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    Educare alla cittadinanza /5

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2021-06-61)


    Di chi è il mondo? Il tempo ha un proprietario? Il futuro appartiene a qualcuno? Chi può vantare un diritto di proprietà sul passato? E le solitudini siderali, le galassie nelle quali l’uomo forse non metterà mai piede, sono di qualcuno? Sentiamo sempre di più la pesantezza del verbo “avere” che ha sostituito il verbo “essere” penetrando in tutti gli ambiti della vita umana. E soprattutto le artificiali e artificiose distinzioni tra “noi” e “loro”, la creazione di comunità immaginarie che sarebbero in inevitabile lotta tra loro secondo la feroce ideologia dello scontro di civiltà, rafforza l’idea che esista il “nostro”, il “vostro”, il “loro”, e che occorra erigere barriere e recinti per evitare qualsiasi forma di sconfinamento. Si è arrivati a coniare un’espressione assurda come “la nostra cultura”, e lo si è fatto in un Paese come l’Italia che è il simbolo di quanto le culture siano sempre miste, meticcie, intrecciate. Cosa sarebbe Dante senza il mondo arabo? Di chi avremmo festeggiato il centenario? Del “nostro” Poeta? E “nostro” di chi? Dei fiorentini, dei Guelfi, dei Toscani?
    Nel passaggio dal personale al collettivo il problema della proprietà esclusiva di quelli che dovrebbero essere beni comuni diventa ancora più tragico. Il fatto che ci siano interi popoli esclusi dall' accesso alle risorse minime per la vita è solo l'aspetto più drammatico e apre un problema molto più ampio: la questione è se la proprietà possa essere stesa a qualunque bene sulla terra e al di fuori di essa e soprattutto se questo tema possa essere risolto semplicemente col definire giuridicamente “di chi è” il bene oppure se questa stessa domanda potrebbe possa trascesa.
    Le prime rivolte dei contadini inglesi contro i latifondisti e i nuovi padroni della terra nacquero nel momento in cui attraverso barriere reali di filo spinato vennero realizzate le cosiddette enclosures: quei pascoli che prima erano comuni agli animali degli allevatori, quelle fonti d'acqua che permettevano il libero accesso a coloro che ne avevano bisogno furono trasformati in spazi privati, segnati da tasse e da diritti di passaggio e di servitù (parola significative che è ancora oggi presente nei rogiti notarili). A questo si riferisce Rousseau nel Saggio sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini quando afferma: “II primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire "questo è mio" e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: "Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!". Quando si dice che Rousseau, anche nell’Emilio rifiuta la civiltà in nome di un ritorno alla natura si fa un’affermazione banalissima: in realtà Rousseau ha in mene un determinato rapporto dell’uomo con la natura, precedente quell’appropriazione selvaggia che ha traviato il mondo e le cui tracce si fanno ben vedere nello straordinario addio a Parigi presente appunto nell’Emilio.
    Il documento che negli ultimi anni ha ripreso con più forza profetica il tema della proprietà comune della terra e degli altri beni comuni è l’enciclica Laudato Sì di Papa Francesco, che ricolloca il discorso nelle regioni del Sud del Mondo nelle quali l’appropriazione dei beni comuni è più acuta: “la terra dei poveri del Sud è ricca e poco inquinata, ma l’accesso alla proprietà dei beni e delle risorse per soddisfare le proprie necessità vitali è loro vietato da un sistema di rapporti commerciali e di proprietà strutturalmente perverso”. (52). Francesco smentisce lo stereotipo dell’”Africa continente povero” ricordando che semmai esso è il più ricco tra i continenti e proprio per questo ha attirato la rapace sete di proprietà dell’imperialismo e del neoimperialismo. Dopo questo chiarimento geopolitico, Francesco riporta la questione alla sua dimensione teologica e scritturale: “perciò Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Lv 25,23) (67); ma oltre al fondamento teologico l’enciclica ha anche un riferimento di tipo antropologico e diremmo pedagogico laddove sottolinea il legame dell’appropriazione dei beni comuni con il pensiero neoliberista del nuovo darwinismo sociale che pretende che l’unico diritto sia la forza: “la visione che rinforza l’arbitrio del più forte ha favorito immense disuguaglianze, ingiustizie e violenze per la maggior parte dell’umanità, perché le risorse diventano proprietà del primo arrivato o di quello che ha più potere: il vincitore prende tutto” (82)
    Proprio per contrastare le derive neoliberiste che fanno entrare a forza il pensiero economicista in tutti gli ambiti della vita, da anni ormai si parla di beni comuni indicando con questa espressione non solo i beni materiali (l’acqua, l’aria, l’oceano) ma anche alcuni beni parzialmente immateriali (la cultura, l’istruzione, la salute) e addirittura il tempo (si parla giustamente di capitalismo temporale alludendo al fatto che il bene di cui il nuovo dominio maggiormente deruba i suoi sudditi è proprio il tempo della cita e degli affetti Ma di chi sono i beni comuni? Sarebbe banale e deresponsabilizzante rispondere che “non sono di nessuno”; in realtà potremmo prima di tutto dire che essi appartengono a se stessi, il che significa che dobbiamo approcciarci ad essi non come oggetti ma quasi come fossero dei soggetti. Il mare è titolare di diritti e così lo è la cultura: a questi beni dobbiamo chiedere il permesso per poterne godere, e dunque avvicinarci ad essi con cautela. E chi è il “noi” che ne è responsabile? L’umanità? Tutti gli esseri viventi? Anche quelli che stanno per nascere? Proprio questo soggetto collettivo dovrebbe essere da un lato il garante del rispetto dei beni comuni anche in futuro, dall’altro però non può sfumare le responsabilità individuali ma al contrario potenziarle. Io scelgo si non inquinare quando ho 14 anni per rispetto del mio nipotino che potrebbe anche non venire mai al mondo; in questo senso il comportamento etico riguardo ai beni comuni necessita prima di tutto e soprattutto di fantasia e immaginazione.
    Ampliare i confini del “noi” però non basta, o perlomeno deve portarci anche a una riflessione sulla possibilità che non tutto appartenga alla specie umana per quanto si possa intendere questo termine in forma allargata. Possiamo allora rinunciare a qualcosa che riteniamo “nostro” riconoscendolo “vostro” rispetto per esempio agli animali? Lasciare un terzo della terra alla vita selvaggia come propone uno scienziato? Della natura non ci si può e non ci di deve appropriare, da un certo punto di vista la si può tutelare, ma forse una delle cose più importanti che noi possiamo fare rispetto ad essa è imparare a lasciarla in pace ovvero a lasciarle i suoi spazi e i tempi della sua nascita del suo sviluppo e della sua morte. L’impronta ecologica dell'essere umano sulla Terra è sempre più devastante ed è forse soprattutto un’impronta psicologica, l'idea che questo pianeta in qualche modo dovrà per sempre prevedere una presenza umana. Basta in realtà leggere un bellissimo romanzo come Anni senza fine dello scrittore di fantascienza statunitense Clifford Donald Simak per immaginarci un futuro nel quale l'essere umano sarà soltanto una leggenda raccontata dai cani in una notte di luna piena, e la natura sarà restituita a se stessa. Ovviamente le tracce della mano rimangono in questa straordinaria novella sia come devastazione sia come cura, una cura pensata per uomo anche oltre la sua presenza; ma a libro chiuso l’uomo e la donna pensano alla possibilità di un passaggio più leggero sulla Terra.
    E poi c’è l’altrui, perché c’è l’altro. L’altro che non conosciamo, che non possediamo, e l’Altro che preghiamo e veneriamo. La Terra non è forse di tutti e di nessuno, essendo un oggetto Altrui nel Cosmo? “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini” (Lev 25,23): forse possiamo pensare a un anno sabbatico universale, un’epoca sabbatica cosmica nella quale restituire a Dio ciò che essendo Suo è di tutti e non è di nessuno?


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