Ascoltare la realtà per riconoscere la propria vocazione
Michele Gianola
(NPG 2020-06-45)
«La vostra vita non è un ‘nel frattempo’. Voi siete l’adesso di Dio, che vi vuole fecondi» (ChV 178)
Ai bambini si insegnano i nomi delle quattro stagioni, normalmente in quest’ordine: primavera, estate, autunno, inverno. Così è facile periodizzare la vita che inizia con la fanciullezza, cresce nel vigore della gioventù e si avvia verso le stagioni nelle quali viene meno l’energia e si raffredda. Tuttavia, trovo che questo sia un errore sia cronologico che spirituale. Per il nostro calendario l’anno (il tempo) comincia con l’inverno e solo dopo i primi mesi arriva la primavera, poi l’estate e l’autunno. Così è della vita dell’uomo: anch’essa inizia con l’inverno, la stagione nella quale la terra, custodita dalla coltre nevosa, si prepara per germogliare; la sapienza contadina delle regioni più fredde ha condensato questo fenomeno in un insegnamento: «Sotto la neve, il pane». Lo stesso ci viene annunciato dal dispiegarsi dell’Anno Liturgico che accompagna sacramentalmente la nostra fede nella storia della Salvezza, anche personale: inizia alla fine di novembre – nelle fredde notti dell’inverno nel quale inizia a risplendere la prima luce del Natale, con il suo tepore – e conduce alla primavera della Pasqua che dischiude al tempo adulto della vita nuova.
Lo sguardo che ne viene sulla vita è totalmente differente e decisamente più vocazionale perché permette di osservare l’infanzia e l’adolescenza come il tempo nel quale il brulicare dell’identità in costruzione tra tante esperienze e mille contraddizioni e insicurezze, se custodito e coltivato è orientato a preparare il fiorire della vita. La domanda vocazionale «per chi sono io?» (cf. ChV 286) è da nutrire nel tempo dell’inverno per vederla spuntare nei primi germogli della scelta di vita. La fecondità – parola che condivide la medesima radice di ‘felicità’ – è un processo che va accompagnato in ciascuna delle sue fasi, lungo tutte le stagioni perché nel tempo maturo della vita adulta la pianta trovi il suo vigore e possa portare il frutto fino al tempo della raccolta, l’autunno della vita nel quale si potranno, finalmente, gustare i frutti di bene che si conservano per la vita eterna.
Questa è la vocazione: tutta la vita che fecondata dalla Parola e illuminata dalla vita dello Spirito è capace di germogliare e portare frutto. Per questo: «dobbiamo pensare che ogni pastorale è vocazionale, ogni formazione è vocazionale, ogni spiritualità è vocazionale» (ChV 254) perché ogni persona, io, «sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare. Lì si rivela l’infermiera nell’animo, il maestro nell’animo, il politico nell’animo, quelli che hanno deciso nel profondo di essere con gli altri e per gli altri» (Evangelii gaudium, 273).
Una spiritualità giovanile
In tale prospettiva, si intuisce chiaramente come la spiritualità giovanile (la pastorale, la formazione) non possa che essere orientata al riconoscimento dei possibili inizi della propria vocazione. Dopo, se il processo continua ad essere accompagnato e non si smette di coltivare, si inizia a diventare adulti, stagione nella quale occuparsi della propria vocazione è il compito principale: sarebbe sciocco il contadino che si occupasse più del crescere dei primi germogli che del coltivare il campo così da gustare i frutti maturi. Così, la pastorale giovanile intercetta una fascia d’età all’interno di un processo che non può essere disarcionato dal passato e disorientato rispetto al futuro, pena ostacolare l’opera dello Spirito e smarrire le coscienze dissipando la scelta di vita. La forza vitale della giovinezza, come acqua sorgiva, ha bisogno di trovare un canale nel quale convogliare tutto il proprio vigore, ha bisogno di intuire il luogo e le persone da amare perché l’energia possa svilupparsi in un torrente fecondo (cf. Ez 47) e non disperdersi in una palude.
Chi crede, vede
Non è possibile riconoscere la propria vocazione cristiana senza entrare nella sinergia con Dio. Intuire la possibilità che il Signore desidera mischiare le sue forze con le nostre perché l’opera della nostra vita possa compiersi insieme come alla scuola di un Maestro. Che ciò che desidero e voglio fare possa essere condiviso con lo Spirito che insegna ogni cosa (Gv 14,26) perché sia buona e migliore. Una pastorale giovanile che sia vocazionale non può prescindere dalla tensione a condurre i giovani alla vera fede, accompagnandoli alle soglie del Roveto perché Dio possa servirsi della loro curiosità (cf. Es 3,14) e rivelare loro la sua Parola.
È una grande opera di semina. E come insegna la parabola, il seme va sprecato, gettato in abbondanza (Mc 4,3) perché – come accade nell’atto del generare – è sufficiente che un seme soltanto affondi nel terreno perché attecchisca e nasca una nuova vita. Anche per la fede è così: è sufficiente una Parola per generare la vita nuova, che viene dall’ascolto (Rm 10,17). Servono qualcuno che annunci e tanti che preparino il terreno dissodandolo in quella
«forma di predicazione che compete a tutti noi come impegno quotidiano. Si tratta di portare il Vangelo alle persone con cui ciascuno ha a che fare, tanto ai più vicini quanto agli sconosciuti […]. Essere discepolo significa avere la disposizione permanente di portare agli altri l’amore di Gesù e questo avviene spontaneamente in qualsiasi luogo, nella via, nella piazza, al lavoro, in una strada. In questa predicazione, sempre rispettosa e gentile, il primo momento consiste in un dialogo personale, in cui l’altra persona si esprime e condivide le sue gioie, le sue speranze, le preoccupazioni per i suoi cari e tante cose che riempiono il suo cuore. Solo dopo tale conversazione è possibile presentare la Parola […] sempre ricordando l’annuncio fondamentale: l’amore personale di Dio che si è fatto uomo, ha dato sé stesso per noi e, vivente, offre la sua salvezza e amicizia» (Evangelii gaudium, 127-128).
Si tratta di accompagnare alla fede perché sola è capace di aprire lo sguardo (cfr. Lumen fidei, 1) nel discernere la realtà e intuire, attraverso di essa, la propria vocazione e missione in un processo che nella giovinezza – lo ricordo – ha soltanto il suo inizio, la terza nascita «che apre all’esercizio maturo della libertà» (cf. SINODO DEI VESCOVI, Documento preparatorio, I) e che ha bisogno di una vita intera per consolidarsi.
Riparatori di strade
La vita di tutti noi, dei giovani soprattutto, si presenta sempre più spesso come un’opera preziosa andata in mille pezzi. Il ministero dell’ascolto ha sempre più a che fare con la raccolta e la pulizia di tanti frammenti e la paziente ricucitura, la attenta opera di restauro che ciascuno ha la possibilità di compiere sotto l’azione della Grazia di Dio che la renderà ancora più bella. Si tratta di entrare in contatto con la nostra creaturalità per riconoscere che «la fragilità che la caratterizza evoca delicatezza, sensibilità, gentilezza, discrezione, cura; racconta le stagioni della vita con le loro fatiche, la dipendenza tenera di un neonato, l’indecisione inquieta di un giovane, la salute cagionevole di un anziano» (SIENI F.M., «La polvere e l’oro. L’impasto della vita» in Vocazioni XXXVI (2019) 3, 21).
Ricevere l’annuncio della cura di Dio è sconfiggere il fantasma della propria inadeguatezza e l’idolo imperativo del dover emergere, diventare qualcuno. Condurre alla scoperta della propria figliolanza divina è il passo iniziale per attraversare la paura della morte, vivere nella pace con il Risorto e gustare la compagnia degli altri uomini, «vedere l’estraneo diventare fratello e il Verbo farsi carne e abitare in mezzo ai suoi» (DELBRÊL M., L’hôtellerie).
Una pastorale vocazionale è tesa a prendersi cura: è esperienza vivificante per la spiritualità di ogni giovane scoprirsi sotto la premura di Dio, costantemente all’opera perché «le proprie antiche rovine siano riedificate, ricostruite le fondamenta di trascorse generazioni, restaurate le proprie strade perché tornino ad essere popolate» (cf. Is 58,12).
Audaci e creativi
Un elemento fondamentale della giovinezza è il desiderio di costruire qualcosa nella vita, segnare un proprio tratto nella storia, generare qualcosa di buono da mettere al mondo. La profezia della giovinezza è accompagnata dalla possibilità di ‘progettare’ il futuro, di lanciare lo sguardo in avanti per intuire nell’oggi le possibilità di domani.
Sono l’audacia e la creatività le caratteristiche da incentivare in quell’Adamo plasmato ad immagine e somiglianza di Dio che si rivela creatore: «la creatività […] è l’immagine del Creatore presente nell’uomo» (cf. BERDJAEV N., Il senso della creazione, 45). Senza assecondare la tentazione dalla quale la Scrittura ci mette in guardia fin dall’inizio – quella di diventare come Dio (cf. Gen 3,5) – la parola dischiude, nella giusta postura, il suo significato più vero e incentiva la propria responsabilità, la capacità di rispondere alla chiamata che viene dalla realtà e della quale mettersi a servizio.
Sovente si legge che nel nostro tempo, il senso del futuro è appiattito sul presente e questo può essere indubbiamente vero ma non per l’occhio bagnato dalla fede e dal genio della creatività che infrange il fronte della storia per seminare il domani. Non sarà per tutti così, forse. «Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Prima, risveglia negli uomini la nostalgia del mare» (A. DE SAINT EXUPERY).
In una visita alla Sagrada Familia, il grande architetto Etsurō Soo che accompagnava il nostro gruppo ci illuminò osservando che il genio di Gaudì, lavorando alla cattedrale che mai avrebbe visto conclusa, decise di innalzare, per prima, la sola parete della Natività di modo che chiunque, vedendo una parte compiuta dell’intera opera, avrebbe potuto appassionarsene, immaginando il futuro. L’immagine è decisamente generativa, libera lo stesso Autore dal trattenere la propria creatura, lasciandola andare verso il futuro che la vedrà costruirsi nelle mani di altri.
Orizzonti
Vorrei suggerire un’ultima immagine. Nella nuova serie del documentario televisivo statunitense Cosmos: odissea nello spazio, il presentatore, Neil de Grasse Tyson, racconta di una periodizzazione compiuta allo scopo di far percepire allo spettatore le dimensioni dell’universo. La durata dell’espansione cosmica dal momento del big bang è di più di tredici miliardi di anni. Una cifra così immensa è difficile da immaginare. Meno se la si organizza sull’ideale calendario dell’anno cosmico i cui mesi hanno la durata di circa un miliardo di anni. Così dall’esplosione originaria avvenuta il primo gennaio si può osservare la nascita della luce, dei primi ammassi gassosi, delle stelle: la nascita del sole avviene il 31 agosto dell’anno cosmico, quella della terra il 14 settembre e l’uomo vi fa la sua comparsa… alle 23.59 e 45’ del 31 dicembre! Tutta la storia degli uomini, in relazione all’universo si compie negli ultimi quindici secondi della mezzanotte di Capodanno. «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure, l’hai fatto poco meno degli angeli» (Sal 8).
Allargare l’orizzonte della percezione di sé libera dall’ansia di prestazione, permette di riconoscere che c’è un tempo prima e dopo di noi, che ci sono miliardi di altre persone e che per quanto grande un uomo possa diventare è infinitamente piccolo ma che, allo stesso tempo ciascuno è amato dal Padre, importante perché la sua opera possa compiersi, come in un mosaico. Qual è il tuo pezzetto? In questo grande tessuto che è il tempo, la casa dell’uomo nella quale far germogliare la vita di Dio.
«Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea. [Il patriarca Bartolomeo] ci ha proposto di passare dal consumo al sacrificio, dall’avidità alla generosità, dallo spreco alla capacità di condividere, in un’ascesi che significa imparare a dare e non semplicemente a rinunciare. È un modo di amare, di passare gradualmente da ciò che io voglio a ciò di cui ha bisogno il mondo di Dio. È la liberazione dalla paura, dall’avidità e dalla dipendenza» (Laudato sI', 11).