Lettere Europee /8
Renato Cursi
(NPG 2021-03-2)
Dopo secoli in cui è stata soprattutto terra di emigrazione verso altri continenti, in particolare quello americano, l’Europa da qualche decennio è tornata ad essere la meta di flussi migratori continui, multipli e misti. Continui, perché si assiste ormai da più decenni all’arrivo di centinaia di migliaia di persone in Europa ogni anno, con alti e bassi (compresi quelli registrati nell’anno della pandemia) che non alterano significativamente una tendenza crescente. Multipli, perché provenienti da diversi continenti e direzioni. Misti, perché questi flussi vedono protagoniste persone che migrano verso l’Europa con motivazioni differenti: dalla ricerca di migliori opportunità di vita in senso ampio, alla ricerca di asilo e protezione da catastrofi o persecuzioni di vario tipo. Da una parte, occorre riconoscere che anche nei secoli in cui è stata terra di emigrazione, l’Europa ha pur sempre assistito al continuo movimento delle popolazioni all’interno del suo territorio. D’altra parte, è pure evidente che la recente realtà delle migrazioni verso l’Europa da diversi continenti contemporaneamente rappresenta una sfida e un’opportunità inedita, cui sarebbe inadeguato paragonare altri episodi del passato come i movimenti delle popolazioni nord-asiatiche dei primi secoli dopo Cristo.
La storia dell’umanità e dell’Europa è da sempre segnata dalle dinamiche innescate da questi movimenti di popolazione, e la risposta che i popoli europei sapranno offrire oggi a questa sfida e opportunità ne segnerà certamente il futuro. Lo stesso Vangelo migrò in Europa due millenni or sono da quella regione chiamata oggi dagli europei “Medio Oriente”, segnando da allora profondamente il futuro dei popoli europei, che in fondo è anche il nostro oggi. Come sono chiamati a porsi oggi gli eredi di quel dono nei confronti di un fenomeno migratorio in parte inedito? Analizziamo il contesto di questo discernimento prima di presentare la proposta che oggi sfida su questo terreno la pastorale giovanile in Italia ed in Europa.
La storia consegna oggi ai popoli europei l’eredità di un processo di integrazione che assume nella sua forma più recente le vesti di un’Unione Europea. L’organo dotato di iniziativa legislativa all’interno di quest’organizzazione, la Commissione Europea, ha presentato il 23 settembre scorso un insieme complesso di misure volte a costituire un “Nuovo Patto sulla Migrazione e sull’Asilo”, con il proposito di offrire “un nuovo inizio in materia di migrazione in Europa”. L’aggettivo “nuovo” fa riferimento ad un “vecchio” sistema di regole comuni, in particolare in tema di esame delle domande di asilo.
Se già nei primi decenni del processo di integrazione intrapreso all’indomani della seconda guerra mondiale, i singoli Stati europei iniziarono a dotarsi di misure nazionali per adeguarsi al fenomeno delle migrazioni da Paesi non europei, è solo all’indomani della cosiddetta “guerra fredda”, che si arrivò ad un accordo comune sulla determinazione dello Stato competente per l'esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati Membri delle Comunità Europee. Questa Convenzione, siglata nel 1990 a Dublino a partire da quanto già previsto dalla Convenzione internazionale di Ginevra del 1951, è il pilastro su cui si sono fondate negli ultimi trent’anni le politiche europee in tema di asilo e rifugiati. Le disposizioni europee adottate nel frattempo, infatti, hanno sempre confermato la regola per cui lo Stato Membro competente all'esame della domanda d'asilo è il primo Stato attraverso cui il richiedente asilo ha fatto il proprio ingresso nell'Unione Europea. Questa regola comportava un sistema iniquo, per cui l’onere dell’esame delle domande di asilo, cresciute in maniera significativa nel tempo fino a superare il numero di un milione all’anno nel biennio 2015-16, ricadeva esclusivamente sui Paesi posti alla frontiera meridionale e sudorientale dell’Unione (Cipro, Grecia, Italia, Malta, Spagna).
Il “Nuovo Patto” si prefigge pertanto di superare queste iniquità, sulla base di “un equilibrio tra responsabilità e solidarietà”, e di cambiare la narrativa europea sulla migrazione, guardando ai bisogni e alle prospettive di un continente che invecchia ma vuole continuare a crescere. Ci riesce davvero? Le prime analisi di questo insieme complesso di misure che devono in buona parte essere ancora ratificate e forse emendate dal Parlamento Europeo e dal Consiglio, che riunisce gli Stati Membri dell’UE, sembrano concordare nel descrivere come poco convincente e in parte deludente il risultato finora raggiunto. In primo luogo, la narrazione sulla migrazione, che in precedenza era fondata su logiche e linguaggi di tipo securitario, viene solo in parte ribaltata. Non si hanno ancora informazioni certe su quanti e quali altri canali verranno aperti per la migrazione regolare verso l’Europa. Anche laddove nel Patto si guarda alle opportunità di una migrazione gestita secondo i principi di responsabilità e solidarietà, sembra prevalere l’interesse a selezionare le sole persone altamente qualificate, a danno di chi potrebbe invece incontrare in Europa delle opportunità di crescita e formazione professionale da mettere al servizio delle comunità di destinazione. In secondo luogo, il sistema di Dublino viene “forse” superato solo in parte. Il Patto prevede un “modello di solidarietà” costante e flessibile, che dovrebbe subentrare in maniera sistemica e non più emergenziale al vecchio modello. Gli Stati Membri dell’UE sono vincolati da questo meccanismo a condividere l’onore dell’esame delle domande di asilo delle persone arrivate nei Paesi di primo ingresso attraverso tre opzioni: 1) Ricollocare sul proprio territorio parte delle persone arrivate in un Paese UE di frontiera; 2) Sponsorizzare i rimpatri, assumendosi la responsabilità di rimpatriare una persona priva del diritto di soggiornare per conto di un altro Stato membro; 3) Altre misure di sostegno, immediato o a più lungo termine, per lo sviluppo di capacità in materia di procedure di asilo, accoglienza di nuovi arrivati o operazioni di rimpatrio, assistenza per rispondere a specifiche tendenze migratorie che interessano gli Stati membri attraverso la cooperazione con i paesi terzi.
Prima di rilevarne le criticità, occorre premettere che questo meccanismo entrerà in vigore solo se realmente tutti gli Stati Membri dell’UE confermeranno di volerlo accettare. Possibile che in Europa non ci si accordi neanche su un tale compromesso al ribasso? Pur trattandosi apparentemente di un compromesso difficile, occorre infatti denunciare che, in termini di responsabilità e solidarietà, la sponsorizzazione dei rimpatri non può essere messa sullo stesso piano della ricollocazione delle persone che avrebbero bisogno di protezione. Restano inoltre molti dubbi sull’implementazione pratica di questo sistema, che comunque lascerebbe in capo agli Stati di primo ingresso la responsabilità logistica della gestione di queste persone. Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, ci si può soffermare almeno sull’inadeguatezza dell’uso di termini come “Paese terzo sicuro” nell’esame delle domande di asilo e sulla mancanza di chiarezza rispetto alla previsione di misure di detenzione (quanto a lungo dovremo accettare o fingere di ignorare le situazioni inumane degli “hotspot” in Europa, dei lager in Libia o della condizione dei migranti lungo le rotte balcaniche?).
Alla pastorale giovanile, in Italia come in Europa, è proposto di accogliere, proteggere, promuovere ed integrare le persone migranti che raggiungono queste terre. Papa Francesco l’ha ribadito in più occasioni, compresa l’ultima Lettera Enciclica Fratelli tutti (FT), in cui alle “ombre di un mondo chiuso” contrappone “un cuore aperto al mondo intero”. Il suo Magistero e la prassi di molti operatori in questi anni rappresentano dei riferimenti solidi per formarsi e formare i giovani a questi atteggiamenti e a questo servizio. Tanto nel vissuto ecclesiale quanto in quello istituzionale, in Italia come in Europa, si riscontra tuttavia una certa polarizzazione di fronte a questa proposta. All’indifferenza e alla tiepidezza, si aggiunge talvolta anche una dura opposizione. Lo stesso Papa Francesco riconosce: “Comprendo che di fronte alle persone migranti alcuni nutrano dubbi o provino timori. Lo capisco come un aspetto dell’istinto naturale di autodifesa” (FT 41). Contestualmente, il Santo Padre invita però ad “andare oltre queste reazioni primarie”, perché “è anche vero che una persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé l’apertura agli altri” (FT 41).
Quanti giovani che incontriamo non sono sintonizzati con questa proposta? Quanti fedeli adulti e quanti operatori ecclesiali? Nei nostri incontri ecclesiali europei, stiamo forse rinunciando a confrontare le nostre visioni su migranti e rifugiati tra operatori di Paesi diversi? Compito degli operatori di pastorale giovanile allora è anche quello di rileggere questi quattro verbi nel nostro dialogo ecclesiale ed europeo in senso ampio. Si tratta di accogliere la Parola per cui ogni forestiero che bussa alla nostra porta è un’occasione di incontro con Gesù Cristo (cfr Mt 25,35.43), di proteggere quegli operatori che con la loro vita testimoniano questa Parola, di promuovere un dialogo con chi è freddo, tiepido o caldamente ostile nei confronti di questa Parola e di integrare queste fatiche e le critiche costruttive in uno sforzo comune, affinché la Chiesa sia in Europa una comunità unita e profetica nella sua apertura al migrante e al rifugiato.