Grammatica e cantieri di sinodalità nella PG /4
Gianluca Zurra
(NPG 2022-04-63)
Una parola fondamentale della sinodalità è il termine “fraternità”. O meglio, l’esperienza fraterna è il grembo che rende fecondo il cammino sinodale. In effetti, solo riconoscendoci fratelli è possibile costruire poco per volta una consonanza, un’accordatura tra diversi in rapporto ad una comune direzione.
Sinodo, dunque, nascendo dalla fraternità, esprime innanzitutto il dato originario della differenza, che non è da superare, ma da vivere fino in fondo come promessa e come possibile percorso insieme. Il cammino sinodale si dipana così come un continuo cantiere in cui ci si forgia nel passare dall’essere “figli unici” a riconoscersi progressivamente “fratelli”.
Non a caso, il tema della fraternità sembra tornare al centro della riflessione, dentro e fuori la Chiesa, soprattutto dopo che la pandemia ha fatto emergere l’individualismo come il vero tallone d’Achille della società odierna. Tuttavia, è necessario “dare corpo” a questa parola, rimettendola in primo piano rispetto alla sua precedente dimenticanza, ma sottraendola alla tentazione ricorrente di una sua declinazione superficiale o generica, che rischierebbe di riportarla con altrettanta facilità alla sua insignificanza.
Una direzione proficua può essere quella di approfondire la fraternità come sorgente di una vera e propria cultura sociale, che scardina paradigmi vetusti e sterili sostenendo una nuova visione per il futuro, un modo diverso di stare insieme, di vivere la città, di regolare i rapporti tra gli umani. Addentrarsi in questo percorso significa affrontare almeno due questioni cruciali: il rapporto tra fraternità, libertà, uguaglianza e la riscoperta della dimensione affettiva come forma di sapere.
Gesù è colui che, guardando il mondo senza invidia, diventa “il primogenito tra molti fratelli”, sorgente di quella fraternità che siamo sempre sul punto di perdere, ma che non di meno può sempre essere rilanciata proprio a partire dal suo sguardo unico e singolare, in grado di consegnare a ciascuno il proprio posto e la propria dignità: fratelli, perché figli nel Figlio.
Fraternità, libertà, uguaglianza
Sull’impulso della rivoluzione francese, la modernità si è caratterizzata per la (ri)scoperta della libertà e dell’uguaglianza, rispetto alla precedente società concepita secondo uno schema di disuguaglianza originaria. Ben presto, però, lasciando sullo sfondo la fraternità come “parente povera” della triade rivoluzionaria, sia la libertà che l’uguaglianza sono state pensate in modo astratto: la prima come esclusivo accumulo di diritti al di fuori di ogni relazione e la seconda come uniformità senza riconoscimento delle diversità[1]. Si tratta, invece, di porre la fraternità all’inizio, come sorgente tanto della libertà, nella sua qualità relazionale e non individualistica, quanto dell’uguaglianza come armonia dei diversi, evitando la sua deriva omologante.
È su questa strada che la Chiesa nel suo insieme dovrebbe prima di tutto (ri) guadagnare la sua forma fraterna, contribuendo in modo propositivo al dibattito e alla prassi che ne consegue.[2]
Porsi in cammino sinodale, dunque, non vuol dire soltanto mettere in campo una nuova strategia organizzativa. Sarebbe troppo riduttivo, poiché è in gioco la possibilità, da parte della comunità cristiana, di dare il proprio apporto per una cultura fraterna: l’esercizio della sinodalità, che pone di continuo in relazione l’unità e le differenze, l’intento comune nel riconoscimento delle diversità dei soggetti e nell’ospitalità dei molteplici percorsi di vita, è già in se stessa una vera e propria scuola di nuova socialità, educazione profetica alla cittadinanza attiva.
Il sapere dell’affezione
Porre la fraternità come originaria, e non successiva alla libertà e all’uguaglianza, porta con sé un’ulteriore conseguenza, che riguarda il modo con cui la stagione moderna ha pensato la conoscenza, riducendola di fatto alla ragione astratta. In effetti, l’esperienza fraterna, lungi dall’essere un generico afflato intimistico, rivela il sostrato affettivo dell’umano come un vero e proprio sapere, mai riducibile al controllo privo di emozioni o al freddo distacco della norma. L’ambito della fraternità lascia così intravedere un mondo dimenticato, messo da parte perché ritenuto irrazionale, infantile, in cui si intrecciano riconoscimento della fragilità, logica della tenerezza e passione per la vita dell’altro.
Solo a patto di riconsegnare a questo linguaggio tutta la sua serietà, la sua valenza pubblica e la sua potenzialità sociale è possibile superare una declinazione superficiale dell’esercizio fraterno[3]. L’insistenza dell’attuale pontificato sulle categorie di misericordia e di tenerezza può essere letta in questa direzione: proprio la capacità di sentire la diversità dell’altro “nelle viscere” è condizione di possibilità per una cultura fraterna.
L’esperienza cristiana custodisce in sé, a favore di tutti, la fraternità come l’originario dell’umano. È arrivato il momento di liberarne il potenziale culturale per le generazioni che verranno, non come questione riduttivamente ecclesiastica, ma come contributo propositivo all’umanizzazione del mondo da parte della Chiesa.
In questo modo la riforma ecclesiale non diventa una sterile questione fine a se stessa, ma può davvero avere la possibilità di sdoganare scelte, forme e stili che, proprio in quanto evangeliche, si manifestano nel loro respiro socio-culturale.
Figli e fratelli
La fraternità, dunque, è un compito che ci sta davanti, non un dato naturalmente acquisito. La Scrittura, in effetti, non ne parla mai in modo retorico, ma sempre come una vocazione che deve passare tramite ferite, fatiche, rielaborazioni continue, a partire da Caino e Abele, transitando per i gemelli Giacobbe ed Esaù, fino a Giuseppe e al percorso di riconciliazione con i suoi fratelli.
Gesù, il Figlio, annuncia che il duro lavoro della fraternità è possibile, divenendo lui per primo il “primogenito di molti fratelli”. In che modo? Smascherando l’invidia come suggestione mortificante per i rapporti tra di noi. La parabola del padre misericordioso[4], soprattutto per un percorso di pastorale giovanile, può essere letta, in questa direzione, come la “parabola dei due fratelli”. Noi sappiamo le fragilità a cui è andato incontro il figlio minore partendo da casa tramite lo sguardo invidioso del fratello maggiore: “Ha divorato i tuoi averi con le prostitute”. Ma come fa a saperlo? Non era presente! L’invidia e il risentimento cancellano la fraternità, rendendo miopi, facendo vedere ciò che in realtà non c’è, o comunque contribuendo a ingigantire distanze e sensi di colpa. Il protagonista rimane il padre, certo, ma è pur vero che tutto il racconto si gioca attorno a ciò che la misericordia paterna scatena nei due fratelli: il confronto fecondo, libero, sincero con il proprio fallimento nel caso del figlio minore e il cuore invidioso, triste, appesantito nella reazione imprevista del figlio maggiore. La parabola diventa così un percorso di liberazione dalla prigionia dell’invidia, vera e propria “iniziazione sinodale”, nell’attesa struggente che la fraternità possa sfociare nel suo festeggiamento alla tavola del padre. Questi sono gli occhi con cui il Figlio di Dio posa lo sguardo sulle forme e sui colori delle cose, della creazione, degli affetti, generando prossimità fraterna e rivelando il risentimento come vicolo cieco.
D’altronde, durante il suo congedo nell’ultima cena con i suoi discepoli, Gesù non ha timore di affermare: “Vado a prepararvi un posto. Nella casa del Padre ve ne sono molti, se no ve lo avrei detto!”[5]. Non c’è, dunque, un unico posto da accaparrarsi il più in fretta possibile a scapito degli altri, perché ciascuno, in realtà, avrà il suo: la fraternità, nello sguardo non invidioso del Figlio, è resa così finalmente possibile, fino in fondo e per sempre.
Concludendo: che la fraternità stia all’origine, sia della libertà che dell’uguaglianza, si manifesta nel mandato del Risorto a Maria di Magdala: “Va’ dai mie fratelli!”[6]. Siamo di fronte alla più semplice e potente immagine di Chiesa, che oggi definiremmo sinodale: nessuno è inviato in proprio, ma dentro il faticoso confronto con i fratelli nella fede, i quali lo sono perché innanzitutto “di Gesù”, appartenenti a Lui prima ancora di incontrarli. È il suo Spirito, dunque, che continua a garantire il miracolo fraterno, anche quando i nostri occhi cadessero nella tentazione ricorrente dell’invidia. La sinodalità, forma tramite la quale il Signore Risorto abita in mezzo a noi, sta o cade su questo punto.
NOTE
[1] A tale proposito scrive Andrea Grillo: “Libertà ed eguaglianza sono necessarie, ma non sono sufficienti. Questo è la virtù e il vizio del mondo moderno: di avere molto sviluppato la libertà e la uguaglianza, ma di faticare troppo a cogliere le logiche della fratellanza, senza la quale non vi è né vera libertà, né vera uguaglianza. La prima si converte facilmente in individualismo, la seconda in omologazione e/o in consociazione. Pertanto, si tratta di ‘dare radice’ alla libertà e alla uguaglianza, che non stanno all’inizio, ma nelle conseguenze di una ‘amicizia sociale’ e di una ‘fratellanza universale’. Si potrebbe dire che Francesco non rinuncia affatto ad abitare il mondo moderno. Ma vuole innestare la libertà e l’uguaglianza nella fraternità, non viceversa. La solidità del soggetto è nella solidarietà: il prendersi cura dell’altro è la vera garanzia del sé. Purché il sé possa scambiarsi con l’altro, mettersi nei panni, stare al posto, riconoscersi riconosciuto. Sulla base di questo atto di riconoscimento, tutti hanno dignità originaria e inalienabile”. Cfr. A. Grillo, Uomini… fratelli tutti? L’abbozzo di un sogno, Cittadella Editrice, Assisi 2021
[2] L’enciclica di Papa Francesco “Fratelli Tutti” si muove in questa direzione, riflettendo sull’amicizia sociale nella sua profeticità culturale. Indicativi a riguardo, sono i numeri 103 e 104.
[3] Cf I. Guanzini, Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile, Ponte alle Grazie, Milano 2017
[4] Cfr. Lc 15, 11-32
[5] Cfr. Gv 14, 1-3
[6] Cfr. Gv 20, 17