Stefano Zamagni
(NPG 2020-08-11)
I limiti seri dell’attuale cultura del lavoro – del suo senso e della sua mancanza – sono oggi universalmente riconosciuti, anche se non c’è convergenza di vedute sulle vie da percorrere per giungere al loro superamento. Su un fronte si collocano gli apologeti, i tecno-ottimisti che fondano la loro speranza circa gli effetti della rivoluzione digitale sui livelli occupazionali sulla celebre profezia di J.M. Keynes del 1930, secondo cui la disoccupazione tecnologica sarebbe un fenomeno transitorio, destinato a scomparire gradualmente quando l’economia si fosse aggiustata alla nuova traiettoria. Sul fronte opposto, si posizionano gli apocalittici, i tecno-pessimisti che fanno propria la congettura del noto storico del pensiero economico Robert Heilbroner che nel 1965 ebbe a scrivere: “Man mano che le macchine continuano ad invadere la società, duplicando sempre più il numero dei compiti sociali, è il lavoro umano stesso che viene reso gradualmente ridondante”.
La società di consulenza McKinsey ha svolto, di recente, una simulazione per congetturare gli effetti che avrà al 2030 l’adozione delle cinque tipologie di intelligenza artificiale (visione artificiale, linguaggio, assistenza virtuale, automazione robotica, macchine learning). Nel 2030, il 70% delle aziende globali avrà adottato almeno un tipo di tecnologia IA, con le conseguenze che è agevole immaginare. Eppure, troppo poco si sta facendo per avviare quel processo di transizione in grado di consentire ai giovani di immettersi sulla nuova traiettoria tecnologica. Mi piace ricordare che la polemica contro la tecnologia è presente già nell’antichità. Svetonio racconta che sotto Vespasiano, un ingegnere aveva inventato una macchina per sollevare pesi nella costruzione di edifici. L’imperatore lo premiò sì, ma gli impedì di fabbricare quella macchina per non togliere lavoro agli operai, alla “plebicula”. Se si arriva poi all’Ottocento inglese, non si possono non ricordare le proteste e le violente reazioni contro l’ingresso delle macchine nelle fabbriche di Butler, Bulwer Lytton, William Morris, Ludd e altri ancora.
Ebbene, se è vero che la tecnologia da sempre ha distrutto e creato lavoro, l’esito non è una società senza lavoro, ma una trasformazione radicale dello stesso. Per dirla con una battuta, con Gutenberg sono sì scomparsi gli amanuensi, ma sono comparsi i librai! Quel che è comunque certo è che è mutato il meccanismo di sostituzione: quello che ha funzionato, più o meno bene, durante le prime due rivoluzioni industriali, oggi con l’IA e la robotica non funziona più. Allora le macchine sostituivano il lavoro fisico dell’uomo – dapprima in agricoltura e poi nell’industria – spingendo verso mestieri di più alto valore cognitivo, ora la nuova traiettoria tecnologica copre l’intero spettro cognitivo. In sostanza, se è vero che sarebbe irresponsabile trascurare le conseguenze dell’effetto spiazzamento di cui si è appena detto, ancor più vero è che, se lo si volesse, potrebbero essere prese misure che spingono nella direzione di un aumento sufficiente della domanda di lavoro. Non si dimentichi, infatti, che in un’economia avanzata, la disoccupazione non è mai colpa del progresso tecnico, ma della obsolescenza dell’assetto istituzionale e della inadeguatezza delle politiche messe in atto. Kuznetz, sulla scia di Schumpeter, aveva avvertito che ogni innovazione tecnologica genera effetti positivi e negativi, e perciò conflitto. E dunque che sarebbe stato necessario intervenire con l’innovazione sociale. È su questo fronte che si misura il senso di responsabilità dei vari attori sociali. Le altre due posizioni estreme, per quanto all’apparenza opposte, portano alla medesima conclusione: nulla si può fare, sia pure per ragioni diverse. E invece molto si può fare. Secondo l’ufficio di statistica del Dipartimento del Lavoro USA, entro il 2030 nasceranno almeno una trentina di professioni, in gran parte high-tech, che oggi non esistono. Si pensi alla figura del manager della sicurezza digitale, a quella dello psicologo per i cobot (collaborative robot) che avranno un’intelligenza artificiale sempre più evoluta e lavoreranno fianco a fianco con gli esseri umani. Si pensi anche al contadino high-tech che diventerà una sorta di “ingegnere verde”, e alla figura dell’esperto di big data per l’elaborazione dei dati che arrivano con la Rete, e ad altri ancora. Si pensi anche alle potenzialità dello smart working, cosa ben diversa dal telelavoro (home working).
Una condizione previa per porre in atto una strategia volta alla piena occupazione è quella che concerne la presa d’atto che il lavoro, prima ancora che un diritto umano, è un bisogno insopprimibile della persona. È il bisogno – come già Aristotele aveva chiarito – che ogni individuo avverte di trasformare la realtà di cui è parte e quindi di edificare se stesso. (L’eudaimonia aristotelica è legata a filo doppio al lavoro come opera). Riconoscere che quello del lavoro è un bisogno fondamentale è affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò per l’ovvia ragione che, come la storia insegna, i diritti possono essere sospesi o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no. È tale bisogno a dare fondamento, non solo giuridico ma anche etico, al diritto al lavoro, che diversamente risulterebbe un diritto infondato. Notevole la conseguenza che discende dall’accettazione di tale prospettiva di discorso. In quanto attività trasformativa, il lavoro interviene sia sulla persona sia sulla società, sia sul soggetto sia sul suo oggetto. Sono questi due esiti congiunti a definire la cifra morale del lavoro. Ne deriva che il processo attraverso il quale vengono prodotti oggetti a valenza morale, non è qualcosa di assiologicamente neutrale, come purtroppo si continua a credere. In altro modo, il luogo di lavoro non è semplicemente il luogo in cui certi input vengono trasformati in certi output, ma è anche il luogo in cui si forma e si trasforma il carattere del lavoratore. Come scrisse John Ruskin, “la massima ricompensa del lavoro non è quella che ci permette di guadagnare, ma quella che ci permette di diventare”.
La portata della grande sfida che ci sta di fronte è allora come realizzare le condizioni per muovere passi verso la libertà del lavoro, intesa come possibilità concreta di consentire alla persona che lavora di realizzare, oltre alla dimensione acquisitiva (quella che assicura il necessario potere d’acquisto) anche quella espressiva. Le nostre democrazie liberali, mentre sono riuscite, più o meno bene, a realizzare le condizioni per la libertà nel lavoro – e ciò grazie anche alle lotte del movimento operaio e al ruolo dei sindacati – paiono impotenti quando devono muovere passi verso la libertà del lavoro. Perché pare così difficile, oggi, andare in questa direzione? È forse la non conoscenza dei termini della questione oppure la non disponibilità degli strumenti di intervento a impedire la ricerca di soluzioni? Non lo credo proprio. Ritengo piuttosto che il fattore principale vada rintracciato in una organizzazione sociale incapace di articolarsi nel modo più adatto a valorizzare le risorse umane disponibili. È un fatto che le nuove tecnologie liberano tempo sociale dal processo produttivo, un tempo che l’attuale assetto istituzionale trasforma in disoccupazione oppure in forme varie di precarietà. L’aumento, a livello di sistema, della disponibilità di tempo – un tempo utilizzabile per una pluralità di usi diversi – continua ad essere utilizzato per la produzione di cose o servizi di cui potremmo tranquillamente fare a meno e che invece siamo “costretti” a consumare, mentre non riusciamo a consumare o ad avere accesso ad altri bene perché non vi è chi li produce. Il risultato è che troppi sforzi ideativi vengono indirizzati su progetti tesi a creare modeste occasioni effimere o transitorie di lavoro, anziché adoperarsi per riprogettare la vita di una società post-industriale fortunatamente capace di lasciare alle nuove macchine le mansioni ripetitive e dunque capace di utilizzare il tempo così liberato per iniziative che dilatino gli spazi di libertà dei cittadini.
Il punto che merita attenzione è che occorre distinguere tra impiego, cioè posto di lavoro, e attività lavorativa. In ciascuna fase storica dello sviluppo delle economie di mercato è la società stessa, con le sue istituzioni, a fissare i confini tra la sfera degli impieghi (il lavoro salariato) e la sfera delle attività lavorative. Ebbene, tale confine è, oggi, sostanzialmente il medesimo di quello in essere durante la lunga fase della società fordista. È questa la vera rigidità che occorre superare se si vuole avere ragione del problema in questione. Pensare di dare un lavoro a tutti sotto forma di impiego sarebbe pura utopia (o peggio, pericolosa menzogna). Infatti, è bensì vero che politiche di riduzione del costo del lavoro, unitamente a politiche di sostegno alla domanda aggregata potrebbero accrescere, in alcuni settori, la produzione più rapidamente dell'aumento della produttività e contribuire così alla riduzione della disoccupazione. Ma a quale prezzo? Quello di dare vita a eticamente inaccettabili e politicamente pericolosi trade-offs: per redistribuire lavoro a tutti si finirebbe con l'accettare come qualcosa di naturale la categoria dei working poors, oppure come qualcosa di inevitabile il modello neo-consumista e altro ancora. Accade così che la società post-industriale registri, al tempo stesso, un problema di insufficienza di posti di lavoro, cioè di disoccupazione, e un problema di eccesso di domanda di attività lavorative, domanda che non trova soddisfazione.
Quel che va fatto allora è di favorire, con politiche intelligenti e coraggiose, il trasferimento del lavoro "liberato" dal settore capitalistico dell'economia al settore sociale della stessa. ll quale è connotato dal fatto che la categoria di beni che esso produce, e per i quali possiede un rilevante vantaggio comparato, comprende beni comuni (ossia commons, come difesa del territorio, ambiente, conoscenza), beni relazionali (servizi alla persona, quelli della care economy), beni meritori, beni pubblici locali, industrie culturali creative della cosiddetta economia arancione. Si pensi a soggetti come quelli che appartengono al variegato mondo della cooperazione, alle imprese sociali, alle società benefit, a enti di Terzo Settore come le cooperative sociali e le cooperative di comunità — soggetti questi che finora sono stati impediti, di fatto (soprattutto a livello normativo), di sprigionare tutto il loro potenziale di sviluppo. Il prodotto dell’economia sociale è connotato da una duplice caratteristica. La prima è che la categoria di bene che il settore sociale dell’economia produce comprende tutti quei beni che possono essere fruiti in modo ottimale soltanto assieme da coloro i quali ne sono, ad un tempo, gli stessi produttori e consumatori. La seconda caratteristica è che in tale settore le attività svolte sono ad alta intensità di lavoro, e non esposte alla regola che la globalizzazione ha finito con l’imporre: il jobless growth che ha invalidato la celebre legge di Okun, secondo cui l’aumento del prodotto sempre si sarebbe accompagnato – secondo un certo rapporto - alla crescita dell’occupazione. In sostanza, si tratta di muovere passi decisi, sicuramente fattibili, verso l'attuazione pratica della biodiversità economica — un principio che la più recente e accreditata teoria economica ha indicato come condizione sine qua non per incamminarsi su sentieri di sviluppo umano integrale. Per vivere bene, c’è bisogno di creare valore diverso da quello materiale – che resta comunque necessario. Mentre la crescita è un progetto accumulativo, lo sviluppo è un progetto trasformazionale.
Un punto deve, in ogni caso, essere tenuto fermo: il lavoro si crea; non si redistribuisce quello che già c'è. Occorre andare oltre l'obsoleta concezione "petrolifera" del lavoro, secondo cui questo è pensato come una sorta di giacimento da cui estrarre posti di lavoro. È il fare impresa la via maestra per creare lavoro. Ma l'impresa che crea lavoro non è solamente quella di tipo capitalistico ma anche l’impresa sociale, l’impresa cooperativa, la società benefit, ecc. Oggi, questo è concretamente possibile a condizione che lo si voglia e che ci si liberi da anchilosanti forme di pigrizia intellettuale e di irresponsabilità politica. Come sempre più spesso si sente affermare, alla base del nuovo modello di sviluppo c’è una specifica domanda di qualità della vita. Ma questa va ben oltre una domanda di beni “ben fatti”. È piuttosto una domanda di attenzione, di cura, di partecipazione, di coinvolgimento, cioè una domanda di una più alta qualità delle relazioni umane.
Mi piace chiudere con le parole di Kahlil Gibran (1883-1931) che nel suo Profeta ha dedicato al tema del lavoro parole tra le più belle della letteratura mondiale: “E io vi dico che in verità la vita è tenebra fuorché quando è slancio. E ogni slancio è cieco fuorché quando è sapere. E ogni sapere è vano fuorché quando è lavoro. E ogni lavoro è vuoto fuorché quando è amore. E quando lavorate con amore voi stabilite un vincolo con voi stessi, con gli altri e con Dio. Il lavoro è amore reso visibile”.