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    Imprenditori come musicisti, nell’esercizio dell’auctoritas


    Luca Mongelli e Simone Budini

    (NPG 2020-08-20)


    Qualche tempo fa ho avuto modo di incontrare un mio caro amico, giovane filosofo dedito all’etica politica, e ci siamo ritrovati a parlare di un concetto apparentemente pesante, antico e per certi versi anche un pochino vetusto: l’autorità. In effetti oggi l’immaginario collettivo declina questo concetto in maniera quanto mai negativa, associandolo al mondo delle istituzioni; nei confronti delle quali c’è spesso una notevole disillusione; oppure agli organi di sicurezza, quando per esempio si dice: “le autorità competenti stanno indagando sui fatti...”. Peggio ancora ciò si verifica quando si confonde direttamente autorità e autoritarismo, tanto nelle istituzioni pubbliche, parlando di regimi autoritari, quanto a contesti privati quali quelli aziendali, dove per esempio vi possono essere figure che esercitano un potere gerarchico in maniera autoritaria. Infine, all’interno di contesti familiari quando ci si riferisce alla figura paterna severa come “padre autoritario”.
    In tutte queste declinazioni tale concetto appare come quanto di più lontano, per esempio, dall’interpretazione scritturistica neotestamentaria. Si legge infatti nel Vangelo, riguardo a Gesù, versetti tipo: “Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (Mc 1, 22), quasi lasciando intendere che le autorità di riferimento del tempo, gli scribi, non avessero quell’autorità che Gesù sembrava invece possedere come qualità positiva: “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità (Mc 1,27)”.
    Questo mio caro amico filosofo mi spiegava che nei secoli, in Occidente, si è assistito ad una straordinaria inversione del senso originale di auctoritas. La locuzione, di origine romana, stava infatti ad intendere la capacità di far crescere. Dal punto di vista etimologico, autorità deriva dal verbo augeo, accrescere, cui si connettono una serie di altri lemmi come l’arcaico augustus, (grandioso, maestoso, nobile) o l’ancora attuale augurio. Colui che ha autorità è l’auctor, vale a dire l’autore, l’artefice, il promotore, l’accrescitore, colui che inventa. Il concetto in quanto tale trova fondamento nella divinità, primo autore, unico ente in grado di produrre dal proprio seno (cristianamente, Colui che è capace di creare dal nulla). Nell’antichità, come nel Medioevo, l’autorità veniva intesa come quella capacità di qualcuno di beneficare qualcun altro, benedicendone l’opera e o consentendola tramite un avallo giuridico o la fornitura degli strumenti necessari per la sua posa in essere. L’autorità era la sussidiarietà quindi!
    Con la secolarizzazione avvenuta nell’Europa moderna, il concetto di autorità è stato immanentizzato e identificato come “potere”. Da qui l’interpretazione tendenzialmente negativa che oggi ne facciamo, tanto da averci costretto a coniare il termine “autorevole” per indicare un’autorità positiva e non coercitiva.
    E in che modo questa riflessione può essere utile per me, ricercatore di management, cresciuto a pane e business school, o per tutti coloro che si occupano di economia?
    Io mi occupo di imprenditorialità sociale e di empowerment. Empowerment, ennesima parola inglese che dice ben poco. Purtroppo nel management si fa uso, e in molti casi abuso, di inglesismi, quasi a voler legittimare lo status della disciplina. Ricorrere ad un’altra lingua sembra quasi delimitare una sorta di campo specialistico con una sua dignità: così telefonare diventa “fare una call”, incontrarsi “avere un meeting”, ecc. In altri casi, tuttavia, alcuni termini anglosassoni hanno un potere di sintesi sconosciuto ai popoli di matrice mediterranea. È quasi impossibile tradurre in un italiano altrettanto esplicativo il termine empowerment, se non tramite perifrasi, spesso molto lunghe e comunque mai così puntuali. Ma andiamo per gradi: “power” è il concetto di potere, inteso come legittimità, dignità, possibilità, un po’ come nel motto “women power”. Il suffisso “ment” invece fa riferimento ad una azione, ad una componente dinamica. Empowerment quindi più che un risultato o la caratterizzazione di uno stato, deve essere letto come processo. In altre parole, empowerment significa mettere nelle condizioni qualcuno di acquisire un potere. E di che potere si tratta? Per comprenderne meglio, quando si parla di empowerment si fa anche riferimento al suo concetto opposto, ovvero a quello di “disempowerment”, definito da una nutrita letteratura di community psicology come quello stato nella quale la persona non è in grado di vivere liberamente un percorso di autodeterminazione e quindi di incapacità nell’esperire un percorso di crescita umana. Un tipico esempio di questo sono le persone che vivono stati di emarginazione e di esclusione all’interno della società. Società civile che dovrebbe offrire condizioni base a tutti, quali: l’accesso all’educazione, ambiente salubre, infrastrutture sanitarie e servizi essenziali accessibili, la possibilità di esprimere ed esercitare una volontà politica, ecc.
    Non godere di tali condizioni significa essere emarginato. Situazione, per esempio, vissuta da persone portatrici di handicap, spesse volte privati della possibilità di compiere percorsi di studi appropriati per via della loro disabilità. Situazione molto simile a quella di giovani ragazzi di comunità Rom spesso afflitti da stigma sociale. Lo stesso effetto di stigma e abbandono si ritrova altrettanto forte nelle persone che vivono o hanno vissuto esperienze carcerarie, o persone che per motivi diversi possono ritrovarsi in mancanza di fissa dimora, o nel caso di migranti e rifugiati.
    Le persone che vivono uno stato di emarginazione, e disempowerment appunto, sono tuttavia portatrici di un valore umano enorme, inestimabile, come chiunque altro d'altronde. Valore che purtroppo per ragioni di contesto sfavorevole e di fragilità personale sono rimaste bloccate, e quindi “scartate” dal mondo del lavoro e dalla società.
    La buona notizia in questo caso è che esistono diverse storie di imprenditori sociali che invece hanno trovato il modo di sbloccare questo valore, avvalendosi dello strumento del lavoro e creando modelli di business centrati sulla persona emarginata. Imprenditori capaci di vedere tramite il libero mercato, l’opportunità per perseguire lo sviluppo di queste persone. Anche in questo caso sembra di essere di fronte ad un paradosso: proprio il libero mercato che agli occhi di tutti produce iniquità, perché capace di premiare solo i migliori e i più forti a danno dei più deboli, diventa invece strumento di emancipazione dell’emarginato. Eppure proprio questa è la testimonianza di molti imprenditori sociali: Luciana Delle Donne, che con il progetto MadeInCarcere ha ridato speranza e futuro alle decine di donne che hanno lavorato nei laboratori sartoriali del carcere di Lecce, riducendo drasticamente il tasso di recidiva; Marco Ottocento, che con il progetto Valmour ha creato le condizioni per l’inserimento professionale di decine di ragazzi portatori di handicap; gli amici fondatori di Ridaje, che a Roma hanno lanciato una start-up sociale per la riqualificazione del verde urbano impegnando senza fissa dimora a cui viene offerto, oltre che ad una dimora, un percorso di professionalizzazione e reinserimento con giardinieri del verde pubblico abbandonato. La lista potrebbe continuare ancora a lungo, senza comunque riuscire ad esaurire la quantità di casi virtuosi ed esemplari. Di storie meravigliose, come quelle summenzionate, ve ne sono molte celebri e ancor più di silenziose e sconosciute ai più.
    Il punto qui però non è quello di dare maggiore diffusione a una o l’altra esperienza (cosa che peraltro sarebbe già di per sé lodevole). L’idea di questa breve riflessione è, invece, quella di riportare tale sforzo creativo esercitato da questi imprenditori al servizio del bene comune, ad un esercizio di “auctoritas”, almeno per come me la raccontava il mio amico filosofo. A guardare bene infatti, l’imprenditore sociale sembrerebbe essere un’autorità, qualcuno che è in grado di far crescere, qualcuno che permette a coloro che vivono situazioni di esclusione, di esperire un percorso di sviluppo integrale della loro persona. Come l’auctoritas dell’antica Roma abilitava all’azione pubblica il non-cittadino, l’imprenditore sblocca il valore potenziale dell’emarginato. La capacità creativa del primo corrisponde alla creatività del secondo. Entrambi hanno avanti a sé l’obiettivo generativo di tirar fuori dalla persona che hanno di fronte il potenziale inespresso di questa, affinché possa scoprire il proprio valore e contribuire al bene comune.
    L’autorità coniuga persona e bene comune nello sviluppo umano integrale, l’imprenditore combina con creatività missione sociale e logica di mercato.
    Un po’ come un buon musicista che riesce a combinare armonie apparentemente dissonanti valorizzando quelle poche note comuni, dentro la stessa composizione. Proprio quella dissonanza capace di creare il potenziale per composizioni emozionanti e pregne di enfasi. Da appassionato di musica quale sono, mi viene in mente per esempio la “Patetica” di Beethoven (Sonata per Pianoforte n°8). Ecco: imprenditori come musicisti, nell’esercizio dell’auctoritas. Perché essere un’autorità è un’impresa e la vera impresa è far crescere… l’altro.


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