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    L’Economia di Francesco raccontata dai suoi protagonisti


    Il racconto di alcuni dei "villaggi tematici" all’interno dei quali giovani economisti, imprenditori, change makers hanno immaginato una economia diversa

    (NPG 2020-08-31)


    “Non occupare spazi ma avviare processi”. Queste parole di Papa Francesco hanno animato i cuori dei giovani dell’Economy of Francesco (EoF). Nata come una 3-giorni ad Assisi per ridisegnare l’economia a partire dall’esempio di San Francesco e dalla conversione di ciascuno, EoF si è trasformata in un cammino lungo più di un anno che, nella unicità tragica di questo 2020, ha visto la partecipazione di centinaia di giovani provenienti da tantissimi paesi del mondo. Immaginare e lavorare per un’economia più giusta, più bella, più sostenibile, in definitiva più umana, è ciò che ha portato a spendere tante energie nel pensare come poter mettere a frutto il desiderio di un’intera generazione per “guarire un mondo malato”. I giovani hanno lavorato divisi in villaggi tematici e ci raccontano la loro esperienza.

    Finanza e Umanità. È davvero possibile?

    La parola finanza accostata a quella di umanità suscita in prima battuta un pò di sorpresa, soprattutto se ripensiamo alle vicende della Crisi Finanziaria del 2008-2012 (http://www.consob.it/web/investor-education/crisi-finanziaria-del-2007-2009). D’altra parte, leggendo i giornali o guardando i notiziari, è impossibile non incappare in qualche riferimento a questa zona dell’economia, per niente semplice da identificare con chiarezza. Cos’è la finanza? E qual è il suo ruolo nell’economia? Perché, spesso, essa appare come un qualcosa di astratto, dissociato dal resto della società? Quando la finanza può dirsi “buona”? Tornare a porsi queste domande è oggi di fondamentale importanza per far sì che la parola umanità possa essere nuovamente associata al settore finanziario. In questo contesto, prende forma il Villaggio di “Finance and Humanity”, uno dei dodici gruppi che costituiscono l’ossatura dell’Economy of Francesco, nato proprio con l’obiettivo di restituire un volto umano a questo ambito dell’economia. A fare da stella polare al nostro Villaggio c’è l’enciclica Laudato Si' di Papa Francesco, che al punto 128 dice: “Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società”.
    Una finanza umana è per noi una finanza che si mette a servizio delle persone, del lavoro, della terra. Lavorare per questo obiettivo è ciò che ha portato 200 giovani – economisti, imprenditori, change-makers - provenienti dai 5 continenti a condividere iniziative, progetti, esperienze e competenze. Da un punto di vista operativo abbiamo seguito due direttrici. In primis, abbiamo organizzato incontri virtuali con professori ed esperti di finanza, con l’idea non solo di ascoltare ma anche condividere e proporre suggerimenti (qui ad esempio l’evento organizzato con Mariana Mazzucato circa il ruolo della finanza nella creazione di valore https://www.youtube.com/watch?v=XR2vhySi6i0&t=1974s) ; dall’altra, per dare una struttura più snella al gruppo di lavoro abbiamo individuato 6 aree tematiche che hanno permesso di definire meglio il campo di azione, andando così ad identificare in quali aree i giovani possano essere più incisivi. I sottogruppi spaziano dalla centralità della finanza pubblica per la ricostruzione post COVID-19, alle sfide che la pandemia ha posto per il ruolo di servizio degli operatori finanziari. Un tema di centrale importanza sta toccando il ruolo della finanza sostenibile, quella finanza cioè capace di integrare le sue analisi con considerazioni non solo di natura finanziaria ma anche ambientale, sociale e, soprattutto, umana. Solo una sostenibilità capace di interrogarsi innanzitutto circa la natura dell’uomo e la sua ecologia può infatti considerarsi integrale.
    Questi mesi di chiusura forzata a causa delle misure di sicurezza adottate da molti paesi, hanno portato a stringere solidi legami – virtuali e fisici, ma comunque reali – tra noi partecipanti riuscendo a cogliere anche le opportunità che questa situazione ha generato, tentando di non lasciare nessuno indietro, coinvolgendo persone di lingue e culture diverse. Tutti uniti dal desiderio di stringere con il Papa un patto per una nuova economia. Al di là delle proposte concrete inviate al Papa, il viaggio che abbiamo compiuto insieme verso Assisi rappresenta già di per sè l’avvio di un processo di cambiamento sia in ciascuno di noi che nei contesti professionali all’interno dei quali ci muoviamo.

    CO2 of inequalities. Un incontro che ci cambia la vita

    I villaggi che hanno ospitato i giovani dell’Economy of Francesco portano tutti nel loro titolo un ossimoro, sono attraversati da un’ambiguità. La direzione scientifica dell’evento ha operato questa scelta consapevolmente, per sottolineare che occorre rispettare la complessità dei problemi che affliggono l’economia e il mondo contemporaneo e la serietà delle domande che essi sollevano, evitando di dare risposte banali e scontate. Questo vale anche per il nostro: un villaggio sulle disuguaglianze. Il suo titolo, “CO2 of inequalities” esprime bene la tensione sottostante l’argomento. Non ha senso pensare ad una natura senza CO2. L’anidride carbonica fa parte della vita, è un ingrediente naturale della fotosintesi, un sottoprodotto della nostra stessa respirazione e della combustione. L’anidride carbonica non è dunque un male di per sé, a patto che l’ecosistema sia capace di gestirla e di mantenerla in “equilibrio”. Quando invece l’anidride carbonica supera una data soglia, quando si trasforma in uno scarto, essa diventa insostenibile, impatta sugli equilibri climatici e rappresenta una vera e propria minaccia per il pianeta. Questa metafora ci è di grande aiuto per inquadrare il tema delle disuguaglianze e le sue varie ambiguità. La biodiversità è infatti una risorsa importantissima, non solo in natura ma anche nella società. Molte differenze non sono semplicemente inevitabili, ma possono addirittura essere considerate una ricchezza e uno stimolo allo sviluppo umano e all’emulazione, incoraggiando quel fenomeno denominato “mobilità sociale”. Occorre tuttavia al contempo riconoscere che se le diseguaglianze superano una certa soglia la mobilità sociale diventa una chimera e il funzionamento stesso del sistema sociale ed economico (come ha dimostrato Piketty[1]) entra in una crisi profonda.
    La prima sfida di questo villaggio è stata dunque quella di imparare a distinguere tra differenze e disuguaglianze, a riconoscere che abbandoniamo l’universo delle differenze e precipitiamo nell’inferno delle diseguaglianze quando le molteplici disparità di carattere materiale, relazionale, simbolico e biologico che contraddistinguono gli esseri umani, diventano oggetto di valutazione sociale, “incorporandosi stabilmente in regolamenti istituzionali [e meritocrazie] che conferiscono vantaggi sistematici e ingiustificati ad alcuni a detrimento di altri”[2]. Un interessante studio dell’economista Robert Frank[3] ha per esempio dimostrato che la fortuna esercita un ruolo ben superiore a quanto abitualmente gli economisti tendano a pensare.
    La seconda sfida è stata quella di imparare a riconoscere le diverse forme di diseguaglianza, tanto interconnesse e interdipendenti da rendere assai arduo il compito di determinare quale sia causa e quale effetto. A pesare non ci sono solo le disuguaglianze di reddito, ma anche quelle riguardanti alcuni beni capitali come la salute, il patrimonio genetico, il capitale umano, l’accesso alle nuove tecnologie e alle risorse ambientali, le opportunità legate al genere e all’etnia. L’epidemiologo Michael Marmot[4] ha dimostrato con i suoi studi che la deprivazione economica impatta sullo status sociale delle persone, oltre che sui loro comportamenti. Al netto delle scelte operate dai singoli (e determinate dai beni capitali di cui sopra), il senso di inferiorità veicolato dal giudizio sociale ha conseguenze gravi in termini di salute fisica e mentale, determinando vite più brevi e segnate da maggiori sofferenze. Sulla scia di economisti, scienziati sociali e politici, che hanno speso vite intere alla ricerca di risposte a domande complesse, nel nostro villaggio si è cercato di capire quanta differenza possa essere ritenuta fisiologica nelle società contemporanee, come si possa ridurre la diseguaglianza patologica e quali istituzioni siano immaginabili per redistribuire le risorse (economiche, sociali, di salute e relazionali) al fine di ridurre le varie diseguaglianze.
    Vorremmo fare un passo in più e porci una terza sfida. Non basta chiedersi come riformare le istituzioni esistenti per redistribuire le risorse in maniera più equa. Vorremmo piuttosto sognare un’economia e una società che, come sostiene Kate Raworth[5] (pure lei presente ad Assisi), siano rigenerative e inclusive per design e che non producano nemmeno una vittima, uno scarto, che non dimentichino nessuno. Si tratta di un cambiamento radicale di paradigma rispetto a quello che gran parte della letteratura ha proposto finora, di un movimento che si propone di cambiare dall’interno l’economia, il modo in cui produciamo, consumiamo, viviamo, ci rapportiamo tra noi, perché fine ultimo di ogni nostra attività come individui, società, Stati-nazione, sia la fioritura umana, la creazione di ben-essere e ben-vivere.

    Energia e Povertà. Chi pagherà per la transizione ecologica?

    L’energia è il motore primo del mondo. In arrivo “gratuito” dal Sole, nutre ogni giorno il nostro pianeta e attraverso i processi di fotosintesi alimenta gli esseri viventi da miliardi di anni. L’uomo, durante la sua breve storia di vita, ha sempre cercato di trovare modi più intelligenti per appropriarsene avendo compreso che con l’immagazzinamento dell’energia e la sua ottimizzazione poteva affrancarsi dalla fatica del lavoro, da sempre visto, come ci ricorda la Genesi (3,19), come qualcosa di duro (“Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”) e di faticoso; la scienza, inoltre, ha portato l’uomo ad una capacità di produzione energetica senza precedenti, grazie a processi produttivi sempre più efficienti e tecnologici. Questo è vero in particolare per gli ultimi 200 anni che, visto la rivoluzione industriale, con il carbone e le turbine a vapore, l’utilizzo del petrolio, ad esempio per il motore diesel, e oggi riscopre l’utilizzo di vento e sole, fonti primarie sempre disponibili e sempre gratuite. Proprio da questo aspetto, prende vita il tema fondamentale del nostro villaggio “Energia e Povertà”: solo fonti gratuite messe a disposizione di tutti possono incidere realmente sulla fine dell’indigenza e della schiavitù di molte popolazioni del mondo che ancora oggi non hanno la possibilità di accedere a fonti di energia primarie e per i quali il lavoro è ancora “sudore sul volto”.
    Nei Paesi in via di sviluppo la povertà energetica riguarda circa 1 miliardo di persone che non hanno accesso fisico alla rete elettrica e circa 2,7 miliardi di persone che usano combustibili sporchi e inquinanti per cucinare (fonte: International energy agency).
    Nei Paesi con economie avanzate, invece, la criticità riguarda la convenienza, con un numero rilevante di famiglie che pur avendo elettricità e sistemi di cottura moderni non possono permettersi di consumare tanta energia quanto vorrebbero. Inoltre, il tema di un adeguato riscaldamento e raffrescamento degli ambienti è sempre più presente, anche alla luce degli effetti del cambiamento climatico. La produzione e il consumo di energia infatti apportano circa 1/3 delle emissioni di CO2 del pianeta e sono principale causa diretta della crisi climatica in atto.
    La transizione ecologica in corso, permetterebbe di passare da una industria fondamentalmente basata sulla produzione energetica da combustibili fossili ad una basata sulle energie rinnovabili, sempre presenti, gratuite e di tutti. Questa transizione va d’altra parte gestita e la domanda che i 150 ragazzi del villaggio si sono posti è: “come potremo garantire che questa transizione non avvenga a favore dei più ricchi e a discapito dei più poveri?”. Se pensiamo infatti che, nonostante le risorse minerarie utilizzate finora appartenessero ai paesi in via di sviluppo, questi paesi siano stati tra quelli che meno hanno goduto di questa grande ricchezza, cosa assicura che lo stesso problema di ingiustizia non si verifichi nuovamente? E dato che le tecnologie, i capitali, la giurisprudenza e le grandi imprese provengono dal mondo occidentale, per quale ragione qualcosa dovrebbe cambiare?
    Ecco che i giovani danno le loro risposte: comunità, coesione sociale, eco-alfabetizzazione, costruzione di un sapere nuovo e basato su reciprocità e fiducia nei confronti dell’altro, sono solo alcune delle proposte che i ragazzi e le ragazze di tutto il mondo hanno iniziato a fare al mondo attraverso la forza della parola di di Papa Francesco.
    Ma tutto questo, ci dicono, ha bisogno di tanti altri giovani che si uniscano a loro nei prossimi anni per poter formare una comunità grande, coesa e determinata al fine di favorire una transizione energetica ed ecologica che non lasci nessuno indietro.

    Management e dono: paradosso o evidenza? Illusione o sfida?

    Qual è la visione antropologica da adottare per ripensare il management dopo questa pandemia globale? Qual è lo scopo del business? Quale ruolo gioca la performance aziendale? Come ripensare uno stile manageriale più relazionale? C’è spazio per il dono e per la gratuità negli affari? Quali percorsi aziendali intraprendere per favorire una maggiore interdipendenza tra le istituzioni? Come va gestito il settore pubblico al fine affrontare le sfide del nostro complesso, volatile e turbolento ambiente imprenditoriale? Come dovrebbero comportarsi gli imprenditori nel momento in cui sono chiamati a fronteggiare un momento di crisi come quello attuale?
    Ecco alcune delle domande che nel corso di questi mesi abbiamo posto ai giovani partecipanti del villaggio ‘Management and Gift’, al fine di individuare, insieme, nuove strade per un management innovativo e sostenibile che contribuisca alla realizzazione dell’Economia di Francesco.
    In questi decenni abbiamo visto il lavoro e le aziende colonizzate da strumenti economici gestionali. Troviamo ormai dappertutto strumenti intenti a razionalizzare il lavoro o ad assicurare un continuo miglioramento dei prodotti e dei processi produttivi, questo anche nel settore dei servizi. L’effetto di questo fenomeno sui lavoratori e sulla qualità di vita del lavoro è che questi strumenti, se ci hanno permesso da un lato di sviluppare la produttività e di raggiungere livelli elevati nella qualità e nella sicurezza con costi contenuti e in tempi sempre più brevi, dall’altro hanno trasformato il lavoro, il nostro modo di lavorare e quindi la nostra vita. Andando a guardare a livello micro cosa succede oggi in tante aziende - riguardo il vissuto dei singoli lavoratori - scopriamo che il lavoro è un’esperienza collettiva, eppure, mai come oggi, il lavoro è per tanti esperienza di solitudine.
    Come mai? Per secoli il lavoro è stato prima di tutto un’esperienza di sofferenza fisica, di alienazione a volte. Riemergono regolarmente problematiche legate al malessere lavorativo, fino al punto che alcuni lavoratori e persino manager di grandi aziende internazionali con brillanti carriere e con tanti vantaggi materiali sono arrivati a togliersi la vita sul lavoro. Si tratta di segnali da prendere molto sul serio che portano ad interrogarsi sulla nostra esperienza lavorativa.
    Il lavoro non si misura solo con i numeri, bisogna anche guardarlo, “vederlo con i propri occhi” come ci ricorda lo studioso Pierre-Yves Gomez nel testo Le travail invisible. Bisogna soprattutto saper scorgere il dono che c’è all’interno del lavoro, ovvero la gratuità che lo caratterizza.
    La gratuità non è indifferenza. Su queste parole, ‘gratuità’ e ‘dono’, abbiamo chiesto ai nostri giovani di interrogarsi, fornendo loro diversi spunti provenienti dal mondo imprenditoriale, aziendale e accademico.
    Il mondo delle imprese oggi vacilla e soffre perché non sa più riconoscere il lavoro delle persone. Non sa più riconoscere la dimensione di dono e di gratuità inerente al lavoro. Il linguaggio della gestione aziendale è quello dei numeri, mentre il dono è allergico al calcolo. Come sarebbe invece un’organizzazione capace di riconoscere il dono dei suoi lavoratori?
    È con questa domanda nel cuore che i nostri giovani ci stanno fornendo spunti e riflessioni importanti, decisivi, per contribuire assieme alla nascita di un nuovo modo di fare management, così da arrivare a riconoscere il lavoro delle persone in tutta la sua bellezza e unicità anche in ambito manageriale.

    Life and life-style

    Gli Stili di vita sono costruzioni sociali radicate nella storia e nello spazio. Queste costruzioni sociali sono osservabili in una dimensione collettiva e una individuale. La dimensione collettiva è rappresentata dalle istituzioni, le quali influenzano le relazioni fra le persone, le comunità e i luoghi in cui queste persone vivono. La dimensione individuale è rappresentata dell’interazione fra gli istinti e le istituzioni stesse. La combinazione della dimensione collettiva e della dimensione individuale contribuisce a costruire il modo in cui gli esseri umani consumano beni e servizi, e il modo in cui si procurano le risorse necessarie al consumo. In questi mesi abbiamo lavorato per creare queste costruzioni sociali, con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione. Abbiamo avviato il nostro lavoro a gennaio con un questionario in cui chiedevamo ai ragazzi di scegliere una preferenza tematica. Di conseguenza, abbiamo avviato i lavori di sette sottogruppi tematici gestiti dai nostri Senior: Arts & Music, Sport, Ethical finance, Education, Responsible production and consumption, Environment e Sustainability. Inoltre, partendo dallo slogan “Tutto è interconnesso” abbiamo invitato i ragazzi a riflettere sui temi dell’ambiente e della sostenibilità; preziosi sono stati gli input forniti dal Senior del villaggio Giorgio Vacchiano, scienziato forestale, per una riflessione approfondita sulle cause e conseguenze del cambiamento ambientale e durante la settimana Laudato Si’ dall’imprenditore EdC John Mundell e il suo “Dado della terra”. L’insorgere della crisi sanitaria dovuta alla pandemia ha ampliato la riflessione che è culminata in un webinar in cui Leonardo Becchetti e Francesco Salustri ci hanno illustrato la comune ricerca condotta sul tema: “La crisi ambientale e la pandemia del Covid-19: cosa dobbiamo imparare per il futuro”.

    Lavoro e Cura

    Nel Villaggio "Lavoro e Cura" siamo partiti dalla constatazione che ogni uomo e ogni donna sulla Terra sono chiamati a prendersi cura del creato: fin dalla Genesi, come ricorda anche papa Francesco in Laudato Si’ (124), sappiamo che l’uomo è posto nel giardino per coltivarlo e custodirlo. Attraverso la sua attività creativa, infatti l’uomo ha il potere di interagire con la natura in tutte le sue forme: le persone si prendono cura l'una dell'altra, si prendono cura (e talvolta danneggiano) la Terra e possono "prendersi cura", degli altri e del creato, attraverso il proprio lavoro. Allo stesso tempo, attraverso il lavoro, le persone si guadagnano anche da vivere. Così, a sua volta il lavoro ha bisogno di essere curato, attraverso una prospettiva di ecologia umana integrale, come ci chiede Papa Francesco. La cura richiede lavoro e il buon lavoro comporta cura. Entrambi sono necessari per la nostra vita incarnata sulla Terra e, quindi, sono entrambi dimensioni fondamentali del genere umano.
    Nel nostro villaggio durante questi mesi abbiamo lavorato molto per esplorare sia il lavoro che la cura e la possibilità che possano evolvere insieme. Ad esempio secondo la prospettiva proposta da Jennifer Nedelski, che propone una ridistribuzione a livello individuale e sociale del carico di lavoro e cura (intesa come cura degli affetti, delle relazioni e anche del prossimo in senso più ampio, attraverso il volontariato) nella settimana ideale di ogni persona. Tutto questo nel contesto delle profonde trasformazioni tecnologiche, sociali e normative che stiamo vivendo, che abbiamo esplorato a lungo grazie all’apporto di esperti nell’ambito del progetto “The future of work”, promosso nell’ambito dell’International Labour Organization, grazie al quale sono emerse le principali sfide per garantire accesso al lavoro dignitoso per tutti nel prossimo futuro. Il lavoro del villaggio è stato arricchito anche da testimonianze preziose, come quella di Marco Trivelli, direttore della Sanità della Lombardia, che ha messo in luce cosa può significare “prendersi cura” nell’ambito del proprio lavoro nel mezzo di una pandemia, quando è necessario coniugare competenza e professionalità avendo come fine unico la salvaguardia della salute di ogni malato. Infine, non è mancato l’apporto del pensiero sul lavoro di San Francesco, che definiva una “grazia” il poter lavorare, ribaltando la prospettiva tipicamente romano-medievale del lavoro (labor) inteso unicamente come fatica e fardello. Il nostro obiettivo è quello di trovare modi di lavoro e di cura che onorino la nostra responsabilità di amarci e rispettarci l'un l'altro e di tutto il creato.

    Policies for Happiness

    Papa Francesco nel suo magistero non si è mai sottratto ad una critica radicale al nostro modello di sviluppo. Egli ha spesso sottolineato come la crisi ecologica e le diseguaglianze sociali che caratterizzano il nostro tempo siano la conseguenza macro di processi che avvengono al livello micro del singolo individuo. Qual è il fine dell’esistenza umana? Che cosa persegue ciascuno di noi? Le domande ultime che danno senso alla vita hanno una rilevanza enorme per l’economia. Si può ben dire che la risposta più comune dell’uomo contemporaneo alla domanda sul senso e sul fine della vita sia la ricerca della felicità individuale. E nella declinazione materialista ed individualista di questa risposta si annidano molti dei mali del nostro modello di sviluppo.
    La Scienza economica da tempo si interroga sui limiti dell’utilitarismo e sull’individualismo metodologico che la caratterizzano, sopratutto dopo la scoperta del paradosso di Easterlin (1974) che evidenziò come nelle società occidentali che godono di abbondante ricchezza materiale ma soffrono la povertà di beni relazionali, la felicità auto-dichiarata non aumenta con l'aumento del reddito. Gli studi sulla felicità hanno fatto in questi anni grandi passi avanti e oggi sappiamo che la felicità delle persone è una conseguenza più della qualità delle relazioni e delle istituzioni che non dell’abbondanza di beni materiali.
    Ma il nostro villaggio ha inteso portare questa riflessione ben oltre. Nonostante la “felicità” sia un’idea più nobile di quella dell’“utilità”, è essa davvero il fine della vita? Noi cristiani crediamo nella chiamata di Dio per ciascuno di noi alla santità, e la mappa che porta alla santità è tracciata dalle virtù. Jeffrey Sachs, massimo esperto mondiale di studi sulla felicità, in un webinar ci ha ricordato che il perseguimento di una vita virtuosa, come ci hanno insegnato Aristotele e San Tommaso, produce per moltissimi l’effetto collaterale di rendere felici, ma non va scambiato l’effetto collaterale con il fine. Stimolati dall’enciclica di Papa Francesco sulla famiglia Amoris Laetitia, abbiamo anche riflettuto, assieme al Vescovo di Assisi Domenico Sorrentino, su come la famiglia costituisca uno snodo cruciale, ancorché negletto, tra la realizzazione del disegno di santità pensato da Dio per ciascuno di noi e la fioritura economica della società intera.

    Women for Economy

    Il villaggio Women for Economy è stato creato per discutere i problemi legati al ruolo delle donne nella transizione verso il nuovo paradigma. Ai partecipanti è stato proposto un percorso di condivisione di visioni ed esperienze, soprattutto per comprendere le dinamiche che impediscono alle donne di essere agenti del cambiamento. I partecipanti sono stati divisi in cinque gruppi, a seconda dei loro interessi e della lingua. Ci siamo chiesti: e se l’economia fosse una donna…? Cosa vedrebbe, cosa direbbe, cosa sentirebbe, e soprattutto, cosa farebbe?
    Gruppi diversi, situati in diverse aree del mondo hanno mostrato molte visioni simili, ma anche differenze interessanti, l’una a complemento dell’altra. Se l’economia fosse donna, avrebbe sicuramente una visione sistemica, che tenga conto delle interconnessioni fra la vita sociale e la natura, e di tutte le componenti del benessere della persona. Se l’economia fosse una donna, prenderebbe le necessità delle persone come punto di partenza: quelle dei lavoratori e delle loro famiglie, ma anche quelle di chi non riesce ad essere incluso nella forza lavoro, restando escluso dalla vita sociale. La necessità di alleviare e prevenire le varie forme di vulnerabilità non sarebbe vista come una dimensione marginale, ma come uno degli obiettivi principali della politica.
    Come realizzare questi obiettivi in pratica? Le statistiche evidenziano che le donne con figli percepiscono un salario inferiore rispetto a quelle senza figli. Le politiche di azione affermativa, come le quote rosa, non hanno risolto questo problema, e anzi spesso hanno generato fastidio e pregiudizio nei confronti delle donne. Quindi la vera urgenza è ampliare l’opportunità di lavoro per le madri, ad esempio con congedi più lunghi. Un’altra questione spinosa è la pratica del tirocinio non retribuito, che automaticamente esclude tanto le giovani madri quanto i giovani con un reddito basso. In generale, aver studiato non si traduce in una vera emancipazione. Anche le donne istruite o con un reddito alto sono soggette ad alcune “distorsioni di comportamento” che hanno un'origine culturale e che si possono così riassumere: paura del denaro, paura della tecnologia, e paura di confrontarsi con le autorità legali (cioè paura di rapportarsi con le faccende storicamente percepite come “maschili”). Un problema legato a questo aspetto è stato definito “dream gap”: sono le ragazze stesse che, già da giovani, tendono ad investire poco nelle conoscenze STEM (Science, Technology, Engeneering and Mathematics) perché legate a ruoli lavorativi in cui non si riconoscono.
    Per questi motivi, occorre investire in progetti educativi che aiutino i ragazzi e le ragazze a cambiare le loro percezioni. Una prima proposta riguarda dei programmi educativi, rivolti ai bambini insieme alle loro madri, che aiuti le giovani donne a prendere maggiore dimestichezza con il mondo del denaro, della tecnologia e delle istituzioni. Inoltre, occorre insegnare ad accettare il fallimento come parte integrante della vita umana, per produrre una nuova cultura dovrebbe promuovere la cooperazione e la solidarietà invece che la competitività. A questo proposito, occorre cambiare lo sguardo sulla maternità, facendo emergere il valore del lavoro domestico e di cura, aiutando a vedere la maternità come una fonte di maggiore capacità e non come una limitazione. Per far emergere tutti questi aspetti, alcuni giovani del villaggio hanno proposto un progetto comunicativo di condivisione di storie. Il cambiamento dovrebbe coinvolgere anche le imprese e le organizzazioni, che dovrebbero essere sottoposte ad un processo di auditing. Inoltre, è necessario anche un intervento governativo, per assicurare la protezione dalla violenza e dalle molestie, oltre che di politiche che favoriscano la conciliazione vita-lavoro.

    Business and peace

    Accostare il business alla pace è molto difficile. Gli affari sono concreti e il loro frutto è il denaro, facilmente misurabile e calcolabile; i suoi strumenti non rispondono alla morale ma non sono per forza immorali: sono semplicemente amorali. Un buon affare fa guadagnare soldi, un cattivo affare li fa perdere. La pace, invece, è un dono dello Spirito, i suoi frutti sono perlopiù immateriali e gli strumenti rispondono a logiche diverse da quelle del pensiero utilitarista e appaiono sempre poco convenienti. È realistico far convergere il sistema economico verso obiettivi di pace? Senza un’industria di pace, e la riconversione dell’economia che uccide, non può esistere neppure un vero sviluppo sostenibile e una ecologia integrale, a pena di cadere nel riduzionismo (Laudato Si’ 92). Anche in Italia abbiamo casi eclatanti di affari economicamente vantaggiosi legati al disastro umanitario e ambientale da cui partire: la RWM, produttrice di bombe in Sardegna vendute all’Arabia Saudita, e dell’ex-ILVA, acciaieria il cui nome è legato alla città di Taranto. Fatti che ci chiedono di cambiare le regole del gioco dei singoli Paesi e a livello internazionale.
    Il business uccide con le armi e con produzioni velenose per l’essere umano e l’ambiente. Fortunatamente c’è chi connette ancora la propria coscienza a mani e mente per svelare “l’ipocrisia armamentista” dei Paesi ricchi, denunciata da Papa Francesco. Alcuni di loro ci hanno aiutato a costruire il villaggio Business&Peace. Ad esempio Stefano, giovane impegnato per la riconversione dell’industria bellica della sua regione, Joumana, che ha abbandonato una brillante carriera nella finanza per lavorare per i poveri e i bambini libanesi, Marina, impegnata a rimediare ai danni degli affari delle imprese minerarie nel cuore del Brasile. L’impegno che vogliamo stringere con il Papa, e tra noi partecipanti a Economy of Francesco, ha l’obiettivo di riconvertire i processi socio-economici che minacciano la pienezza della vita: misurare la pace in termini macroeconomici, il ruolo e il miglioramento delle istituzioni e delle regole globali, i settori economici da riconvertire per promuovere la pace, la proliferazione delle bombe nucleari e la revoca della società produttrici di armi dalle negoziazioni di Borsa.

    Imprese in transizione: ma quale?

    Oggi nel mondo delle aziende si parla molto di transizione: transizione energetica, transizione digitale, transizione ecologica… Tutte importantissime. C’è tuttavia una transizione molto più profonda che le imprese dovranno compiere. Si tratta della transizione dall’identificazione del “problema”, alla proposta di una “soluzione”. Con le parole di Papa Francesco: “che il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione”.
    Il villaggio di “Imprese in transizione” ha lavorato proprio in questa direzione. Innanzitutto riconoscendo che gli interessi di alcune grandi aziende contribuiscono a grandi problemi della nostra umanità, non solo ambientali ma anche sociali (sfruttamenti, guerre, ecc.). In questi mesi abbiamo studiato ad esempio il caso Dupont dialogando con l’avvocato Robert Billot (https://www.youtube.com/watch?v=ELJybrwB95M) che ha portato avanti un lungo processo in difesa di centinaia di famiglie ammalate a causa delle acque inquinate da questa azienda, la cui vicenda è stata raccontata nel film Dark Waters.
    Non ci siamo fermati però alla parte di critica, sapendo che le aziende possono e devono essere parte della soluzione. Il loro contributo, in termini di innovazione, creatività e intelligenza pratica, è troppo prezioso per privarcene. Lo dimostrano migliaia di aziende, molte di esse promosse da giovani imprenditori, create direttamente per produrre un impatto ambientale o sociale, anziché massimizzare i profitti. I manager di alcune grandi aziende (https://www.businessroundtable.org/business-roundtable-redefines-the-purpose-of-a-corporation-to-promote-an-economy-that-serves-all-americans) hanno capito che il vento ormai soffia in quella direzione, vedremo se alle parole seguiranno anche i fatti…
    Per favorire questa transizione è necessario un pensiero profondo e iniziative concrete, un lavoro che si è portato avanti con i giovani del villaggio. Ci siamo interrogati ad esempio su quale sia la ragion d’essere delle aziende nell’economia di questo millennio, caratterizzata dalla centralità dei beni comuni, e dove la massimizzazione del profitto è incapace di esprimere il “fine” di una azienda. Si stanno poi studiando quali siano i modelli di business più adeguati per le aziende che hanno tra i loro scopi quello di produrre un impatto positivo nella società. Il futuro delle aziende dipenderà sempre più dallo sviluppo tecnologico. Ma l’uso della tecnologia è direttamente collegato alla concezione che si ha della ragion d’essere di una azienda. Se il motore della azienda è soltanto il profitto, i criteri d’uso della tecnologia saranno efficienza e produttività, lasciando da parte l’elemento umano. Una tecnologia invece al servizio di uno sviluppo umano integrale può fare la differenza in positivo.

    Vocation and Profit: La situazione attuale e il nostro impegno

    Il villaggio Vocation & Profit nasce dalla frattura tra profitto e aspirazioni dell’individuo e dell’impresa (vocazione). Spesso le aziende si focalizzano sulla massimizzazione del profitto e finiscono con l’alienare i lavoratori o trascurare l’ambiente e la società. Allo stesso modo i singoli lavoratori e imprenditori possono focalizzarsi sul profitto perdendo di vista le proprie aspirazioni o ideali. In entrambi i casi, le regole economiche sostituiscono quelle morali, dettano leggi e impongono i propri sistemi di riferimento, impedendo all’uomo di esprimere pienamente la sua originalità e deprivando quindi l’economia di un valore immenso.
    Comprendere qual è la nostra vera vocazione, aiutare gli altri a trovarla, proteggerla dalla logica del profitto estremo ed estendere il nostro approccio a sistemi più grandi (personale, di team, di azienda…) è dunque il nostro impegno.
    I partecipanti del villaggio hanno avuto modo di sviluppare consapevolezza di questi temi tramite diverse tipologie di incontri e attività qui descritte:
    - Tre incontri plenari: a marzo per rispondere alla necessità essenziale di conoscerci, a giugno per approfondire le tensioni tra vocazione profitto tramite la tecnica del World Café, a settembre per delineare progetti su cinque aree di intervento da proporre al pontefice (vedi sotto).
    - Incontri, seminari e conversazioni con esperti tra un incontro plenario e l’altro. In ordine cronologico:
    Aprile - “Connection Mondays”: incontri settimanali per condividere aggiornamenti, conoscersi e discutere in maniera informale;
    Maggio-Luglio “Circle Times”: seminari e workshop sui tentativi più promettenti di riconciliare Profitto e Vocazione: B-Corps, Ikigai, Blueprint for a Better Business…
    - Vocation and Survey: in concomitanza col Word Café, i partecipanti hanno svolto un sondaggio per mappare le competenze e le aspirazioni comuni, e sulla base di queste delineare i gruppi di lavoro;
    · Changemakers che possano avviare gruppi locali e supportare gli altri cantieri;
    · Educators che intendono creare corsi digitali per formare e ispirare;
    · Writers & Communicators che possano creare articoli e contenuti da condividere;
    · Researchers per identificare le aree di intervento sistemico e creare punti di connessione col mondo accademico;
    Social Entrepreneursche possano collaborare coi Change-makers per creare e supportare le attivita’ anche a livello locale.
    - Infine, sono nati spontaneamente alcuni gruppi di studio e di socializzazione:
    · Un gruppo di lettura e discussione della Laudato Si’;
    · Un gruppo “Vocation & Party” per attività di team building durante il lockdown e a seguire “Vocation & Praise” e “V&P valori e radici” per creare un insieme di valori comuni.

    Suggerimenti per la pastorale

    Ci permettiamo infine, in tutta umiltà, di offrire due spunti al fine di guarire la frattura esistente tra Vocazione e Profitto:
    - Bisogna rimuovere alla radice l’idea che vocazione e profitto siano incompatibili. Fate attenzione a come i ragazzi interpretano e applicano le parole “non potete servire Dio e la ricchezza”. Questa frase, insieme ad altre simili nel Vangelo, può essere fraintesa e portare ad una demonizzazione del profitto. Non possiamo permettercelo. Insegnate il senso evangelico del denaro. Vogliamo che gli uomini di potere di domani siano ben coscienti della loro vocazione e che gli uomini comuni di domani siano ben coscienti dell’importanza del profitto. Non vogliamo vedere un domani parrocchie piene di giovani senza lavoro o Wall-Street piene di uomini che non sanno cosa fare di ciò che guadagnano.
    - La relazione tra Vocazione e Profitto passa molto più efficacemente con i fatti che con le parole: il luogo della missione oggi è far fare esperienza ai ragazzi del “guadagnarsi il pane da sé”, partendo dalle proprie aspirazioni e dai propri sogni. Ciò è particolarmente necessario per supplire ad una carenza educativa della scuola italiana (focalizzata troppo su un apprendimento teorico), in particolare in zone del Centro-Sud dove si assiste al fenomeno dei NEET. Abbiate cura che questa sia un’esperienza di comunità perché se non è così si rischia di far passare un messaggio di “indipendenza” invece che di interdipendenza (coerentemente con la Laudato Si’). 


    NOTE

    [1] Piketty, T. (2019). Capital et idéologie. Parigi: Seuil.
    [2] Lucchini, M. (2012). Disuguaglianze sociali, eterogeneità individuali. Milano: Cortina editore.
    [3] Frank, R. (2016). Success and Luck: Good Fortune and the Myth of Meritocracy. Princeton: Princeton University Press.
    [4] Marmot, M. (2004). The Status Syndrome. How Social Standing Affects Our Health and Longevity. New York: Time Books.
    [5] Raworth K. (2017). L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo. Milano: Edizioni Ambiente.


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