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    Educare alla cittadinanza /2

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2021-03-68)


     

    Una canzone per te
    E non ci credi eh?
    Sorridi e abbassi gli occhi un istante
    E dici “non credo di essere così importante”
    Ma dici una bugia
    E infatti scappi via
    Vasco Rossi (Una canzone per te)

    Il volto dell’altro, il suo corpo, i suoi occhi. L’altro che incontriamo per caso nella vita, che cerchiamo disperatamente per anni, che ci capita davanti quando vorremmo essere soli. Qualcuno potrebbe pensare di poterne fare a meno. Una morale dell’egoismo e dell’individualismo competitivo potrebbe portare a pensare che l’altro sia solo un impaccio alla mia autorealizzazione. Oppure si potrebbe definire l’altro (appunto de-finirlo) a partire da una sua appartenenza a un gruppo: “i disabili”, “gli omosessuali”, “i migranti”. Operazione sottilmente pericolosa perché di solito generalizza un solo tratto del gruppo preso in esame, spesso uno dei tratti considerati negativi, e lo sovrappone alla irripetibile individualità del singolo (“sono tutti uguali”; “questo comportamento è tipico di loro”).
    L'altro è difficile da incontrare proprio perché, pur contenendo dentro di sé le tracce e sedimenti dei gruppi che ha attraversato e nei quali sviluppa la sua individualità, lo fa sempre a partire da un punto di vista unico e irripetibile; troppa sociologia anche benintenzionata ha ridotto il soggetto a un mero accumulo dei gruppi e delle organizzazioni che ha attraversato. Ma come l’”io”, anche il “tu” è qualcosa di più. L'altro è un prisma che imprigiona la luce e la rimanda a suo modo, dando luogo a configurazioni sempre diverse e inedite. La Costituzione Italiana è scritta dai cittadini e per i cittadini; come ogni testo normativo ovviamente contiene elementi di generalizzazione, ma la si deve leggere come rivolta a ciascuno di noi, e soprattutto la si deve interpretare come un invito ad accompagnare, a conoscere, a rispettare l'altro, sia in quanto singolo sia in quanto parte di un gruppo. Questa è la vera sfida e la vera difficoltà della cultura civica: non ridurre l'altro né ad una specie di monade senza finestre né ad un esemplare di un gruppo, tenere insieme individualità e socialità.
    Uno degli esempi più evidenti è dato dall’Articolo 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” Quando leggiamo questo articolo dobbiamo pensare a milioni di individui che sono attraversati dalle varie definizioni che troviamo in queste righe; il sesso, la lingua, la religione, le condizioni personali e sociali si intrecciano per costituire ciascuno e ciascuna di noi e lo fanno sempre in modo nuovo in modo diverso. Nessuno è riducibile al suo genere, alla sua lingua, alla sua cultura; ogni Operazione riduzionistica è di per se stessa antidemocratica. La Costituzione ha bisogno di queste diversità perché ritiene che una democrazia nasca solo e unicamente nella composizione tra diversi; e vuole che la diversità sia tale fino in fondo, vuole che ogni singolo cittadino rifletta sul suo essere uguale e al contempo diverso, e lo faccia solo nell'incontro con l'altro.
    Così l'incontro con l'altro non è semplicemente un accidente evitabile, ma costituisce il fulcro della vita civica e sociale: perché l'altro si mostra in parte uguale a me, in parte differente, perché anch’egli/ella è un “io” ma io lo vivo come un “tu”. E dare del tu all'altro significa riconoscergli umanità, attribuirgli quell’individualità e quella soggettività che spesso si è tentati di tenere stretta solo per se stessi.
    Per dare del tu all'altro però devo conoscere il suo nome. È molto interessante che l'articolo 22 della costituzione riconosca il diritto al nome come uno dei diritti fondamentali del cittadino: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”. Chiamando l'altro per nome gli attribuisco la soggettività compiuta, privandolo del nome gliela sottraggo; non è un caso che i nazisti toglievano il nome e cognome ai deportati attribuendo loro un numero seriale. Conoscere l'altro per nome significa conoscere la sua storia, entrare dentro la sua narrazione. Il diritto al nome è il diritto all'esistenza civica, che si sovrappone a quella fisica; è il diritto al riconoscimento del fatto che stiamo parlando di una persona, di un soggetto e non di un oggetto. Spero non sembri irriverente il paragone con gli animali domestici: anche ad essi diamo un nome e da quel momento diventano i nostri amici, i nostri compagni di vita, escono dall’indistinzione della specie per diventare veri e propri soggetti. La Costituzione Italiana non pensa ai cittadini o in generale agli esseri umani solo come membri di una specie, ma come singoli irripetibili portatori di un nome, di una storia, di una cittadinanza che incrocia le precedenti due dimensioni.
    Il secondo comma dell'articolo 3, da considerare forse come il vero motore della Costituzione, mostra quali sono gli strumenti possibili per far sì che il diritto al “tu”, il diritto dell’altro alla soggettività non sia soltanto qualcosa di astratto. “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Essere soggetto non è un lusso ma un diritto. Gli ostacoli dei quali parla la Costituzione sono vissuti soggettivamente in modo diverso da ogni cittadino. È del tutto ovvio per esempio che occorre eliminare le barriere architettoniche, ma gli ostacoli frapposti al fatto che una persona con disabilità possa viversi autenticamente e profondamente come cittadino sono anche di ordine culturale e sociale. È dunque compito di ciascuno lavorare su se stesso insieme agli altri per capire dove si collocano questi ostacoli e chiedere allo Stato di rimuoverli, ma per fare la propria parte attiva per questa rimozione. L’art. 3 obbliga “la Repubblica” a intervenire per la rimozione degli ostacoli, ma in quanto ogni singolo cittadino è parte integrante dello Stato questa obbligazione vale per ciascuno di noi.
    Per questo però è necessario poter incontrare l’altro nella sua specifica diversità. Ciò è impedito da qualunque progetto o processo di educazione monocorde nella quale il principio giuridico “siamo tutti uguali” viene stravolto nel senso di “non vogliamo vedere persone diverse da noi”. In molte zone d’Italia i genitori dei ragazzi di origine italiana iscrivono i loro figli a scuole nelle quali non vi sono ragazzi stranieri: questa forma di autoghettizzazione danneggia in primo luogo gli stessi ragazzi italiani che vivono un’esperienza fittizia, che non li prepara alla società multiculturale che costituisce il futuro inevitabile per ogni paese dell’Occidente. E soprattutto questa scelta danneggia la democrazia nel suo intimo, crea una sorta di Repubblica separata all'interno della quale la diversità è vissuta come una minaccia e non come un valore. I danni che situazioni del genere possono causare la democrazia sono incalcolabili, perché lavorano profondamente nelle coscienze dei ragazzi dei futuri adulti.
    Spiace constatare in scelte di questo tipo quanto si perde quando non ci si confronta fisicamente con la differenza e la diversità: crescere soltanto in mezzo a persone come noi, posto che sia possibile vista la assoluta irripetibilità del singolo, non è un vero processo di crescita, è solo un meccanico rispecchiare il proprio narcisismo dentro gli occhi dell'altro. È certamente difficile incontrare l'altro, dargli del tu, ma l'arricchimento che tutto ciò porta a sé e all'altro vale decisamente la fatica. Crediamo fermamente che in queste classi i ragazzi non riconoscono l'altro nemmeno nel loro compagno appartenente alla stessa classe sociale; crediamo che si realizzi una chiusura su se stessi che vede nell'altro semplicemente un clone della propria identità.
    E incontrare l'altro significa anche incontrare i gruppi del quale egli o ella fa parte, appunto la dimensione sociale dell'essere umano ribadito in più parti nella nostra Costituzione per esempio nell'articolo 18: “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”. Anche in questo caso occorre uscire dal particolarismo dei propri gruppi, per non applicare a livello gruppale lo stesso errore che si fa a livello individuale, ovvero di chiudersi dentro al noi come se fosse il guscio di un’ostrica: “solo noi abbiamo ragione”, “noi siamo i migliori”, “noi siamo l'élite”: frasi che distruggono la base della democrazia. Il che ovviamente non impedisce ad alcuno di trovare un gruppo al quale appartenere, anzi da un certo punto di vista stimola questa appartenenza (art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità) ma al contempo crede che solo nel confronto e nella composizione delle idee e degli interessi dei gruppi sia realizzabile il vero dialogo.


    T e r z a
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