Le racidi cristiane della vita comune
Paolo Arienti e Mattia Cabrini [1]
(NPG 2020-03-15)
C’è una fonte al tempo stesso remota e prossima che raccorda le esperienze di vita comune: il “noi” comunitario che Gesù sin dalle prime pagine di Marco fa suo e chiede di assumere a quanti scelgono di stare con lui. Detto in altri termini: lo stare con il Signore è sempre anche uno stare con altri che si scoprono accomunati dalla stessa chiamata e dalla stessa stoffa umana.
La prima autorevole fonte: la Scrittura
Questo stare è quello della costituzione dei 12, ma anche quello dell’ultima cena, come pure quello del Cenacolo di Pentecoste. I Vangeli costruiscono così una specie di trama di relazioni forti orientate ad un perno, la persona di Gesù e il suo essere maestro. Negli stessi anni Paolo disseminerà il suo epistolario di espressioni che oscillano dal lessico della fraternità alle espressioni dell’essere in/con Cristo. Giovanni sceglie il verbo rimanere, nella duplice accezione di una condizione che il peccato può offuscare, indebolire, interrompere, e di una esperienza che ha una casa, un fondamento, un “amen” su cui appoggiarsi. Nei secoli di tirocinio delle comunità cristiane, in epoca di christianitas come in situazioni di minoranza, questa spiritualità dello stare/essere in/ rimanere si è costituita come sostanza di una identità alle prese con il mondo e con le sue forme vitali: ha assunto di volta in volta la struttura del cenobio monastico, della vita del prete, della ricerca di identità credente del laico, dell’Oratorio o del gruppo ecclesiale… lasciandosi interrogare dalle strutture dell’esperienza concreta delle cose. In tutte le sue forme l’esperienza cristiana ha avvertito l’urgenza di tenere connessi come due poli, riconoscendoli costitutivi di sé: il cenacolo e il mondo, la sorgente e il fiume da navigare o guadare, la chiamata e la missione.
Non importa quale set linguistico si scelga: in ogni caso quell’essere in Cristo deve tener presente tutti i fattori in gioco (il rapporto con Gesù vivo, il mondo, i fratelli). Per questo il Cristianesimo si dà sempre in forma plurale e comunitaria (il “noi” dei fratelli) ed eucaristica (quei fratelli sono tenuti insieme da Gesù, non si scelgono, rispondono ad una chiamata che li precede e tantomeno hanno bisogno di consumare le loro relazioni nell’affetto emotivo del solo volersi bene); cerca forme che diano forma alla comunione, dentro la tensione del vivere concreto in uno spazio e in un tempo: dai ritmi cadenzati del lavoro contadino (si pensi all’Angelus di Millet) alla frenesia di una sede universitaria. In gradi e percentuali altalenanti, normate dalla forma sociale che la comunità cristiana genera o riveste, la fede in Gesù è sempre una espressione di vita comune. E di pari passo le esperienze di vita comune anche in ambito giovanile trovano la loro fondazione e il loro riferimento più profondo in questa struttura.
La fonte e i suoi riflessi: la voce di Bonhoeffer
Dunque: un giovane cristiano esce di casa per studio o lavoro, frequenta ambienti di socializzazione, viaggia, sperimenta e scopre… e si sente rivolgere l’invito a ritornare alla fonte: a quella dell’Eucaristia e a quella fraterna dell’incontro con i volti degli altri. Sarebbero ora molte le voci da ascoltare. Una – forse – si impone sulle altre per forza e spessore. D. Bonhoeffer, sin dalla premessa dello scritto dedicato espressamente alla vita comune, descrive la ricerca di questa forma “un compito assegnato alla chiesa”[2]: ovvero non una opzione sociale o una affezione di qualcuno, ma lo stesso dover essere della Chiesa.
È proprio il teologo tedesco impiccato a Flossemburg ad approfondire la versione cristiana del vivere in comune, consegnando pagine di rara lucidità. Quel dover essere della Chiesa discende da una unica autorità, normativa e pervasiva: quella della Parola di Dio. Una presenza che nelle esperienze di vita comune non dipende solo dal numero di preghiere, dalla lunghezza delle meditazioni o delle prediche, bensì dal portato stesso della Parola, dal suo oggetto interno, che poi è soggetto: la persona di Gesù. E nel delineare la forma specifica della vita comune cristiana Bonhoeffer si avvale di questa presenza per discriminare due amori, due affezioni che non vanno superficialmente sovrapposte l’una all’altra: l’amore fraterno “umano” e quello “cristiano”. Il discrimine sta, per certi versi, sulla fonte dell’elezione alla fraternità: per un umano orizzontale (“psichico” lo definisce l’autore) l’elezione proviene da una legittima amicizia, da una affinità (che si definisce appunto elettiva) frutto di una consonanza caratteriale o di esperienza; per l’approccio cristiano qualcuno di più grande ha già compiuto l’elezione, ha già posto le basi per una amicizia che va oltre, più in profondità e si riscopre fraternità:
“è Dio stesso ad averci insegnato ad incontrarci, allo stesso modo in cui lui ci ha incontrati in Cristo […]. È da questa fonte che colui che Dio ha messo nella situazione della vita comune con altri cristiani, può apprendere che cosa significhi avere fratelli”[3].
E come esiste un vincolo di sangue oggettivo, irreformabile tra fratelli, così è altrettanto irreformabile, come dato acquisito e frutto di grazia, la presenza dell’altro che è il Signore a dare. Bonhoeffer offre così un contributo decisivo nella istruzione della sostanza stessa della vita comune, rifacendosi alla rigenerazione di ciascuno dalla Parola, ovvero dall’amore di Dio sempre più grande.
Di qui un primo, decisivo, correttivo della struttura sociale che una vita comune cristiana induce a sperimentare: le sbavature, le imprecisioni, le debolezze e le intemperanze non sono il criterio ultimo su cui istruire la vita comune, quanto piuttosto lo diventa l’elezione posta dalla grazia. L’autore affronta una ulteriore considerazione: la dialettica tra l’insieme e la solitudine, inscritta nella verità della vita di ciascuno, chiamato all’esperienza della preghiera, del pasto, della meditazione insieme e parallelamente spinto al lavoro, a quella che Bonhoeffer chiama la verifica del mondo. Non si tratta dunque di fuggire da nessuna storia (e si sa in quale storia, lugubre e faticosa Bonhoeffer scrive nel ’39!), quanto piuttosto di amare la dialettica che la vita comune suscita: tra “noi” e “io”, tra comunione e solitudine: un altro tassello attualissimo laddove anche un gruppo giovanile intenda sperimentarsi tra casa e mondo, radice e frutto, nella dinamica vera e non ideologica del vivere. Infine una terza considerazione: Bonhoeffer approfondisce la struttura della vita comune, le sue corde di fondo e le sue destinazioni centrali, articolandola in ascolto, aiuto pratico e sostegno, poiché “l’amore di Dio inizia con l’imparare ad ascoltare e analogamente l’amore per il fratello comincia con l’imparare ad ascoltarlo”, e “portare è sopportare; il fratello è un peso per il cristiano; anzi lo è particolarmente per il cristiano”[4]. Bonhoeffer arriva a toccare il tema centrale del potere e della ricollocazione istintivamente strategica di ciascuno dinanzi al prossimo. Una questione al tempo stesso psicologica e spirituale, poiché ha a che fare con la struttura stessa dell’umano e con la sua fatale esposizione alla paura che oltre che una emozione è un meccanismo di difesa pre-corticale (direbbero i fisiologi) e dunque previo ad ogni decisione e scelta consapevole. Suo vertice è la scottante questione della libertà e di quel suo sguardo sincero e limpido che ricerca il bene e non la propria sopravvivenza, e diviene il fondamento operativo e il criterio di autorizzazione della correzione fraterna. Quest’ultima è addirittura definita “un servizio di misericordia, un’estrema offerta di comunione autentica”[5]. E dunque una sfida di umanità autentica, purificata dal ministero della Parola che non sottrae, ma riconsegna al mondo.
Come non riconoscere nella descrizione del tutto spirituale di Bonhoeffer i tratti salienti di ogni vita comune, comunque modulabile?
La fonte e il nostro cammino: la provocazione di Francesco
La prassi della vita comune come orizzonte e strumento anche in pastorale giovanile trova un suo rilancio negli interventi di papa Francesco. Sullo sfondo le indicazioni – nel tono della revisione e della profezia, anche psicologica – di Evangelii gaudium. Qui Francesco evidenzia con toni chiari la crisi dell’impegno comunitario, in parallelo ad un impoverimento e ad uno stress che l’esperienza stessa della comunità cristiana subisce in ragione del clima culturale contemporaneo. E arriva ad esclamare: “non lasciamoci rubare la comunità”[6]. Declinando poi il tema del coinvolgimento giovanile nella vita ecclesiale, il papa richiede una maggiore attenzione al protagonismo dei giovani stessi, chiamati ad impastare con la loro esperienza viva, le loro domande e le loro attese la sostanza della vita ecclesiale. Di qui la messa a tema ancora una volta del protagonismo giovanile e la mutazione di orientamento che vuole fare dei giovani non solo i destinatari di una pastorale (si ricordi che target ha a che fare originariamente con bersaglio…), ma soprattutto quello che sono: fratelli giovani in cammino dentro la comunità e la storia, oltre uno sterile paternalismo. È la richiesta consegnata al Sinodo del 2018, da questo rilanciata e condensata poi in alcuni cruciali passaggi della Christus vivit. I Sinodali hanno focalizzato il problema invitando la Chiesa a nuovi investimenti, orientati al discernimento:
“il Sinodo propone con convinzione a tutte le Chiese particolari, alle congregazioni religiose, ai movimenti, alle associazioni e ad altri soggetti ecclesiali di offrire ai giovani un’esperienza di accompagnamento in vista del discernimento. Tale esperienza [...] si può qualificare come un tempo destinato alla maturazione della vita cristiana adulta. Dovrebbe prevedere un distacco prolungato dagli ambienti e dalle relazioni abituali, ed essere costruita intorno ad almeno tre cardini indispensabili: un’esperienza di vita fraterna condivisa con educatori adulti che sia essenziale, sobria e rispettosa della casa comune; una proposta apostolica forte e significativa da vivere insieme; un’offerta di spiritualità radicata nella preghiera e nella vita sacramentale”[7].
E Francesco nella Christus vivit rilancia sul tema (“non lasciatevi rubare la fraternità”) e lo concretizza:
“l’esperienza di discontinuità, di sradicamento e la caduta delle certezze di base, favorita dall’odierna cultura mediatica, provocano quella sensazione di profonda orfanezza alla quale dobbiamo rispondere creando spazi fraterni e attraenti dove si viva con un senso. Fare “casa” in definitiva è fare famiglia; è imparare a sentirsi uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici o funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana. Creare casa è permettere che la profezia prenda corpo e renda le nostre ore e i nostri giorni meno inospitali, meno indifferenti e anonimi. È creare legami che si costruiscono con gesti semplici, quotidiani e che tutti possiamo compiere. Una casa, lo sappiamo tutti molto bene, ha bisogno della collaborazione di tutti. Nessuno può essere indifferente o estraneo, perché ognuno è una pietra necessaria alla sua costruzione”[8].
Passioni e attenzioni che si rincorrono, gioco di specchi, ma soprattutto intuizioni da rendere concrete.
NOTE
[1] Paolo Arienti, prete dal 1999, è direttore della pastorale giovanile della Diocesi di Cremona dal 2011 e insegnante di teologia presso gli studi teologici di Cremona, Crema, Lodi, Vigevano e Pavia e presso l’ISSR di Crema. Mattia Cabrini, educatore e sposo, collabora attivamente con la pastorale giovanile cremonese, è membro della consulta nazionale di PG per la Lombardia, attore e ideatore di laboratori e percorsi espressivi.
[2] Dietrich Bonhoeffer, Vita comune, (orig. 1939) in http://www.teologiafermo.it/it/Dietrich_Bonhoeffer_Vita_comunepdf
[3] Ibidem, p. 8.
[4] Ibidem, rispettivamente p. 69 e p. 72.
[5] Ibidem, p. 77.
[6] Francesco, Evangelii gaudium, n. 92.
[7] Sinodo dei Vescovi, XV Assemblea ordinaria, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Documento finale, n. 161.
[8] Francesco, Christus vivit, nn. 216-217.