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    Europa e digitale


    Lettere Europee /9

    Renato Cursi

    (NPG 2021-04-2)

    Meglio scrivere di propria mano al termine di un lungo discernimento o affidarsi ad un algoritmo professionale, dopo aver scelto qualche parola chiave e un obiettivo di fondo? Lo scopriremo solo leggendo. Certo, sembra improbabile che un algoritmo esegua il compito di redigere una riflessione sulle sfide digitali che ci troviamo a vivere oggi come umanità intera e, nel nostro caso, in Europa, ponendo una domanda del genere in apertura, sollevando sin dall’inizio dubbi sull’autenticità dell’autore del testo stesso.
    Il solo fatto che una tale domanda sia oggi possibile ci mostra la complessità della condizione che ci troviamo a vivere. Non viviamo più solo uno stato di connessione intermittente (online/offline), bensì una condizione “onlife”, come descrive il filosofo Luciano Floridi. Vale a dire, una vita in continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva. “Figitale”, direbbero altri, anche se in Italia non è ancora diffuso questo neologismo, frutto di una crasi volta a sottolineare la continua interazione tra realtà fisica e digitale.
    Una condizione instauratasi progressivamente nel corso degli ultimi tre decenni, ma sicuramente amplificata dalla pandemia di covid-19. Nella definizione di “onlife” illustrata sopra, la parola chiave è l’aggettivo “continua”. Il riferimento alla (quasi?) totale assenza di interruzioni nella nostra interazione tra realtà materiale e analogica, da una parte, e realtà virtuale e interattiva, dall’altra. Questa continuità si è consolidata con l’ingresso nelle nostre vite dei dispositivi tecnologici portatili, nonché con il loro rendersi più potenti e più indispensabili. Le limitazioni all’interazione fisica tra persone, rese necessarie dalle misure di contrasto alla diffusione del virus, hanno quindi amplificato questo processo già da tempo in atto.
    Alla dipendenza da schermi e al mal di riunioni e lezioni digitali, nei giovani sembrano accompagnarsi, tra le altre, due tendenze apparentemente contraddittorie. Da una parte, si avverte un certo fatalismo, un senso di impotenza e passività nei confronti di tutto ciò che è o in qualche modo dipende dal digitale. D’altra parte, si intravede un affidamento fideistico agli strumenti offerti dalle tecnologie digitali per cercare le risposte a bisogni e aspirazioni di ogni tipo. La condizione espressa dalla prima tendenza è quella che viene definita “powerlessness by design”, cioè la condizione di chi si sente progettato all’impotenza, consapevole ma costretto alla condizione di ingranaggio o variabile trascurabile di un grande algoritmo o di un’intelligenza artificiale progettati da altri. La seconda tendenza assume varie forme, tra cui quella descritta dall’antropologo Yuval Noah Harari con il nome di “dataismo”. Questa visione del mondo, che riconosce negli algoritmi e nei dati le uniche fonti di autorità in grado di sintetizzare criteri capaci di fondare e orientare le scelte delle persone, nelle sue forme più estreme arriva a concepire l’intero universo come un flusso di dati e la vita stessa come un mero algoritmo biochimico.
    Queste tendenze sono solo apparentemente contraddittorie perché, se pur da una parte sembrano mostrare sentimenti di rassegnazione e impotenza e dall’altra sentimenti di fiducia o addirittura fede nel digitale, in fondo condividono un senso di abbandono e spaesamento di fronte alla complessità e profondità della posta in gioco: la vita umana e il suo senso. Tuttavia, Papa Francesco ha ricordato nell’Esortazione Apostolica postsinodale Christus Vivit, che “non dobbiamo disperare né dimenticare che ci sono giovani che anche in questi ambiti sono creativi e a volte geniali”, come dimostrato dall’esempio luminoso del beato Carlo Acutis.
    Ad ogni buon conto, gli adulti hanno trasmesso alle nuove generazioni questi strumenti tecnologici e tutto il loro potenziale, che spesso i giovani sanno manipolare con maggiore creatività e rapidità degli adulti stessi. Resta tuttavia da chiedersi se oltre alla nave sia stata trasmessa anche la bussola o, per dirla con gli strumenti di oggi, se oltre alla macchina sia stato trasmesso anche il navigatore satellitare. È in questo senso che, anche nella pastorale giovanile, siamo chiamati a parlare di “algoretica”, come propone il teologo morale Paolo Benanti.

    Due transizioni per l’Europa

    La Commissione insediatasi all’indomani delle elezioni del Parlamento Europeo del maggio 2019 ha posto al centro del suo programma politico due transizioni fondamentali: quella verde, ecologica o della sostenibilità, e quella digitale. Come la prima, anche quest’ultima transizione è essenzialmente multidimensionale. Le sue implicazioni spaziano dalla gestione dei dati alla tutela della privacy, dalla sovranità digitale al diritto alla disconnessione dal telelavoro, dalla concorrenza per le telecomunicazioni all’educazione (al) digitale. Per quanto riguarda quest’ultima, la Commissione Europea, dopo aver consultato la società civile sulle recenti esperienze educative vissute durante le prime ondate della pandemia, ha recentemente presentato un Piano d’Azione per l’Educazione Digitale per il periodo 2021-2027. Il Piano d’Azione si struttura intorno a due macro-obiettivi: lo sviluppo di ecosistemi altamente performanti per l’educazione digitale e il rafforzamento di abilità e competenze per la trasformazione digitale. Nel documento si parla di alfabetizzazione digitale, educazione alla computazione, conoscenza e comprensione di tecnologie “data-intensive”, come l’intelligenza artificiale.
    Tra le altre cose, quello che sembra ancora mancare, e che un ampio sforzo educativo e pastorale può recuperare, è appunto un approccio “algoretico” all’educazione digitale. L’intelligenza artificiale può essere un bene, nella misura in cui libera l’uomo da lavori ripetitivi e logoranti. Occorre, però, accompagnare questo processo finalizzato a rendere computabili le valutazioni di bene e di male, al fine di creare macchine che possano farsi davvero strumenti di umanizzazione del mondo. Occorre, inoltre, educare giovani e adulti alla consapevolezza di queste dinamiche. L’etica ha bisogno di contaminare l’informatica, ma allo stesso tempo un’educazione digitale integrale non può fermarsi all’etica.
    La pastorale giovanile, in Italia e in Europa, deve prepararsi ad accogliere e stimolare le domande di senso dischiuse dalle nuove frontiere del digitale. Bisogna saper offrire una spiritualità e una trascendenza, oltre l’etica, per una pastorale giovanile che abiti con consapevolezza e coraggio il “cortile digitale”. Ci sono dinamiche intergenerazionali e sociali da affrontare con lucidità, di fronte a un panorama mediatico fatto di “bolle” isolate di pari età o di persone che la pensano allo stesso modo, in fuga dal dialogo con altre generazioni o con altre forme di pensiero. Autori esperti come Bruno Mastroianni educano da tempo alla “disputa felice” online per rompere queste dinamiche perverse dei social media. Questa pandemia, tuttavia, ci ha forse fatto capire più di prima quanto, al di là delle dispute digitali, sia importante custodire e coltivare l’arte della presenza educativa e della relazione faccia a faccia. Oltre gli schermi, c’è un’incarnazione che esige cura e attenzione.
    A pensarci bene, inoltre, c’è una base materiale e infrastrutturale molto concreta dietro a tutta l’offerta digitale che consumiamo, in Italia come in Europa. Non c’è virtuale senza base materiale. Non c’è “software” senza “hardware”. Nessun “cloud” gassoso senza solidi “server”. Che ruolo hanno l’Italia e l’Europa nella creazione e nello sviluppo dei prodotti tecnologici alla base della realtà digitale che viviamo? I materiali che compongono i chip di computer e smartphone provengono perlopiù da Africa e Asia, mentre le case produttrici degli stessi strumenti appena citati, nonché dei rispettivi software, sono americane o asiatiche. Internet, i principali social media, i sistemi operativi di telefoni cellulari e tablet, sfuggono al controllo autonomo di Italia e Europa. Sovranità digitale è una parola forse ipocrita nel mondo interconnesso di oggi, che costruisce valori aggiunti in determinati luoghi privilegiati a partire da materie prime estratte altrove. L’interdipendenza, tuttavia, è bella finché non si riduce a forme subdole di dipendenza, come purtroppo hanno già imparato, anche a causa nostra, altre regioni del mondo in tempi passati. Per poter scegliere i termini dell’interazione “onlife” tra reale e virtuale, occorre dotarsi di mezzi e di un pensiero all’altezza della sfida. O rassegnarsi a subire quanto stanno già propinandoci o preparandoci altrove.
    Potremmo allora concludere questa riflessione con un esercizio tanto urgente quanto complesso. Se dovessimo o potessimo disegnare un gigante digitale europeo, in che misura vorremmo che fosse diverso da quanto ci propongono oggi i giganti digitali americani e asiatici? Nel caso di un’intelligenza artificiale europea, quali valori e quali criteri di discernimento vorremmo imprimergli? È tempo di pensarci, insieme. Se non lo faremo noi, lo farà o lo sta già facendo qualcun altro. Magari un algoritmo.


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