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    Una finanza che sia davvero sostenibile


    Andrea Roncella

    (NPG 2020-08-17)

     

    Il terzo millennio è stato, finora, un periodo ambiguo per la finanza: profitti alle stelle e indici azionari ai massimi storici si sono alternati a crisi disastrose e ad una reputazione sociale tra le più basse[1]. Una differenza non da poco rispetto ai “trenta anni gloriosi”, il periodo compreso tra il 1970 e i primi anni 2000, dove gli alti ritorni economici erano accompagnati da un entusiasmo sociale e un’euforia generale. La crisi finanziaria del 2008, un vero e proprio spartiacque nella storia recente dell’Occidente la cui portata non si è ancora compresa forse del tutto, ha rivelato la “nudità del re”: la fragilità di un sistema che progrediva senza fondamenta stabili. La grande crisi globale, per quanto dolorosa, ha permesso infatti di aprire gli occhi circa i limiti di un sistema finanziario sempre più autoreferenziale, eppure caratterizzante il capitalismo occidentale tanto da qualificarne lo stesso nome. Il “capitalismo finanziario” si contraddistingue proprio per la pervasività dell’elemento finanziario, locomotiva della crescita di intere aziende e paesi[2]. Un vero e proprio processo di “finanziarizzazione” dell’economia che ha visto i leader di aziende, anche non finanziarie, aumentare gli asset finanziari nei bilanci e prendere decisioni strategiche fortemente influenzate dalla pressione dei mercati finanziari. Fronteggiare in maniera sistemica questo problema richiede da una parte mettere in luce i difetti del paradigma di riferimento, e allo stesso tempo avere il coraggio di proporre alternative viabili e sostenibili sotto vari punti di vista. Un tema che il settore finanziario deve tornare a mettere urgentemente al centro del suo linguaggio riguarda infatti la sua partecipazione alla creazione di valore e quindi al bene comune. Tipicamente le funzioni attraverso le quali il settore finanziario partecipa a questo processo sono quattro:
    - promozione del risparmio di famiglie e aziende;
    - allocazione delle risorse, tramite il matching tra risparmiatori (che hanno un surplus di fondi) e imprenditori (con idee da implementare);
    - gestione del rischio, attraverso strumenti che ne permettono una sua distribuzione nel tempo e nello spazio per garantire ad esempio una diffusione più ampia nell’accesso al credito (un processo detto anche di “democratizzazione della finanza”);
    - sistema di pagamenti, mediante l’utilizzo di tecnologie che facilitano le operazioni di pagamento rendendole sempre più affidabili e trasparenti.
    Tutte le istituzioni finanziarie, per quanto complicate e tecniche possano apparire, dovrebbero sempre poter rispondere ad almeno una di queste funzioni. Al contrario, nel momento in cui si perde il legame con uno di questi quattro “fini”, c’è il rischio di trovarsi di fronte a uno strumento autoreferenziale, con il fine in se stesso, e che, come tale, può evitare di porsi alcun limite. Può anche accadere che alcuni strumenti finanziari nati per rispondere a una delle quattro funzioni sopra citate, vengano nel tempo “corrotti” da chi li utilizza. Questo significa che il loro uso viene distorto, con delle conseguenze (esternalità) negative gravi per il sistema che inizialmente veniva servito. In questo senso, gli agenti finanziari si trovano di fronte alla responsabilità di tenere alta la guardia circa l’utilizzo di strumenti che, se propriamente usati – cioè se impiegati con rispetto al loro fine – contribuiscono al bene comune, mentre se utilizzati in modo improprio comportano danni alla società. Questa narrazione può servire a descrivere l’evoluzione di vari prodotti e strumenti finanziari, nati per ricoprire un ruolo positivo e divenuti mezzi per accrescere instabilità e diseguaglianze ingiuste. Si pensi al caso dei processi di cartolarizzazione dei mutui bancari alla base della crisi del 2008, o a derivati come i credit default swap, o ai fondi di private equity. La lista è lunga e l’utilizzo che di questi strumenti si fa dipende sia dalla moralità degli agenti finanziari che li gestiscono sia dalle regole del gioco. Queste due componenti si condizionano a vicenda, nel bene e nel male: questa è la lezione più importante che possiamo trarre dalla crisi finanziaria. Pensare di risolvere i problemi della finanza con una lista di buone intenzioni è ingenuo, se non si pensa di dover intervenire anche sulla correzione degli incentivi e delle istituzioni; pensare di creare delle “strutture perfette” rischia di dimenticare che la promozione del bene comune passa per la conversione del cuore degli uomini.
    Trasformare il modo di fare finanza, indirizzandola verso il raggiungimento del bene comune, è una sfida che anche la nostra generazione deve fare sua. La “finanza sostenibile”, termine sempre più al centro dei dibattiti economici – a maggior ragione dopo l’esplosione del covid-19 – integra le considerazioni sul rischio e rendimento finanziario delle imprese, con quelle di natura ambientale, sociale e di gestione (i.e. governance). Questo approccio rappresenta un tentativo di smarcarsi dalla malattia del shortermism, che porta le aziende a prendere decisioni sulla base del solo ed esclusivo interesse di breve termine degli azionisti, per abbracciare invece un orientamento rivolto al lungo termine e che si possa tradurre nella creazione di valore per tutti i portatori d’interesse dell’azienda (stakeholders come clienti, fornitori, comunità di riferimento, impiegati, e anche azionisti). Voler creare valore sociale obbliga l’azienda a porsi in maniera più seria la domanda circa il suo fine, il suo scopo, la modalità in cui essa può rendere il mondo un luogo migliore.
    La finanza, attraverso i suoi canali di finanziamento (investitori istituzionali, ad esempio) può diventare una leva importante per questo tipo di trasformazione, e lo può fare servendosi di pratiche e strumenti già esistenti il cui fine, anche lì, si era andato forse corrompendo. Un esempio di questo può essere l’attivismo degli azionisti: la capacità di questi di avviare delle vere e proprie trattative con le aziende delle quali detengono quote di capitale, per trasformare – in senso positivo! – le operazioni e le strategie di quest’ultime.
    Ancora una volta: istituzioni virtuose saranno possibili nella misura in cui gli agenti al loro interno avranno intenzione di lavorare per il bene comune.


    NOTE 

    [1] Ancora nel 2020, l’indice di fiducia verso i brand associati al mondo dei servizi finanziari è tra i più bassi tra i settori industriali. Edelman (2020): https://www.edelman.com/sites/g/files/aatuss191/files/2020-06/2020%20Edelman%20Trust%20Barometer%20Specl%20Rept%20Brand%20Trust%20in%202020.pdf
    [2] Per vedere come il settore finanziario sia diventato protagonista anche del conteggio del PIL si faccia riferimento a: Mazzucato, Mariana. Il valore di tutto: chi lo produce e chi lo sottrae nell'economia globale. Gius. Laterza & Figli Spa, 2018.


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