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    che empie il nido di limoni?
    Perché non insegnare a estrarre
    miele dal sole agli elicotteri?
    Dove lasciò la luna piena
    il suo notturno sacco di farina?
    Pablo Neruda, Libro delle domande

    Nel 1935 l’intellettuale Werner Sombart scrisse: “L’arte della discussione è finita. Nessuna discussione bensì la decisione domina ora la scena”. Era una cupa diagnosi di un’Europa che stava precipitando nel totalitarismo, e che avrebbe per anni dimenticato la possibilità di discutere. Ma discutere significa sapersi porre domande. Non è una reale discussione la farsa che si svolge sui social, nei quali ciascuno “posta” la sua idea, o meglio il suo slogan e tutto poi scivola rapidamente verso l’insulto e l’attacco personale. Non è discussione dire “io la penso così” e fare delle proprie idee uno schermo nei confronti di qualsiasi dubbio. Certo, la democrazia richiede anche la capacità di prendere posizione e di decidere; ma se il tempo della decisione è abbreviato, se tutto si riduce alla pseudo-scelta tra due opzioni senza che sia possibile immaginare un compromesso o capire le ragioni dell’altro, la democrazia è davvero in pericolo.
    Il senso civico è l’arte di porsi domande; ad alcune sappiamo fornire una risposta, per altre occorre che ascoltiamo le idee altrui, altre avranno risposte in futuro, altre ancora non ne avranno mai. Abituare i ragazzi a scuola ai mortiferi test a crocette nelle quali tutta la verità è in una risposta e tutta la falsità nelle altre significa educare a qualcosa che non è la vita. Le domande che dobbiamo imparare a porci e a porre agli altri sono aperte, nel senso che ci accolgono e ci coinvolgono al loro interno come parte del problema e come parte della soluzione. Proviamo ad elencarne alcune.

    Chi sono io?

    L’Io ha bisogno del non-Io. Lo impariamo quando studiamo la filosofia idealistica tedesca, ma forse non riflettiamo a sufficienza sul fatto che la costruzione della nostra identità passa attraverso il riconoscimento del mondo che non è “noi” e degli altri “io” che ci circondano.
    Ma cosa intendiamo per “identità”? Forse nessun altro termine è stato sottoposto a critica, al punto che un ottimo libro pubblicato anni fa da Giampaolo Lai si intitolava Dis-identità. La critica a una identità irrigidita, arrogante, autosufficiente è fondamentale ma deve essere affiancata anche da un supporto a una identità che comunque è indispensabile per non andare in frantumi nel marasma del mondo.
    Libri come Risvegli di Oliver Sachs, L’io diviso di R. D. Laing e soprattutto La fortezza vuota di Bruno Bettelheim ci mostrano cosa accade quando, in condizioni differenti (il parkinsonismo grave, la schizofrenia, l’autismo) l’io crolla su se stesso. Un Io che non si sente più utile nemmeno a e stesso perché non riesce più a cogliere il senso e l’utilità delle sue azioni è un Io finito, crollato, collassato.
    La cultura civica ci insegna che possiamo modificare il mondo e che proprio nei cambiamenti che riusciamo a provocare nella realtà è nascosta la risposta alla domanda “chi sono io?”. Bettelheim racconta che il senso dell’Io di una bambina autistica cominciò ad emergere dal ritiro su ste stessa quando, attraverso il gioco, la bimba “mostrava di avere compreso che oltre all’accettazione e al rifiuto della realtà esisteva una terza alternativa possibile: trasformarla in qualcosa di migliore” (La fortezza vuota, Garzanti, p. 201). Agendo sulla realtà incontriamo noi stessi, cambiando la nostra parte di mondo incontriamo gli altri, anch’essi agenti di cambiamento, anch’essi portatori e titolari di progetti. L’Io nasce quando capisce che può essere protagonista attivo del mondo e partecipare -questa parola così importante in una democrazia - alla ridefinizione delle sue categorie.

    Che cosa è questo?

    In questo senso allora anche la realtà cambia aspetto. Il mondo, quando partecipiamo insieme agli altri al suo cambiamento, non ci appare più come qualcosa di rigido e di immodificabile, anche se dobbiamo ammettere che non è in nostro potere – “nostro” come singoli individuo ma anche “nostro” come specie umana – cambiare tutto. Anzi, proprio la distinzione tra ciò che possiamo cambiare e ciò che dobbiamo accettare, per dirla con Bonhoeffer tra “la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa di fronte al destino” è l’inizio della consapevolezza di essere cittadini, di essere titolari di diritti e di doveri.
    Questo passaggio non può essere compiuto se non si tiene conto della dimensione storica. Non è un caso che l’abbassamento del senso storico, il rifiuto dello studio e dell’approfondimento della storia, coincida con una crisi del senso civico; e ci si domanda come sia possibile pretendere comportamenti civici da ragazzi che a scuola non studiano mai gli avvenimenti degli ultimi 50 anni, in una deprivazione della cultura democratica e del senso critico che ha davvero dell’incredibile.
    Ricostruire l'identità di un oggetto significa dunque ricostruire la sua storia, la sua evoluzione; e soltanto partendo dalla sua origine e dai suoi cambiamenti è possibile pensarlo al futuro. La rimozione della dimensione storica porta immediatamente ad una chiusura rispetto al futuro, perché se qualcosa non ha un passato, se non se ne conosce la storia, non se ne può nemmeno immaginare un cambiamento, una evoluzione.

    Quale è la scelta migliore?

    Per questo motivo la difficoltà nel ricostruire la genesi storica degli oggetti porta anche ad una parallela difficoltà nella scelta. Viviamo in un mondo orizzontale, nel quale tutto sembra uguale a tutto, nel quale la libertà di espressione viene modificata in arbitrio, nel quale la responsabilità dell'enunciato diventa apparente libertà di dire tutto ciò che si vuole. Solo il recupero della dimensione storica ci porta a capire che non tutte le cose sono uguali, che non tutte le posizioni si equivalgono. Dietrich Bonhoeffer scriveva: “Ci sono poi frammenti che fanno ormai parte solo della spazzatura (...) e altri che restano significativi attraverso i secoli”. La capacità di discernimento non è solo distinguere in modo un po’ manicheo il buono dal cattivo, ma saper cogliere negli oggetti le sfumature, le piccole differenze; e saper scegliere, senza arroganza e con apertura a possibili cambiamenti di idee e di posizioni, ma anche senza accomodarsi nella fila degli ignavi per i quali “va bene qualunque cosa”. Perché questo rifiuto di scegliere in realtà è già una scelta, che ci fa seguire, come nell’Antinferno di Dante, la bandieruola luccicante del mercato.

    Quanto costa?

    Crediti. Debiti. Portfolio. Curriculum. Non stiamo parlando di una banca o di una azienda ma della scuola. È agghiacciante come il mondo dell’educazione sia stato letteralmente colonizzato da un linguaggio e da un sapere di tipo economicista (e comunque ai ragazzi delle superiori non si insegna ancora a leggere un bilancio di un’amministrazione pubblica, a mostrare il carattere totalmente ideologico e demagogico dell’operazione). Conta solo ciò che si vende, vale solo ciò che ha un prezzo; “anche i migliori si danno un prezzo” cantava Guccini anni fa; forse è troppo pessimistico pensare che tutti siano complici, ma è davvero sconfortante vedere come l’educazione abbia ceduto a queste tentazioni contabili, per cui tutto ciò che si insegna e si apprende viene valutato unicamente sotto il profilo della sua spendibilità.
    Come parlare di cultura civica in questa situazione? Come spiegare che passare tutto il pomeriggio di fianco a un amico che ha subito una paralisi totale, umettando ogni tanto la bocca o asciugando il sudore, oppure fare un lungo viaggio per vedere per dieci minuti una tela di Picasso, o ancora passare la mattinata a cercare di liberare un gattino che è rimasto chiuso nel bagagliaio di un’auto sono azioni che non hanno prezzo, non hanno ricavo, non sono letteralmente visibili e leggibili con le lenti dell’efficienza e del profitto?
    L’educazione è portata a resistere a questa invasione, e in questo è già cultura civica. Scriveva Shelley: “Cosa sarebbero la virtù, l’amore, il patriottismo, l’amicizia, quali sarebbero i paesaggi di questo splendido universo che abitiamo, quali sarebbero le consolazioni da questa parte della tomba, e quali sarebbero le nostre aspirazioni al di là di essa, se la poesia non si innalzasse a portare luce e fuoco da quelle eterne regioni dove il calcolo dalle ali di civetta non osa mai volare?”. Questa è una delle domande aperte che dobbiamo porci e porre ai nostri ragazzi per una democrazia che privilegi la domanda, anche se questo significa rifiutare le false offerte di semplificazione e pseudofelicità.


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