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    Una micropedagogia nelle periferie esistenziali


    Presentazione del pensiero e del metodo di don Alfonso Alfano, Salesiano

    Elvira Lozupone *

    (NPG 2020-07-44)

     

    L’educazione è mestiere difficile che in rari casi sale agli onori della cronaca e della storia; nel suo svilupparsi essa accoglie l’impegno e le storie di moltissimi personaggi ‘invisibili’ rispetto figure politiche importanti o a santi educatori, che hanno applicato l’ arte educativa pazientemente, lontano dai riflettori, nella quotidianità, per aiutare generazioni di giovani a divenire bravi cittadini. Sono personaggi testimoni del loro tempo, narrato talvolta in prima persona, e del passato, un passato formativo che ha plasmato i modi personali di concepire l’educazione e praticarla.
    Può sembrare tautologico che un salesiano divenga oggetto di ricerca pedagogica per un’opera educativa, di per sé intrinsecamente legata al carisma della congregazione; eppure prendendoci qualche rischio, riteniamo valga la pena gettarci nell’impresa ‘scontata’ di illustrare una pedagogia salesiana declinata nel nostro tempo: il personaggio di cui si occupa questa ricerca, fa parte di questa schiera di ‘invisibili’: molto conosciuto da chi lo ha avuto e sentito vicino, meno conosciuto dalla pedagogia accademica, don Alfonso Alfano attua una sintesi propria del carisma di Don Bosco e la applica a scugnizzi e pischelli in Campania e nel Lazio; una pedagogia personale, un metodo innovativo per fornire ai giovani con reati penali un progetto alternativo alla pena, elaborato negli anni Novanta all’interno del quale ha contribuito a chiarire alcuni caratteri della professionalità educativa.
    D. Alfonso rientra a pieno titolo in una pedagogia sommersa, costituita da questi educatori invisibili, che va studiata e portata alla luce con l’auspicio che prima o poi possa andare ad integrare il fertile campo degli studi pedagogici classici.
    Don Alfonso Alfano si è dedicato al sostegno di centinaia di giovani diseredati, ladroncelli e sbandati, vicino alla stazione Termini dove viveva, e dove aprì nel 1991 il Centro Minori di Roma Sacro Cuore dedicandosi con lo stesso amore a uomini e donne adulti che popolano la strada, le strade, attorno alla stazione Termini; ci ha fornito il ritratto di una umanità inconsueta e poetica costituita da persone che molti di noi, a dispetto della vocazione educativa differentemente declinata, preferiremmo evitare, spostandoci dall’altra parte del marciapiede.
    Esiste un importante filone pedagogico sulla cura, sulle componenti emotive della relazione educativa, sull’educazione come cosa di cuore, introdotta dallo stesso Santo educatore: don Alfano è tra coloro che riescono a coniugare la teoria educativa e la pratica quotidiana attraverso gesti di cura: in realtà è il suo agire quotidiano che sfocia in una teoria; scopo del presente studio è delinearne gli assunti principali: sistematizzare alcuni dei suoi scritti per fornirne un assetto concettuale utilizzabile anche per scopi didattici.
    Questo lavoro vuole anche rappresentare una testimonianza concreta di un modo di concepire l’educazione, come riflessione educativa che si attua sul territorio attraverso esperienze mirate. Questa necessità si palesa nel corso del tempo a partire da alcuni caratteri ed emergenze socio-educative da cui si dipana il loro sviluppo.
    Gli anni Ottanta del Novecento nonostante gli sforzi volti alla diffusione dell’alfabetizzazione, e alla democratizzazione dell’istruzione, vedono profilarsi un tema antico che si sarebbe aggravato negli anni a venire: la dispersione scolastica. Questo tema favorì la riflessione frabboniana sulla città educante e sulla pluralità di esperienze formative in cui la strada può essere considerata come Setting, il più liquido e articolato del territorio formativo.
    Negli anni Ottanta si conferma e approfondisce l’analisi fatta dall’UNESCO nel rapporto Faure del 1972 sull’educazione: società tecnologica e scuola non procedono più di pari passo; la scuola deve preparare i cittadini del domani senza sapere esattamente cosa fornire; la società dal canto suo rigetta ed emargina coloro che abbandonano la scuola.
    Il 1989 rappresenta un momento di svolta per le politiche sull’infanzia e l’adolescenza grazie alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia stipulata a New York nel 1989 e ratificata in quasi tutti i paesi del mondo, segnando uno spartiacque nelle politiche per i minori di età, iniziando dalla ratifica della Convenzione dell’Onu con la legge 176/1991 per arrivare alla 285/1997 “Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”.
    La legge viene preceduta da numerosi documenti di sensibilizzazione sul problema della delinquenza minorile, dell’abbandono scolastico, delle ragazze madri; in certo modo il secondo dopoguerra comincia a mostrare le falle di un sistema economico basato sul consumismo insieme a trend di denatalità che creano famiglie nucleari e monoparentali con figli unici, con grandi difficoltà per questi minori lasciati spesso soli, e famiglie sempre più impegnate lavorativamente per assicurare ai figli il benessere materiale.
    Il lavoro dei servizi ha la necessità di capovolgere la direzione consueta utente-servizio, per strutturare la dinamica opposta: andare alla ricerca di utenti da convogliare in attività educative studiate appositamente; così nasce negli anni Ottanta il ‘lavoro di strada’. La strada è luogo di aggregazione giovanile spontaneo e informale: va trasformato in occasione di attività formative intenzionali sfruttandone le potenzialità. Un’opera che va incontro agli utenti, presta però il fianco ad una serie di ambiguità interne (leggi degli Operatori) ed esterne (nei confronti delle famiglie e del territorio) che non vanno sottovalutate.
    Per quanto concerne questo studio va menzionato il seminario che i Salesiani organizzarono sulla tematica, da cui scaturì un volume di atti, dal titolo Strade verso casa. Sistema preventivo e situazioni di disagio. Seminario di Studio promosso dagli Ambiti per la Pastorale giovanile e per la Famiglia salesiana FMA (Roma, 1-8 marzo 1999) LAS 1999.
    Il percorso breve che dagli anni Ottanta porterà al giro di boa del millennio, apre ad un futuro carico di possibilità, come pure a rischi formativi che Frabboni e Pinto Minerva[1] analizzano con spirito profetico, e di cui identificano la natura ambigua che spinge verso direzioni opposte: da un lato la democratizzazione-emancipazione, dall’altro la manipolazione -omologazione culturale.
    Tali rischi sono legati ad una espansione capillare, tramite i media, di una cultura non più di massa, ma personalizzata in base alle scelte degli utenti e a senso unico nella sua pervasività e invadenza cognitiva, con il vantaggio di opportunità di autoistruzione e il rischio di una alfabetizzazione debole per i contenuti svuotati di senso; dilagante isolamento soprattutto per i minori e capacità di socializzazione profondamente inficiate. L’accesso diretto alle informazioni scaturite dalla rete dà origine a processi di apprendimento di contenuti slegati tra loro e frammentati; le persone, in linea generale, non sembrano avere la possibilità e /o la capacità di ricostruire il filo che lega una grande massa di informazioni, che scivolano così nell’apoditticità, negli slogan, in saperi dai contorni superstiziosi magici e irrazionali.
    L’inondazione di immagini e parole dà luogo ad una cultura simbolica disincarnata in cui oralità (soprattutto emotiva come capacità di verbalizzare le emozioni e i propri pensieri) e corporeità risultano represse e inibite da una fruizione passiva dei contenuti mediali. Una cultura siffatta dà luogo ad una civiltà dell’immagine che non ha possibilità di cimentarsi con lo sforzo cognitivo e un minimo di esercizio di fantasia a causa di prodotti preconfezionati e a misura di cliente; si favorisce così un appiattimento delle funzioni cognitive più complesse un analfabetismo emotivo che favorisce al contempo superficialità, dispersione intellettuale e disimpegno morale. Se si ha la possibilità, e un bagaglio culturale fondativo adeguato, l’economia immateriale offre possibilità inedite di mettere a frutto creatività ingegno e inventiva: le tecnologie infatti favoriscono il pensiero divergente, il lavoro può diventare proficuo utilizzo del tempo libero e divertire, arricchire, stimolare. Ma questo non accade per tutti.
    La ricerca di un piacere frammentato ed estremamente volatile coinvolge i minori, soprattutto quelli più a rischio. L’attuale sistema consumistico mira a produrre oggetti di desiderio la cui scelta viene condizionata ad arte e sapientemente indotta; per i giovani più disagiati si crea la necessità di ricorrere agli espedienti della illegalità nelle sue diverse forme per stare al passo con i più fortunati e i luoghi di aggregazione informali sono le palestre di quest’arte di arrangiarsi.
    È in questo clima che nascono sperimentazioni pedagogiche importanti come il progetto Chance capitanato da Marco Rossi Doria nel 1988 e il Centro Don Bosco a Napoli in cui opererà don Alfonso Alfano.

    Don Alfonso Alfano (per tutti Zi Fonzo) nasce a Sant'Antonio Abate il 26/11/1936. Ordinato sacerdote salesiano nel 1964, ha dedicato l'intera vita ai ragazzi, prima a Resina (NA) nel convitto, poi come incaricato dell'oratorio a Caserta, come Parroco a Soverato e come Superiore dei Salesiani dell'Ispettoria Meridionale. Successivamente a Roma si è occupato dei salesiani cooperatori e ha fondato nel 1991 il Centro Accoglienza Minori a Roma Sacro Cuore, nei pressi della stazione Termini, proseguendo il progetto a Napoli nel 2007 fondando il Centro diurno Le Ali.
    Muore il 26 gennaio 2017 proprio mentre il centro di accoglienza minori di Roma festeggiava i 25 anni di apertura.

     
    Una pedagogia contadina

    «Ho trascorso l’infanzia nella campagna, accanto ai contadini tra il profumo dell’erba tagliata di fresco e l’amicizia degli animali: per me è stato un dono, un privilegio, compreso e apprezzato solo in seguito».[2]
    La pedagogia di Alfano è in primo luogo legata alla formazione contadina; una formazione povera, ma ricca di saggezza e di spunti pedagogici con attori principali come la madre, il padre, il nonno.
    ‘Era il tempo in cui il pane profumava di fatica’[3] giorni in cui il piccolo Alfonso avvertiva la mano morbida e tenera di mamma e quella forte e robusta del papà. Alla scuola famigliare Alfonso apprende la carità e vi risponde come fanno i bambini, che hanno una natura non naturalmente portata al bene: la mamma invita a casa un mendicante; cattivo odore e stracci fanno allontanare il piccolo dalla tavola per mangiare in un posto lontano dagli ‘odori’; come se non bastasse inizia a tormentare il malcapitato perché faccia il verso del gallo. La mamma diviene ad un tratto ‘maestra inflessibile’: gli toglie la parola per una settimana, nulla fino alla domenica successiva, durante la quale il bambino, appresa la lezione, porterà un maggiore rispetto al povero e gli cederà parte del suo pasto, azione generosa che la mamma ricambierà con una carezza significativa.
    Il padre è un contadino per cui le attività giornaliere non hanno fine, eppure riesce ad arrivare in tempo per la fine della fiaba serale che la mamma racconta la sera ai sette figli, sorride alla moglie che narra le sue storie facendo ‘le voci’, con uno sguardo ai figli e alla moglie che tradisce una profonda comunione all’interno della famiglia.
    La scuola familiare stimola verso nuovi apprendimenti; nell’Italia degli anni Settanta alcuni adulti resteranno per sempre fuori dai circuiti dell’istruzione elementare e tra questi proprio la mamma di Alfonso che accarezzando la testa dei suoi figli li esorterà a non sciupare ‘questa fortuna’, lei che aveva bisogno dei suoi piccoli per farsi leggere le litanie lauretane; l’apprendimento ha uno scopo: ‘imparare per fare il bene’[4]. Come tutte le mamme anche quella di don Alfonso avrà il suo sogno per i figli, la sua aspirazione: ‘essere buoni’ un’aspirazione che va al di là dei risultati conseguiti con l’istruzione: ‘Si può essere un letterato ed essere analfabeta del cuore’.
    Una mamma coltivatrice dell’essere mentre il papà è il maestro della quotidianità e della fatica; il suo commento sui fatti accaduti le sue sensazioni la cronaca cittadina lo rendono in famiglia il ‘portavoce saggio di fatti e costumi della gente’ [5].
    La mamma sa leggere il ‘libro della natura’[6]; da questa contemplazione scaturisce una lode che si accende nei momenti in cui la povertà si fa più dura: parole che sono «come querce per la vita spirituale»[7]. Possedere le stelle, il sole che scalda i ricchi quanto i poveri, la luna, l’acqua, il cavallo, il cane, le mucche: «i nostri occhi si immergevano nel regno favoloso di re, regine e cavalieri. Ci sentivamo realmente meno poveri»[8].
    Sarebbe un errore pensare alla mamma di d. Alfano come ad una contadinella di buon cuore e al padre come portatore del rigido stereotipo del maschio di casa; è sempre lei che riesce a creare sintesi meravigliose tra l’elemento cognitivo e l’elemento sensitivo fuse armoniosamente nell’unità della persona: «Ascolta il cuore ma non t’inimicare il cervello; questi devono essere dei buoni fratellini; hanno bisogno l’uno dell’altro. È però sempre il cuore che fa le cose importanti della nostra vita [...]; è la pace del cuore che rende piacevole il volto»[9].
    La pedagogia salesiana darà un nuovo sapore agli insegnamenti familiari: seminare e riseminare nel cuore dei giovani e lasciarsi seminare dalle esperienze e dalle storie di vita in un incontro sincero e profondo, un vero incontro di anime, che riporterà alla mente del sacerdote, ancora una volta, la saggezza materna: «Se sei stato generoso con il terreno [...] la natura non ti negherà la ricompensa; anche poco, il terreno qualcosa te la restituisce sempre»[10]
    Il ricordo di quel mondo rurale semplice e incontaminato resterà per zì Fonzo l’ispirazione principale dei suoi scritti; là conobbe la sofferenza dignitosa del povero e il valore della liturgia familiare del pane coltivato, prodotto e consumato. La semina e il raccolto, sostiene, sono la parte più importante del lavoro dell’educatore.
    Lasciarsi seminare e riseminare vuol dire mantenersi in un atteggiamento di formazione perenne attraverso gli incontri, le storie e le esperienze di vita. Questo sarà d’altronde il modello appreso dalla mamma: lasciare che altri scrivano sul terreno morbido del suo cuore.
    Spetta al padre l’insegnamento della scuola del lavoro. Dava ai suoi figli un pezzo di terra da lavorare a loro piacere. Mentre la mamma era portatrice del saper essere, il padre incarnava gli altri due pilastri dell’educazione «nella vita ci vogliono braccia e cervelli» sapere e saper fare.
    Dalla pedagogia familiare della carità verso i meno fortunati, nascerà il suo intenso lavoro di strada con i rifiutati, i derelitti, da cui riceverà esperienze di vita che considererà un vero tesoro di umanità, soggetti le cui storie assorbirà senza filtri critici, senza teorizzazione, senza sterili tentativi diagnostici.
    La trilogia formativa: pedagogia del sarto, pedagogia del contadino, micropedagogia sociale
    Il volume Icaro torna a volare è il primo scritto da D. Alfonso dopo la Trilogia della speranza costituita da: Sulle strade del cuore, Quando a Roma volano gli storni e Pischelli in paradiso. D. Alfano ha saputo cogliere la ricchezza di vita e interiore delle persone incontrate sulla strada e ciò alimenta la speranza di un ‘posto accessibile al bene’ come ricordava il Santo educatore, per i suoi ragazzi; dalla speranza che scaturisce da questi incontri il sacerdote trova linfa vitale per l'intervento con i giovani di cui si è preso cura, in un circuito che si autoalimenta.
    Ha dovuto però imparare [11] (sic) che è necessario avere tanto amore per riuscire «ad amare la bellezza degli esseri deformi e deturpati,[...] a scoprire il tesoro delle povere cose tra volti sfigurati», questo amore se intuito dall’interlocutore, porta a tentare ancora una volta lo scambio tra ricevuto amore e la ricerca possibile dell’amore anche «quando ti è rubato». L’amore più grande è quello infinito che permette di credere nell’amore che «sfida la forza di amare», un amore che si trova nel silenzio nell’ostia consacrata, sacramento e memoria della vita contadina. Segno semplice e infinito, eterno, di amore, nella cui adorazione rinasce la speranza; cosa vuol dire adorare? Chinarsi per baciare «il corpo piagato del povero, per provare dolore, per sentire le fitte sulla carne». Il Santissimo e il povero si compenetrano e si confondono l’uno nell’altro.
    Non è questo il luogo per esaminare la spiritualità di D. Alfonso ed è compito di altri: da questa commistione però nasce il senso dell’opera pastorale del salesiano, quella che ha contraddistinto i grandi servi di Dio.

    La micropedagogia sociale

    Icaro torna a volare[12] sviluppa e ripresenta i temi affrontati nella Trilogia della Speranza in cui si delineano i pilastri concettuali della pedagogia di D. Alfano.
    «La micropedagogia sociale è la pedagogia delle piccole cose».[13] Un lavoro che si instaura a partire dalle piccole cose della quotidianità: piccoli spazi, comportamenti ordinari, relazioni interpersonali e tempi adeguati della vita quotidiana. Per arrivare alle grandi sfide della vita è necessario partire da un livello minimale di richiesta che trova il suo punto di partenza proprio dalla vita del ragazzo. Si tratta di un luogo in cui si deve entrare con delicatezza e questa attenzione micropedagogica consente di aprirne la porta, ma non di entrare nella stanza del dolore dove c’è la genesi del disagio sulla quale va costruita una storia nuova; l’attenzione alla minuzie, sostiene Alfano, potrà diventare la chiave di lettura di una storia.
    All’educatore spetta entrare in punta di piedi in questa realtà, con naturalezza e autenticità, in sim-patia con il mondo del giovane con il quale resta vietato confondersi. Necessario - sostiene il salesiano - passare dall’impersonalità delle cose con cui il ragazzo può entrare in relazione, senza provare dolore, al personale racconto di una vita.
    Il giovane vede negli adulti e negli educatori un nemico, dal momento che non ne comprende le categorie e messaggi, in particolare le categorie educative. Si tratta di vite fatte di sofferenza, di dolore, di voglia di riscatto, d’ansia, di rabbia di insoddisfazione e impotenza.
    È necessario che egli porti ordine nella sua vita, prima nelle categorie temporali, si collochi (casa mia/il Centro) poi tra realtà e interiorità: questo fraintendimento è spesso alla base dell’impulsività e comunque di una distinzione non precisa tra realtà e fantasia; solo dopo questi necessari passaggi, riuscirà a chiarire il suo malessere. «I ragazzi a rischio sono neonati nella vita sociale» e così devono apprendere queste categorie basiche della realtà e della socializzazione. In questo senso l’educatore è mediatore, è ponte tra il soggetto e i suoi ambiti di socializzazione: una socializzazione dai piccoli passi accompagnata da una guida attenta e ferma.
    Dunque le regole sono importanti, ma va considerata la possibilità concreta del ragazzo di aderirvi. Un progetto troppo elevato rischia di schiacciarlo e farlo fuggire. La micropedagogia punta a far acquisire una stabilità attraverso piccole unità comportamentali: buttare la sigaretta spenta nel cestino e non tanto smettere di fumare, non tanto riordinare una stanza ma piuttosto tener in ordine il proprio tavolo di lavoro e usare gli arredi in modo rispettoso e corretto.

    La pedagogia del sarto

    La pedagogia del sarto definisce la personalizzazione dell’intervento educativo; l’abito va fatto secondo le misure del giovane e non secondo i gusti dell’educatore: Alfano accenna soltanto, a categorie di rischio relative alla interferenza di quei fantasmi professionali in cui incorre l’educatore[14]: è bene avere ideali professionali, ed è vero che l’educatore ha in sé qualcosa di ciascuno: il maieuta, il distruttore, il terapeuta, ne sono alcuni esempi. Il maieuta è colui che fa nascere il nuovo dall’educando conferendogli un nuovo assetto, una forma nuova; il distruttore è colui che smantella l’educazione previa per ricostituirne una su differenti basi, il terapeuta è colui che sana le ferite, che si prende cura e cura allo steso tempo. Tutti questi ideali professionali - non falsi in realtà - se divengono totalizzanti portano al rischio manipolativo molto grave in educazione, ponendo in primo piano l’educatore e l’educando in secondo piano.
    «spesso gli educatori progettano alla luce delle proprie sensibilità, secondo personali categorie mentali. O, peggio ancora, vivono l’educazione come soddisfacimento inconscio dei propri bisogni di affermazione»[15] Dimenticare di essere al servizio, dimenticare di lavorare per la propria dipartita[16], costituisce una grave colpa educativa.

    La pedagogia del contadino

    Vicinissima alla pedagogia del sarto è la pedagogia del contadino. Deterrente efficace per costruirli a misura dell’educatore, essa viene loro incontro ricordando che la natura, così come la natura dei giovani, non sempre è clemente e non sempre dà raccolti buoni o abbondanti. La semina dell’educatore «deve fare i conti con la natura dell’adolescente, del giovane, imprevedibili e incostanti per natura»[17].

    Le lettere agli educatori: caratteri della professione

    Le lettere sono per d. Alfano il modo più diretto per aprire il suo cuore e trasmettere agli educatori i preziosi contenuti ivi custoditi; un metodo di incontro privilegiato in cui trasferire tutto se stesso anzi, la parte migliore di sé: «vorrei mostrarti chiaramente che tutto quello che dico lo sento in me, e non solo lo sento, lo amo»[18].
    «Innanzitutto siamo fermamente convinti che anche il ragazzo più delinquente può diventare migliore»[19]. Intorno ai giovani disagiati si crea un mondo di sfiducia e di incredulità sulla presenza di un bene possibile nascosto nelle pieghe delle loro anime tormentate, che permette il perpetuarsi di una profezia negativa da parte di genitori e parenti, la scuola, i servizi sociali, gli educatori stessi.
    La pedagogia di D. Alfano è una pedagogia della speranza «Noi dobbiamo andare oltre, varcare la soglia della paura e del tempo»[20]
    L’educatore infatti è «l’uomo delle grandi sfide, è un uomo di speranza»[21]; una speranza fondata sul convincimento che essi rappresentano gli ultimi, i prediletti del Regno, ma la speranza si fonda in pari misura sulla trascendenza, come sul lavoro educativo che richiama gli operatori a lavorare «coraggio e pazienza»; sopportando le provocazioni di giovani talvolta ostili; la speranza allora sta nel credere alla legge della gratuità, dell’amore, della non violenza, rispetto alla legge del taglione.
    Un lavoro così impostato, è un lavoro fatto di tenacia; una lotta senza quartiere alla tentazione della resa.
    Si scommette sui ragazzi, convinti che ci sia sempre una possibilità di uscita dal tunnel di vite insensate e disperate alla vita per la seconda volta»[22].
    La maieutica dell’educatore ne pone in luce i tratti materni; la certezza è di stare operando il bene, affidarsi ad un tempo indefinibile a priori, ma che si rivelerà alla fine, «galantuomo».
    La pedagogia del contadino ricorda che c’è chi semina e chi raccoglie, talvolta non si tratta della stessa persona, ma l’importante è il risultato.
    Chi sono i ragazzi e chi è colui il quale decide di dedicare a loro la vita?
    Difficile rispondere compiutamente soprattutto alla seconda domanda, D. Alfonso si augura che non si tratti di mera simpatia; più facile rispondere alla prima: quelli di D. Alfano sono giovani che hanno provato «la vergogna delle manette» «il giudizio impietoso della gente, guardato l’alba e il tramonto attraverso le sbarre di una cella»[23]
    Il tratto più caratteristico in questi giovani è la tendenza ad agire in modo impulsivo e talvolta compulsivo «tanto da fare e poco da pensare»[24].
    Il fare, l’aggressività la sfrontatezza, formano nel giovane una maschera difficile da sollevare, dietro di essa si nascondono paura e dolore. Anche nelle condizioni più gravi di miseria umana il cuore è affamato di bene, sostiene il salesiano, di «cose pulite». Il compito difficile sta nel tirare giù la maschera e far venire alla luce il dolore e le ferite fisiche, psichiche ed esistenziali che deturpano il volto di questi giovani.
    Le vite temporaneamente fallimentari dei ragazzi sono esito di un fallimento educativo; l’apice di questo fallimento è la morte fisica, neppure paragonabile a quella ontologica: da quest’ultima si può uscire, dalla prima, no. La colpa sociale è non essersi accorti del disagio portato dal giovane.
    Compito alto dell’educatore é farsi cireneo e samaritano per il giovane, vittima di brigantaggio esistenziale.
    La fiducia su cui si fonda la relazione educativa va tessuta continuamente come la tela di Penelope, anche se sono in molti a cercare di disfarla.
    Il salesiano non è un idealista, ma consapevole della fatica della sfida di un lavoro usurante per l’anima: citando Kafka afferma «l’amore non è un problema come non lo è un veicolo; problematici sono soltanto il conducente, i viaggiatori e la strada»[25]. L’educatore diviene così conducente esperto, guida forte, amico sincero e soprattutto non problematico, chiamato a far luce sui sentieri di tanti giovani «marcati dalle catene della violenza»[26].

    La fontana del villaggio. L’amore e la scuola della strada

    L’esperienza di strada di D. Alfano è il luogo della sua formazione permanente: sempre presente in tutti i suoi scritti, la strada, non appare principalmente come il luogo dell’intervento, ma il luogo dove D. Alfano riceve educazione, traendone i principi della sua azione educativa, dove ha la possibilità di incontrare il buono e la poesia dei diseredati; di certo i suoi ragazzi vengono dalla strada, ma chi pensa di trovare nella sua produzione, la tecnica del lavoro educativo di strada, sarà forse deluso.
    D Alfano frequenta la strada come luogo di vita di tanti giovani che crescono alla ‘scuola della strada’, poco conosciuta, ma molto visibile, al contrario della scuola ‘legalmente riconosciuta’, quest’ultima è ‘illegalmente costituita’[27].
    La scuola della strada è una giungla, senza orari; si dorme e si sta svegli senza regole fisse; le lezioni si svolgono soprattutto di notte e chi la frequenta sono i «pipistrelli». È una scuola aperta, senza aule, un setting fluido e aperto: il muretto, la piazzetta sono i luoghi di ritrovo dove si svolgono le ‘lezioni’. Apparentemente non vi sono regole, in realtà ci sono precetti ben precisi e chi sgarra, paga, anche con la vita. I maestri sono sciacalli, i docenti non hanno scrupoli e i ragazzi sono degli sprovveduti. Le valutazioni non conoscono vie di mezzo: o passi o non passi.
    In questa scuola surreale però è possibile imparare a parlare al cuore delle persone; si impara a distinguere i faccendieri e i falsi portabandiera dell’amore, i parolieri come li chiama, «l’esperienza di strada educa all’impotenza e spinge ad alzare occhi e mani a Chi sta nei cieli»[28].
    Eppure in questa scuola degli orrori è possibile trovare oasi di dolcezza, di solidarietà e di condivisione.
    L’insegnamento che ne trae Alfonso è fare tesoro degli insegnamenti che in modo tanto informale quanto pervasivo entrano nei giovani a costruirne le storie, la coscienza, il modo di vivere. Considera come si debba partire proprio da queste esperienze reali, in cui si forgiano mentalità e abitudini di vita per attuare un progetto educativo.
    Inutile, se si salta questo passaggio, tentare di costruire progetti astratti e fare valutazioni inveritiere; l’intervento deve essere sartoriale e attendere i suoi tempi di sviluppo: agli operatori spetta vangare il terreno e curare l’albero senza dimenticare contro ogni tentazione di autocompiacimento, che i frutti che matureranno, appartengono soltanto all’albero.
    Qui si trova bene espressa la concezione dell’autore per il tipo di amore che deve caratterizzare l’azione educativa; il sacerdote usa la metafora della fontana che versa continuamente acqua: alla fontana non interessa che uso sia fatto dell’acqua se si disperda o abbia qualche utilizzo più appropriato essa la getta fuori con gioia ed è sempre lì disponibile ad attendere che la gente attinga da essa; così per l’educatore: non tende all’appagamento personale ma a servire i bisogni degli altri, così come il contadino che non smette mai di seminare a prescindere se il raccolto sia scarso o abbondante. L’educatore non deve guardare al proprio successo né all’ autoaffermazione «un educatore piegato su se stesso è come una fontana arrugginita»[29]. Ci vuole tenacia per coltivare semi difficili e la vita stessa dell’educatore diviene nutrimento vitale, come pronuncia il dettato evangelico di darsi in pasto alle folle sbandate, a giovani delusi da promesse false e parole vuote. Non si può essere educatori per ‘mestiere’ ma per passione e la passione, ricorda il salesiano, matura «sulla strada del sacrificio»[30].

    La grande sfida[31]

    In continuità con la lettera appena illustrata Alfano affronta il tema dello scoraggiamento dell’educatore soprattutto quello dovuto a rassegnazione, mancanza di dinamismo interiore, di creatività, e di spirito di sfida che connotano il proprio servizio. Si tratta di un documento significativo in cui compaiono anche alcuni delle sintesi concettuali dell’educatore salesiano, sotto forma di semplici formule.
    All’origine di questo disagio, pure richiamato da don Bosco nella sua lettera agli educatori, Alfano riscontra tre fattori: la perdita del fine progettuale, l’impreparazione e l’impazienza. L’educatore deve essere consapevole che il successo nel suo lavoro non dipende solo dal suo impegno, ma da variabili che trascendono l’opera educativa e le stesse possibilità del ragazzo; di qui la considerazione su scoraggiamento e sfiducia che devono essere portati alla luce nelle sedi opportune delle riunioni d’équipe, piuttosto che «bisbigliate nei corridoi» [32].
    Il lavoro dell’educatore non è «su vuoti a perdere»[33], cioè non è mai inutile, non si dissipa, e la funzione educativa mantiene la sua importanza nonostante gli effetti che suscita: ogni ragazzo ha i suoi tempi di elaborazione, perciò nulla si perde di quanto detto, di quanto fatto; «il ragazzo rispetta l’educatore che riconosce i propri errori, lo sente più vicino alla sua fragilità; non stima e ridicolizza educatori presuntuosi, vestiti di onnipotenza»[34].
    La storia passata dell’educatore può essere utile nelle modalità di ‘aggancio’ del ragazzo: forse certi bisogni comuni, forse certi privilegi avuti o non avuti, forse l’avere o non avere una famiglia, l’educatore è spinto ad una autoriflessione affinché i materiali interni siano oggetto di condivisione e confronto con i ragazzi. Ma la cosa più importante per il programma formativo è creare "uno spirito di famiglia"[35]. Tratto peculiare di questo modo di intendere l’intervento é il legarsi alla crescita comune di educatori ed educandi; l’intervento va pensato come un tutto unico senza limiti di competenze e parcellizzazioni.
    L’arte educativa per Alfano sta nell’entrare con tutto se stesso (mente e cuore) nel percorso affettivo dei ragazzi; si fonda sulla costruzione di una relazione significativa e costruttiva fatta di un «linguaggio intelligente» e di messaggi «comprensibili»[36].
    Il rischio della resa, della di-sperazione viene posto quasi come un tabù per l’azione educativa: il messaggio che il giovane in difficoltà deve essere in grado di decifrare è chiaro e semplice «Io voglio realmente il tuo bene, la tua felicità, farò l’impossibile per assicurartelo; sono realmente interessato a te»[37].
    Un rapporto così non è facile da costruire, ma alcune componenti servono a fondarlo e come tali sono «irrinunciabili» [38] la fedeltà alla parola data, la fiducia, la trasparenza, l’onestà delle richieste e delle offerte, il rispetto della persona.
    Tra le difficoltà che insorgono nel rapporto c’è la diversa concezione dello spazio e del tempo; la giornata degli operatori è ben scandita, organizzata tra ore di lavoro e di riposo, tra notte e giorno: non è così per i ragazzi.
    Sopra queste diversità quasi inconciliabili si erge la maschera di una ‘mente bunker’ quasi inaccessibile, sia a qualsiasi forma di dolore, sia alla vicinanza e sim-patia dell’educatore: le difese estreme del giovane al dolore si esprimono nel «non si preoccupi»[39], un mantra che impedisce l’accesso dell’educatore al cuore dell’educando. Alfano punta ad evitare le profezie che si auto realizzano quando sintetizza questa riflessione con la formula «non siamo becchini, ma samaritani»[40]. L’operato dell’educatore è costantemente esposto ad un «rischio abortivo»: è il drammatico e reale limite dell’azione educativa richiamato anche da Giussani; c’è una ragione drammatica dietro a questi fallimenti: «C’è gente che ha più paura di vivere che di morire»[41]. Su queste basi, il richiamo alla pedagogia del cuore non è vuoto sentimentalismo; si radica sulla convinzione che i ragazzi quantunque conoscano bene solo il codice della strada, sono molto sensibili al codice affettivo: è questa la leva per l’intervento educativo, la "grande sfida" [42] che investe gli educatori.

    I «caduti» della scuola

    In Icaro don Alfano tratteggia alcuni punti della sua concezione di famiglia e scuola e dei ruoli che tali agenzie educative sono chiamate a svolgere. Il lavoro con le famiglie verrà approfondito e sistematizzato nella pubblicazione del 2006 in una sezione appositamente dedicata.
    La vita di ogni giovane, per il salesiano, poggia su tre assi famiglia, scuola ,società. Se uno di questi assi viene meno, fallisce il progetto educativo, di conseguenza qualunque intervento compensativo deve obbligatoriamente investire i tre assi di sviluppo.
    La scuola ha un ruolo cruciale negli esiti in termini di disagio sociale di tante giovani vite. La scuola di don Alfano si trascina con le sue logiche esclusive attraverso un mondo con il quale non riesce a stare al passo. Anche le politiche sull’istruzione avviate negli anni Settanta hanno mirato a fornire l’alfabetizzazione tralasciando di «prendersi cura del giovane come individuo integrale» a danno della maturità delle nuove coscienze»[43]. Forse - aggiunge - si sa di più , ma si è di meno, analfabeti del cuore come già ricordato; un analfabetismo che sembra colpire i giovani, ma anche i loro insegnanti. Le ripetenze arricchiscono il curriculum di chi alla fine , per stanchezza trova il «rifugio della strada» ma questa è la «morte scolastica. Da qui parte l’intervento educativo che ha un suo proprio assioma. «La delinquenza è un accidente, non una qualifica»[44].
    Una tale concezione del giovane in difficoltà merita nell’educatore capacità non comuni di comprensione della situazione del giovane nella sua complessità e la capacità di riflettere l’educativo nelle piccole cose del quotidiano.
    «Credo che un buon educatore, debba essere nell’area del disagio, un abile stratega: organizzare in famiglia sui banchi di un’aula sulla strada le cose del quotidiano di ciascuno utilizzando la didattica in funzione della vita sociale»[45].
    Per ottenere questi risultati è necessario comunicare tenendo presente lo stile comunicativo dei ragazzi. Tutti I ragazzi possiedono abilità e attitudini: le stesse che utilizzano per rubare, per lo spaccio: scaltrezza, inventiva, rapidità, la capacità di riciclare pezzi di motorini e di auto, montarli e smontarli; tutte queste capacità vanno valorizzate e incanalate per l’apprendimento. Queste abilità pratiche e manuali devono alternarsi con contenuti semplici e «digeribili da menti e cuori ripieni di sofferenza e traumi di ogni genere»[46] per costruire una cultura di base.
    La proposta del salesiano, attuata poi nel Progetto alternativo al carcere per minori a rischio del 2006, sta nel recupero di quel volano per il rinnovamento della società, che è la scuola. Purtroppo il fallimento educativo risulta particolarmente evidente nel fenomeno degli abbandoni e nella drammaticità dello schema espulsivo del ragazzo problematico da parte della scuola. Il ragazzo - commenta Alfano - cercherà altri maestri che troverà puntualmente nella strada, perché è forte in lui «la naturale voglia di maturità»[47]. Esiste un legame inscindibile tra la cura dell’ambiente e la cura delle persone: «con l’incuria per l’ecologia della natura abbiamo inquinato anche la naturale trasmissione dei valori umani e culturali»[48].
    La scuola incapace di stare al passo con lo sviluppo tecnico scientifico e sviluppare un’educazione alla cittadinanza che tenga conto della gestione dei nuovi saperi in un’ottica di umanizzazione e non di sfruttamento delle risorse «segue la logica della lumaca o del canguro, incurante della cultura della strada che segue ritmi e passi di agile gazzella»[49].

    I genitori

    Non meno impietoso ma realistico e improntato alla carità, presente in ogni affermazione della Verità, è il discorso sulla condizione dei genitori in particolare di questi giovani pericolanti. L’analisi anche in questo caso prende le mosse dal rinnovamento economico del periodo post bellico. Quasi sempre la fame patita porta con sè un fantasma bulimico, di cibo, di cose, di ricchezza, di benessere. «Dare tutto» ai propri figli è l’esito di un atteggiamento improntato all’avere piuttosto che all’essere. Quel tutto, considera il salesiano, è la sentenza di condanna di queste famiglie, per le quali il sacerdote costruirà un percorso formativo, autoriflessivo ed esperienziale, ancora oggi attuato[50].

    Conclusioni (ma per non concludere...)

    Non è possibile esaurire in poche pagine il contributo che il salesiano, in un ambito e in un tempo limitato, ha fornito per l’evoluzione ed espansione del carisma di d. Bosco nell’epoca contemporanea.
    In effetti la nostra epoca presenta molti punti in comune con l’Italia della Seconda rivoluzione industriale, della formazione degli stati nazionali, dell’influenza dell’Illuminismo sulle coscienze, e non ultimo delle condotte anticlericali portate avanti dai politici del tempo.
    Il lavoro che va alla ricerca di giovani pericolosi e pericolanti non ha mai subito battute di arresto, dagli anni Settanta in avanti, e oggi prosegue in un’opera che sempre più deve assumere i connotati della polis per significare come ci sia bisogno oggi più che mai di politiche volte a favorire la crescita equilibrata dei giovani a sostenere le famiglie, fornire ai giovani un futuro: un richiamo che somiglia tanto ad una vox clamans in deserto, un mantra socio educativo che potrebbe risultare svuotato di significato, ma che oggi acquista forza grazie all’intervento di Papa Francesco (e dei suoi predecessori) sul tema.
    L’educazione (non scolastica, non formale) come volano del cambiamento, momento unificante e integrativo rispetto alla disgregazione socio-cultural-relazionale dei nostri tempi, riacquista incisività nel nostro Paese grazie al riconoscimento professionale degli educatori, che sono chiamati a ben formarsi, fuori da ogni accademismo e teoreticismo, a diffondersi capillarmente nella società che ancora ritiene l’educazione qualcosa che possono fare tutti, che non ha bisogno di preparazione (umana e accademica), per cui serve solo ‘un po’ di buona volontà’.
    Invece l’educazione richiede dedizione, studio, applicazione, autoriflessione e autocritica costante, richiede la pedagogia del contadino per se stessa, prima che per gli altri.
    Richiede una risposta al patto educativo che Francesco lancia profeticamente in termini di sostenibilità: sostenibilità nell’ecosistema, ma anche sostenibilità nella cultura e nelle relazioni tra culture, sostenibilità tra le relazioni umane. Come non fare riferimento, per chi si occupa di educazione, all’enciclica Laudato sì per la cura della casa comune [51], e a titolo esemplificativo e indicativo ai numeri 123, 143, 144, alle diverse declinazioni della sostenibilità nei paragrafi da 148 a 152 nella vita quotidiana, nelle città 153, e il rilancio del principio del bene comune che porta alla formulazione della categoria politica dell’amore sociale?
    «Per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale - a livello, politico, economico, culturale - facendone la norma costante e suprema dell’agire».
    L’amore sociale ci spinge a pensare a grandi strategie che arrestino efficacemente il degrado ambientale e incoraggino una cultura della cura che impregni tutta la società»[52].
    Gli educatori hanno un ruolo tutto speciale nella trasmissione di questa consapevolezza, di un nuovo stile relazionale e di vita.
    Trovo nella missione di Zì Fonzo una estrinsecazione di tutto questo: ma a conclusione di questo lavoro posso dire che la cosa incredibile è che la sua missione, mentre la si studia e ‘celebra’ è già superata: in un certo senso essa trascende la figura di questo buon sacerdote, impegna veramente il livello della globalità planetaria, interpella tutti, nessuno escluso, alla cura e al prendersi cura.
    Di questo, certamente, Zì Fonzo sarebbe contento.

    * Professoressa aggregata di Pedagogia generale e sociale a TorVergata - Roma


    Bibliografia di Don Alfonso Alfano

    1996: Sulle strade del cuore, ed. Sydaco Roma.
    1998: Quando a Roma volano gli storni. Diario di un’esperienza di strada, ed. Sydaco Roma.
    2000: Pischelli in paradiso. Storie di ragazzi di strada, E.S.S. Editorial Service Sistem, Roma.
    2003: Icaro torna a volare. Esperienze tra minori a rischio, ed. Elledici Leumann-To.
    2007: Quando il pane profumava di fatica. Romanzo di poveri cristi, stampato da System grafic srl Roma.
    2011: Il figliol prodigo torna a casa. Lettere a Bartimeo, un’esperienza educativa di strada, ed. Elledici Leumann-To.
    2013: Il mendicante di lacrime. La leggenda di Fratello eremita, Napoli (per richiesta pubblicazioni exallievi-villafavorita.net/donalfano).
    2015: Conosci Pepp? Racconti di un’esperienza educativa di strada, Napoli.
     

    NOTE

    [1] cfr F. Frabboni, F. Pinto Minerva, Manuale di Pedagogia Generale, Roma-Bari, Laterza 2002, pp.  487-499.
    [2] A. Alfano, Pischelli in paradiso. Storie di ragazzi di strada, E.S.S. Editorial Service System s.r.l., Roma 2000, p. 12.
    [3] A. Alfano, Quando a Roma volano gli storni. Diario di un’esperienza di strada, Sydaco Editrice Roma, 1998, p. 7.
    [4] A. Alfano, Sulle strade del cuore, Sydaco Editrice, Roma 1996, p. 36.
    [5] cit., p. 37.
    [6] cit., p. 4.
    [7] Ibidem.
    [8] Ibidem.
    [9] A. Alfano, Icaro torna a volare. Esperienze tra minori a rischio, Elledici Leumann (To), 2003, p. 13
    [10] cit., p. 13.
    [11] A. Alfano, Quando a Roma volano gli storni, Sydaco editrice, Roma 1998, passim.
    [12] A. Alfano, Icaro torna a volare. Esperienze tra minori a rischio, ELLEDICI, Roma 2003.
    [13] op. cit., p. 68.
    [14] S. Tramma, L’educatore quasi perfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Carocci, Roma 2009.
    [15] A. Alfano, Icaro torna a volare, cit. p. 69.
    [16] A. Augelli, Nella mia fine è il tuo inizio: il legame paradossale in V. Iori (a cura di) Educatori e Pedagogisti. Senso dell’agire educativo e riconoscimento professionale, Trento, Erickson 2019, pp. 147-164.
    [17] A. Alfano, Icaro torna a volare, cit. p. 69.
    [18] ivi, p. 40.
    [19] ivi, p. 41.
    [20] ib.
    [21] ivi, p. 42.
    [22] ib.
    [23] ib.
    [24] ivi, p. 43.
    [25] ib.
    [26] ib.
    [27] ivi, p. 47.
    [28] ivi, p. 48.
    [29] Ivi, p. 46.
    [30] p. 47.
    [31] A. Alfano, Un progetto alternativo al carcere per minori a rischio, CNOS-FAP, Roma, 2006.
    [32] op. cit., p. 43.
    [33] op. cit., p. 52.
    [34] ib.
    [35] ivi, p. 44.
    [36] ibidem.
    [37] p. 54.
    [38] ivi, p. 45.
    [39] ivi, p. 45.
    [40] p. 55.
    [41] ibidem.
    [42] ivi, p. 46.
    [43] A. Alfano, Sulle strade del cuore, cit. p. 36.
    [44] cit. p. 51.
    [45] ivi, p. 37.
    [46] ivi, p. 90.
    [47] ivi, p. 91.
    [48] ivi, p. 92.
    [49] ib.
    [50] cfr. A. Alfano, Un progetto alternativo al carcere per minori a rischio, CNOS-FAP, Roma, 2006.
    [51] Lettera enciclica Laudato si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune, Città del Vaticano, 2015.
    [52] cit. n. 243.


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