersi presente, utilizza un linguaggio che è inevitabilmente umano, allo stesso tempo differente. L’incontro “faccia a faccia” con il Signore della vita ci cambia, ci trasforma, ci trasfigura. Da individui singoli diventiamo assemblea radunata nel nome del Signore, capace di riconoscere i propri peccati, le proprie colpe, aperta alla relazione con l’Altro e con l’altro. Nella celebrazione liturgica l’uomo viene trasfigurato proprio perché diventa epifania del Mistero, proprio perché nell’azione liturgica Cristo è presente nello Spirito e la sua presenza è mediata dalla e nella comunità dei fedeli.
    «Nella liturgia, dunque, l’umanità delle persone acquista in modo singolare lo spessore della sacramentalità: diviene luogo di rivelazione e di esperienza della presenza di Dio e luogo di incontro tra la sua azione e l’azione dell’uomo»[8]. I gesti nell’azione liturgica sono profondamente umani, ma allo stesso tempo sono mediazione della relazione con il Signore, e per questo si trasfigurano.
    Nella liturgia tali gesti acquistano un significato e una forza profonda proprio perché «diventano operatori della relazione dei fedeli con Dio»[9]. E tali gesti non sono privi di conseguenze, operano su chi li compie, offrendo un senso all’esistenza. La liturgia è fortemente impressiva, non comunica semplicemente un messaggio, ma offre una esperienza significativa, che coinvolge tutta la persona, interiorità ed esteriorità. Non si “esce” dalla liturgia uguali a come si è entrati: l’incontro con il Risorto, il contribuire all’epifania del Mistero, non può lasciarci indifferenti, ma incide, giorno dopo giorno, nel nostro corpo, trasfigurandolo.

    * Liturgista, Auxilium – Roma


    NOTE 

    [1] Benedetto XVI, Verbum Domini: Esortazione apostolica post-sinodale sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa (30 settembre 2010), n. 56.
    [2] Q. S. F. Tertulliano, La risurrezione dei morti, VIII.
    [3] G. Lafont, Il pasto e la parola, Torino, Elledici, 2005, 19.
    [4] Per motivi di spazio non si è fatto riferimento ai sacramenti della Confermazione, del Matrimonio e dell’Ordine.
    [5] Scrive a tale proposito E. Bianchi: «Sarebbe profondamente ingannevole pensare che il digiuno - nella varietà di forme e gradi che la tradizione cristiana ha sviluppato: digiuno totale, astinenza dalle carni, assunzione di cibi vegetali o soltanto di pane e acqua -, sia sostituibile con qualsiasi altra mortificazione o privazione. Il mangiare rinvia al primo modo di relazione del bambino con il mondo esterno: il bambino non si nutre solo del latte materno, ma inizialmente conosce l'indistinzione fra madre e cibo; quindi si nutre delle presenze che lo attorniano: egli "mangia'', introietta voci, odori, forme, visi, e così, pian piano, si edifica la sua personalità relazionale e affettiva. Questo significa che la valenza simbolica del digiuno è assolutamente peculiare e che esso non può trovare "equivalenti'' in altre forme di rinuncia: gli esercizi ascetici non sono interscambiabili! Con il digiuno noi impariamo a conoscere e a moderare i nostri molteplici appetiti attraverso la moderazione di quello primordiale e vitale: la fame, e impariamo a disciplinare le nostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio, relazioni sempre tentate di voracità», in https://www.monasterodibose.it/lavoro/acquista/cibo-e-cultura/8964-il-digiuno-cristiano (consultato il 16.12.2021).
    [6] S. Capecchi, “Il corpo perfetto. Genere, media e processi identitari”, in Capecchi S. – E. Ruspini (ed.), Media, corpi, sessualità. Dai corpi esibiti al cybersex, Milano, Franco Angeli, 2009, 38.
    [7] Lafont, Il pasto e la parola, 26-27.
    [8] L. Girardi, “I gesti liturgici, trasfigurazione dell’umano”, in Rivista di Pastorale Liturgica 319 (2016) 6, 21.
    [9] Idem, 23.


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