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    Nella terra della comunione


    Andrea De Iuri - Paul Matthias Geck

    (NPG 2020-06-36)

     

    «L’amicizia è un regalo della vita e un dono di Dio» (ChV 150)

    Tre sono le informazioni che ci comunica l’evangelista Luca sulla persona di Zaccheo: è il “capo dei pubblicani”, è “ricco” e “piccolo di statura”. Lo immaginiamo come un uomo facoltoso ma solitario, potente ma incapace di relazioni. Anche quando entra Gesù in città egli si tiene lontano dalla folla, pur volendolo vedere. Sull’albero Zaccheo può osservare senza entrare in un reale coinvolgimento, può mantenere una distanza che lo rassicuri e allo stesso tempo ha un vantaggio sugli altri: vede e pensa di poter controllare tutto ciò che si svolge sotto di lui. Fino al momento in cui Gesù lo chiama: «Zaccheo, scendi» (Lc 19,5).
    Il racconto che apre il capitolo 19 di Luca (1-10) ci sembra essere un ottimo esempio per narrare cosa sia l’amicizia e come l’abbiamo sperimentata nelle nostre vite. Una persona si dimostra amica quando ci invita a scendere dal nostro albero – lì dove ci eravamo nascosti, dove ci sentivamo sicuri. L’amicizia, infatti, non è mai una cosa sicura. Anzi, si tratta proprio di un atto di fiducia, di saltare dall’albero perché raggiunti da uno sguardo che sceglie di fermarsi, di vedere in profondità, di perdonare, di invitare alla comunione.
    Fintanto che Gesù gli sta a debita distanza Zaccheo non si espone, ma quando il Signore si ferma e per la prima volta lo guarda alzando gli occhi (con una prospettiva che mai nessuno aveva utilizzato prima nei suoi confronti, perché sempre più basso degli altri) egli si scopre riconosciuto in tutta la sua unicità e ciò è sufficiente per farlo emergere dalla massa indistinta sotto di lui. È uno sguardo-sguardo che, mostrandogli chi è colui che stava cercando di vedere (cf. Lc 19,3), gli rivela in realtà chi sia egli stesso: un «figlio di Abramo» (Lc 19,9). Ecco che «con l’amicizia Dio ci apre gli occhi [al punto che essa] diventa il suo strumento per creare, e anche per rivelare»[1].
    Tale processo è quanto accade agli amici più veri ed è spesso rischioso. È Gesù stesso a definire l’amicizia come un rischio. Lungi, infatti, dall’essere qualcosa di dolcemente romantico, essa porta in sé la fatica e la fecondità del dono della vita, proprio secondo la parola del Signore per il quale «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).

    L'alterità dell'altro

    Chi ha fatto esperienza profonda di amicizia sa bene che arriva un momento in cui l’affinità elettiva non è più sufficiente e l’altro si mostra a noi in tutta la sua alterità e con spigolature che mal si combinano con le nostre. Allora l’ideale di amicizia che avevamo costruito va in frantumi. È il momento più faticoso e più bello che gli amici possano vivere. «È […] la grazia di Dio che fa rapidamente svanire simili sogni. Dobbiamo cadere in preda a una grande delusione circa gli altri […] e, se va bene, anche circa noi stessi, e a questo punto Dio ci farà conoscere la forma autentica della comunione»[2]. Nel nostro cuore si aprono allora due possibilità: la prima è l’affermazione egocentrica di sé sino alla totale sopraffazione e al rifiuto dell’altro, la seconda è la rinuncia all’egoismo, alla pretesa di risolvere ogni cosa da soli, e l’accoglienza di quanto in un primo momento non ci appariva nemmeno amabile e che tuttavia scegliamo di amare. Solamente questa seconda strada si mostra feconda e, insieme, terribilmente rischiosa[3].
    Ci viene a questo punto in aiuto un’altra immagine che Gesù impiega per spiegare in cosa consista “dare la vita”. Siamo all’ingresso di Gerusalemme, la Passione è ormai vicina e il Signore la annuncia ancora una volta: «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
    Potremmo dire che l’amicizia ci fa gustare quanto sia bello quel non “rimanere soli”, anche quando implica cadere – a volte perfino dolorosamente – dall’albero del nostro ego nella terra feconda della comunione; ecco perché «attraverso gli amici, il Signore ci purifica e ci fa maturare» (ChV 151): perché toglie dal nostro cuore la durezza in cui da soli rischiamo di rinchiuderci e «ci insegna ad aprirci, a capire, a prenderci cura degli altri, a uscire dalla nostra comodità e dall’isolamento, a condividere la vita» (ChV 151).
    Quando degli amici vivono reciprocamente tutto ciò allora appaiono veramente tali e la loro relazione si può realmente dire «un regalo della vita e un dono di Dio» (ChV 151) perché «niente dimostra tanto bene l’amicizia quanto il portare il peso dell’amico»[4].
    Viene da chiedersi come sia possibile amare l’amico in quei momenti in cui ci appare faticoso quanto affrontare un ‘nemico’. Guardiamo nuovamente a Gesù che «è giunto anche al punto di amare chi gli resisteva […]. Quando eravamo ancora nemici, siamo stati riconciliati […]. Se non ci avesse amato da nemici, non ci avrebbe avuti come amici»[5]. Il Signore ci ha «chiamato amici» (Gv 15,15) mentre di noi vedeva di quali meschinità e durezze saremmo stati capaci, «mentre eravamo ancora peccatori» (Rm 5,8); e poiché a motivo di ciò noi stessi non ci saremmo mai scelti per essere “suoi”, lui ha scelto noi (cf. Gv 15,16).
    Così gli amici ci ricordano ogni giorno che siamo stati salvati da «un amore più grande» (Gv 15,13) che ci ha guardati mentre ci sentivamo insignificanti e piccoli e che sedendosi alla nostra mensa ha detto davanti a tutti: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch'egli è figlio» (Lc 19,9) di quella promessa di fecondità fatta ad Abramo, l’«amico di Dio» (Gc 2,23). Così «è Dio ad aver già posto l’unico fondamento della nostra comunione […], in Gesù Cristo»[6].
    Se dunque l’amicizia da sola non basta ci rallegriamo di poter «[aggiungere] all'amore fraterno la carità» (2Pt 1,7): siamo resi cioè capaci di amare «con l’amore con cui siamo amati da Dio. Non con uno diverso»[7]. Per questo in quanto cristiani siamo, possiamo e vogliamo essere amici! Nell’amicizia umana che vive dell’amicizia con Cristo ci è disvelata, infatti, una straordinaria bellezza: mentre ci appare la fatica legata all’alterità dell'amico, riconosciamo una comunione già esistente ben al di là dei nostri sentimenti, delle nostre incostanze e infedeltà. Scopriamo il dono di una comunione che sa tenere insieme tutta l’unicità e la particolarità dell’altro e nostra, i peccati e il perdono, le lotte avvincenti e i raggiungimenti inattesi.
    La nostra piccola esperienza ci conferma[8] – ed è quanto vorremmo qui incoraggiare – che «a questo livello profondo e nascosto, avviene la vera trasformazione del mondo»[9] e il cammino della comunione si apre anche dove inizialmente appariva esserci solo differenza caratteriale, di esperienze e addirittura di appartenenza a Chiese cristiane non ancora in piena unità visibile perché tale comunione «sgorga, quale necessità e conseguenza inevitabile e diretta, dall’unione dell’uomo con Dio»[10].
    Allora «non lasciamoci rubare la fraternità» (ChV 167) e osiamo, nell’amicizia con Gesù, la comunione con ogni uomo e con ogni donna. Forse un giorno, per un dono della sua misericordia, «quando vedremo il volto di Dio, capiremo di averlo sempre conosciuto [perché] Egli ha fatto parte di tutte le nostre innocenti esperienze d’amore terreno, creandole, sostenendole, e muovendole, istante dopo istante, dall’interno»[11]. E ci meraviglieremo nel constatare che «tutto ciò che in esse era autentico amore, anche qui sulla terra, è stato più suo che nostro, e nostro soltanto perché suo»[12].


    NOTE

    [1] C. S. Lewis, I quattro amori. Affetto, amicizia, eros, carità, Jaca Book, Milano 1980-19902, 85.
    [2] D. Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, Brescia 2003-2010, 22.
    [3] Cf. C. S. Lewis, I quattro amori, 111.
    [4] Agostino, Ottantatré questioni diverse, 71.1.
    [5] Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, XX, I.2.
    [6] D. Bonhoeffer, Vita comune, 23.
    [7] R. Cantalamessa, La vita in Cristo. Il messaggio spirituale della Lettera ai Romani, Àncora, Milano 1997, 191.
    [8] Gli autori – l’uno cattolico, l’altro evangelico – hanno vissuto per un periodo in vita comune durante la fine degli studi universitari, condividendo, oltre che una casa pensata come un luogo di accoglienza, anche il tempo della preghiera e i beni economici.
    [9] R. Cantalamessa, La vita in Cristo, 192.
    [10] M. el Meskin, Comunione nell’amore, Qiqajon, Magnano (BI) 1999, 276.
    [11] C. S. Lewis, I quattro amori, 125.
    [12] Ibidem.


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