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    Dodici anni di PG /2. Il presente. Camminare con i giovani


    Intervista a d. Fabio Attard, consigliere generale uscente della PG Salesiana

    A cura di Renato Cursi - Giancarlo De Nicolò - Jesús Rojano *

    (NPG 2020-02-56)



    Il tempo di grazia del Sinodo

    5. Nella prima intervista che Le avevamo fatto all'inizio del Suo servizio (2008), tra i compiti di animazione che indicava come "i più importanti e urgenti", Lei segnalava: il riacquistare un buon senso di "spirito di famiglia" e la capacità e serietà del "valutare". Dunque la comunità, la chiesa come contesto vitale nella sua vita di interrelazione e comunione, e il "discernimento"... temi molto sinodali, a quanto pare.
    Ecco, come ha vissuto questo tempo del Sinodo dei/sui giovani? Un tempo di grazia, direbbe certamente un Salesiano... ma concretamente, dove ha visto la novità proposta/offerta dalla Chiesa, e in questo contesto socio-culturale dove la presenza dei giovani, pur invocata, è sempre "paternalisticamente" disattesa?
    E soprattutto, nello sguardo "mondiale" Suo e del Sinodo... non pensa che ancora una volta il treno (purtroppo) è stato perso?

    Rivedendo quella prima intervista (e a dire il vero anche le altre) ho come la sensazione di aver detto le cose giuste, ma senza la chiarezza e profondità che potrei avere adesso. D'altra parte è una cosa ovvia: all'inizio si ha una percezione delle cose che diventa sempre più nitida e consapevole, si intravedono le sfide più per intuizione che per approfondimento. Diciamo che anche per la lettura della situazione si ha bisogno di correggere il tiro cammin facendo.
    Dopo questi anni, mi ci ritrovo nelle cose espresse all’inizio del mio ministero. L’acquisto del senso di “spirito di famiglia” per noi, in definitiva, si traduce in quello che la nostra esperienza ci sollecita a favorire: una comunità educativo-pastorale (CEP). Lo “spirito di famiglia” non è un sentimentalismo che appiattisce o relativizza i problemi, o un palliativo che fa dimenticare le sfide. Lo “spirito di famiglia” è quel sentire e quella voglia che tutti insieme formiamo una famiglia per il bene dei giovani: tutti insieme. E qui vedo come il Sinodo sui giovani offra una conferma ulteriore al cammino della Congregazione.
    Il secondo tema che avevo indicato era la “capacità e la serietà del valutare”. E anche qui, in questi anni passati una delle aree su cui abbiamo maggiormente insistito e a cui abbiamo dedicato tante energie è quella della progettazione e della programmazione. Ma non si progetta e non si programma se prima non facciamo una lettura della situazione, una valutazione del territorio, dei giovani, delle forze che dobbiamo mettere sul campo.
    L’insistenza sul discernimento che Papa Francesco ci sta comunicando è molto in linea con quanto siamo chiamati a fare in ogni PEPS: dalla lettura della situazione identificare e interpretare le sfide, per poi passare a precise scelte in ordine alla formazione della CEP e alla proposta pastorale che traduca operativamente le famose quattro dimensioni che conosciamo.

    Come ho vissuto questo tempo del Sinodo? Con molta gioia e soddisfazione. Anzitutto (e anche solo) per il solo fatto che il tema “giovani” è stato posto al centro dell’attenzione pastorale della Chiesa. Questo fatto che segna una assoluta novità nel cammino sinodale, novità che desidero qui approfondire sotto vari aspetti.
    Sicuramente, anche frutto dell’esperienza del precedente Sinodo sulla famiglia, il metodo adottato è stato molto opportuno. La novità di introdurre il Documento Preparatorio ha dato il tono al processo: la Chiesa si mette in ascolto. A partire e forse a causa di questa scelta, il coinvolgimento è stato molto ampio, tra questionario on-line, contributi delle Conferenze Episcopali, un Congresso Internazionale, una Riunione Pre-Sinodale con 15 mila giovani in collegamento diretto on-line.
    Ma c'è un altro livello che alla lunga avrà i suoi effetti positivi. L’ascolto e il coinvolgimento hanno lanciato un segnale alla Chiesa, direi una sfida. Il Sinodo non è chiamato a parlare solo dei giovani e sui giovani, ma anche, e specialmente della Chiesa e sulla Chiesa. Giustamente la battuta su un certo “paternalismo” non è solo una battuta. È un pericolo. Credo che il Sinodo, anche come è stato vissuto, ha mandato un segnale, piccolo ma inequivocabile e direi irrevocabile: che i giovani non vanno trattati come una categoria, ma come soggetti.
    In questo senso credo che la Chiesa, ma anche noi come Congregazione, abbiamo da fare un bell'esame di coscienza sul come ci poniamo di fronte ai giovani. Essi ci vogliono fratelli e amici, pellegrini e accompagnatori. Non ci chiedono di essere sempre pronti a dare risposte. Alcuni di loro ci chiedono perfino e semplicemente di stare zitti, perché le cose che diciamo a loro non interessano perché hanno perso interesse verso la Chiesa o la religione o non l'hanno mai avuto.
    Parlando per loro o i loro amici, questo i giovani l'hanno detto al Sinodo, e non possiamo irenicamente far finta che non sia così.
    Attraverso l’esperienza viva del Sinodo e nei tre documenti che ne sono venuti fuori – Instrumentum Laboris, Documento Finale e Christus Vivit – ci rendiamo conto che i giovani abitano un pianeta che per molti di noi è ancora sconosciuto: il non riconoscere questo, e dunque il cambio di epoca, con una lettura anche di fede, diventa un problema serio!
    Tutta la parte 1 dell'Instrumentum Laboris è una sintesi di questo panorama inedito, che ci aiuta a
    leggere bene le sfide: il tema della post-modernità e della globalizzazione che hanno cambiato la comprensione di tutto ciò che è istituzionale, inclusa la religiosità.

    I cambiamenti richiesti

    Al Sinodo i giovani chiedono alla Chiesa un cambio di atteggiamento. Davanti alle sfide del mondo di oggi, compresi i giovani, essi chiedono una Chiesa umile, povera e per questo profetica. Basta con i paternalismi che solo rafforzano la lontananza e la insignificanza della Chiesa. Basta con i discorsi di potere o atteggiamenti trionfalistici. Per i giovani tutto questo non dice niente, non trasmette nessuna luce di vangelo (di cui potrebbero aver bisogno).
    Proprio all'interno di questo nuovo movimento abbiamo visto esperienze dove i giovani si sono messi in cammino nella Chiesa, che vedono come loro casa, che sentono come loro famiglia, dove sognano di trovare adulti significativi. Sono segnali utili come punti di partenza, segnali reali anche in questo mondo occidentale, quelli di un coinvolgimento sano e serio dei giovani. Essi sfatano il mito dell'irrilevanza della Chiesa tout court o che la Chiesa abbia (nuovamente) perso il treno. No, io non credo che abbiamo perso il treno. Sicuramente dobbiamo entrare in quella fase di conversione che giustamente il Documento Finale chiama “conversione spirituale, pastorale e missionaria”:

    Papa Francesco ci ricorda spesso che ciò non è possibile senza un serio cammino di conversione. Siamo consapevoli che non si tratta soltanto di dare origine a nuove attività e non vogliamo scrivere «piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti» (Francesco, Evangelii gaudium, n. 96). Sappiamo che per essere credibili dobbiamo vivere una riforma della Chiesa, che implica purificazione del cuore e cambiamenti di stile (n.118).

    Faccio ora un breve accenno all’ultima parte della domanda sullo sguardo mondiale. Parallelamente al Sinodo io guardo anche al cammino della nostra Congregazione. Dal processo di Ripensamento in poi, che abbiamo iniziato dopo il CG 26 (2008), constato (ripeto quanto già detto) un lento ma costante impegno nella formazione dei giovani animatori. Incontro esperienze di crescita di giovani che entrano a far parte non solo dei cammini pastorali, ma anche dei cammini di animatori pastorali. Sono segni graduali, vivi, che però occorre riconoscere, accompagnare, nutrire.
    In preparazione al CG 28 (2020) è stato chiesto alle ispettorie di dedicare tempo per l’ascolto dei giovani all’interno dei Capitoli Ispettoriali. Dalla maggioranza di esse il feedback ricevuto è stato molto positivo. Alcune ispettorie hanno anche deciso che una volta all’anno ci sia l’assemblea dei Salesiani insieme ai giovani, perché questa positiva esperienza non rimanga solo uno sbiadito ricordo.
    Aumentano i campiscuola, che hanno come finalità la formazione spirituale e quella carismatica per giovani impegnati nella pastorale giovanile delle varie presenze.
    Vedo tutto questo in parte in territori (come l’Europa occidentale) che tutti davano per "morta" o pastoralmente moribonda! I segni di vita ci sono. Spetta a noi non lasciarci trascinare da un pessimismo inutile, sterile e distruttivo. Ritorna ancora una volta l'esigenza di una conversione, nostra in primis, espressa bene con l'invito "sinodale" che segue: “dobbiamo vivere una riforma della Chiesa, che implica purificazione del cuore e cambiamenti di stile” (Documento Finale n. 118).

    Camminare insieme con i giovani

    6. I vari documenti del Sinodo offrono nell’insieme anche la visione di come – nell’ascolto della realtà giovanile – la Chiesa deve imparare ad avere fiducia e a camminare insieme con loro. Lei vede in tali documenti i segni (o ancora i timori) del reciproco avvicinamento?

    Ho la netta sensazione che il metodo degli ultimi sinodi non si limiti soltanto ad una metodologia a breve termine. Vedo e sento che la metodologia dell’ascolto è frutto, ma anche a sua volta causa, di un atteggiamento pastorale più legato alla realtà, più rispettoso dei cammini delle persone, più attento a cogliere i segni positivi a far sì che possano essere accompagnati a crescere.
    Allora, una mia prima risposta è che i documenti - prima che ci dicano cosa dobbiamo fare - ci stanno dicendo come dobbiamo porci in relazione ai giovani.
    Credo, inoltre, che tale segno è anche frutto di quello che ci stanno chiedendo i giovani. In tutti i momenti del Sinodo, e qui aggiungo anche in tutti i momenti di preparazione al CG 28, abbiamo sentito lo stesso grido dei giovani: “Per favore, ascoltateci!”.
    Ma vorrei anche aggiungere che questo Sinodo è un tirocinio per la Chiesa, in relazione ai giovani. È molto chiaro che stiamo passando da un modello verticale a un modello comunionale. Lo spirito della Lumen Gentium si sta un po’ alla volta facendo strada. Questo implica che se da una parte vediamo segni di un ascolto molto fecondo, dall’altra non dobbiamo dimenticare che la strada è lunga. È facile vedere dove dobbiamo arrivare, impegnativo è arrivarci.
    Ecco allora un'ulteriore riflessione: si, c’è ancora molto timore. Lo riconosco non tanto perché questo stato di fatto lo considero come un problema, ma piuttosto perché lo vedo come una sfida. Il cambio da un modello di Chiesa "padrona" ad un'esperienza di Chiesa "madre e sorella" implica quella conversione che non è facile, ma non è neanche più procrastinabile. Rimane il fatto che il prezzo di tale timore ha come prima conseguenza quella di lasciare orfani i nostri giovani: orfani di quella paternità e maternità alla quale hanno diritto e che stanno invocando.

    Questo fatto del timore bisogna analizzarlo e capirlo bene. Non poche volte la paura e il timore che ci possono essere da parte di gente impegnata nella pastorale non sono frutto di cattiva volontà, di volontà di esclusione o per pigrizia. Molte volte ci sentiamo progressivamente estranei a un mondo che sta andando avanti con una velocità rispetto a cui non riusciamo più a tenere il passo.
    Molti di noi ci sentiamo “fuori gioco”, in tutti i sensi. Non capiamo il linguaggio dei giovani. Non entriamo in sintonia con il loro immaginario. Ci è estraneo il loro modo di confrontarsi con e reagire alla vita. Ecco, tutto questo su molti di noi ha l’effetto di estraneamento o ritiro volontario.

    Eppure, quelli tra noi che accettiamo di essere chi siamo, con i nostri limiti e fragilità, "ignoranti" e "analfabeti", riconosciamo pure che dentro il nostro cuore è viva ancora quella grande voglia di stare con loro, per loro. Solo allora ci rendiamo conto che ciò che i giovani in fin dei conti aspettano è che non manchi loro il cuore del buon pastore.
    Una mia gioiosa annotazione personale: che bello vedere salesiani anziani, che con il loro sorriso, in modo empatico e paterno, stanno fisicamente in mezzo ai giovani, in cortile, e magari al mattino alla porta dell'istituto o dell'oratorio, e li salutano, alcuni anche per nome, e chiedono come stanno, se è tutto ok... Sanno così stabilire una relazione, anche spirituale, umanamente sana. Ecco, è questo che noi perdiamo e facciamo perdere ai giovani, se il timore e la paura ci paralizzano.
    Certo, i timori e le paure ci sono, ma c’è anche un profondo e nascosto desiderio di uscirne. Alla fine ci troviamo in quella situazione che è ben descritta in una leggenda degli Indiani d’America. Un anziano cherokee racconta ai bimbi del villaggio come nel suo cuore alberghino due lupi: uno nero e uno bianco che combattono una lotta incessante. Il lupo bianco è un lupo buono, mentre quello nero è cattivo. Alla domanda di uno dei piccoli quale lupo vincerà, l’anziano risponde: “Quello che nutro di più”.
    Ecco il compito: nutrire il lupo bianco con la speranza che ci viene dal vangelo!

    Cammini comparati

    7. Può segnalare qualche “affinità” del cammino che la Congregazione ha fatto in PG e l’esperienza sinodale? E in cosa invece il Sinodo rompe gli schemi e spinge in direzioni impensate?

    Bella domanda! Quanto alle affinità, credo che possiamo elencare vari richiami che il Sinodo ci ha dato e che assumiamo come invito a rafforzare le nostre scelte di fondo.
    Senza dubbio la prima affinità è l'atteggiamento che ci incoraggia ad entrare in sintonia con il tempo e la storia. La Parte I dell'Instrumentum Laboris è una sintesi molto ben riuscita di quell’esercizio di ascolto che abbiamo già commentato. E qui vorrei proporre una breve annotazione su quanto per noi e per la Chiesa sta diventando sempre più chiaro. Non possiamo essere pastori senza un primo e irrinunciabile impegno a conoscere il "gregge". Quando Papa Francesco parla dell’odore delle pecore, sta indicando un’urgenza che all’interno del nostro progetto pastorale si pone come condizione primaria, irrinunciabile. Noi non abbiamo un prodotto da vendere ma un cammino da fare, una buona notizia da testimoniare, una vita da vivere. Noi incontriamo giovani con la loro storia, le loro fatiche, gioie e dolori. Conoscerli è evangelicamente e umanamente obbligatorio.
    Una seconda affinità è costituita dalla scelta di alcune "parole" che innervano tutta la pastorale giovanile: accoglienza, ascolto, accompagnamento/discernimento, annuncio, missionarietà. In tutti i tre documenti del Sinodo si sente come queste "parole-stimoli" siano presenti, non tanto come tappe consequenziali, ma come scelte di fondo che danno colore e unità alla nostra azione pastorale. Nei vari incontri che viviamo come Dicastero, questa eredità del Sinodo ci fa ritornare al nostro carisma dove l’accoglienza e l’ascolto dei giovani - quando fatte in maniera seria e consapevole - conducono all’esperienza dell’accompagnamento. Qui abbiamo certamente una bella sfida.
    Da qui parte quella fase critica del discernimento che impegna i giovani affinché assumano il loro progetto di vita, e a non aver paura di sentirsi ‘mandati’, apostoli, missionari.
    Questa affinità tra Chiesa e Congregazione è al centro di una pastorale giovanile rinnovata. È una affinità che ovviamente non basta solo commentare. Dal riconoscimento dobbiamo passare a processi di rinnovamento, di formazione d’insieme, di conversione integrale.
    Un'altra affinità ha a che fare con il tema che la Parte III del Documento Finale ha tracciato in maniera magistrale: la sfida della sinodalità e quella della formazione. L’una richiama necessariamente l’altra. Camminare insieme non è un pio desiderio. Camminare insieme necessita di un profondo cambio di paradigma che non si limita al “modo di fare le cose”, ma è legato alla scoperta di “chi siamo chiamati ad essere”. Giustamente i due inviti - sinodalità e formazione - sono presentati insieme. Abbiamo bisogno di percorsi di formazione che all’interno della loro stessa anima già facciano "presagire" e mettano in atto la sinodalità: formarsi insieme laici e consacrati, adulti e giovani, famiglie e operatori pastorali.
    Se fin dall'inizio la comunità che educa con il cuore del buon pastore (comunità educativo-pastorale, appunto) vive un’esperienza di comunione, di carità condivisa, tutta la nostra pastorale parte con il piede giusto. Il vangelo prima che con la bocca, si annuncia con la vita. La vita tra noi, la vita radicata in persona Christi, diventa una vita che testimonia.
    Ma su questo punto credo che tornerò ancora!

    E in cosa invece il Sinodo rompe gli schemi e spinge in direzioni impensate? Onestamente non vedo rottura di schemi, tantomeno direzioni impensate. Se c’è una novità, la vedo non tanto in proposte nuove, ma piuttosto in quell’atteggiamento che gentilmente emerge: una Chiesa che – mentre invita i giovani a lasciarsi accompagnare - anche lei stessa si riconosce bisognosa di accompagnamento. La Chiesa, direi, viene fuori "ridimensionata", "toccata" dall’ascolto che intrattiene con i giovani. Un ascolto che la fa sentire come serva dei giovani, lei stessa bisognosa di conversione.
    Parecchi vescovi hanno riconosciuto che l’atmosfera nella sala del Sinodo ha subìto il fascino e l’energia dei giovani presenti. L'auspicio è tale esperienza non rimanga un bel ricordo, ma diventi un paradigma.

    Dall'esperienza del Sinodo, una PG missionaria

    8. Quale tipo di PG viene fuori dall’esperienza del Sinodo? Quali i temi che Le sembrano più “promettenti” in vista di una PG organica e missionaria?

    La pastorale giovanile che emerge dal Sinodo è una pastorale giovanile rafforzata in alcuni punti chiave. Sono dei punti nevralgici che in vari modi sono stati richiamati. Brevemente elenco alcuni che vanno elaborati perché contengono una forza rigeneratrice.
    - Innanzitutto, il discernimento come metodo, come stile. Sono convinto che l’insistenza di Papa Francesco sia provvidenziale. È un richiamo che nel nostro caso ci fa ritornare alle nostre origini. Il nostro carisma, la storia del nostro Padre e Maestro Don Bosco è un’esperienza tessuta all’interno di questo processo di discernimento. A livello personale la sua storia è una continua ricerca in ascolto della volontà di Dio. La vita dei giovani, la loro storia e il loro grido Don Bosco li interpretava nel crogiuolo della sua esperienza di Dio. Da questa fornace di un’anima segnata dall’amore di Dio e dall’amore del prossimo viene fuori un progetto, un’esperienza carismatica.
    La nostra chiamata va vissuta con la stessa dinamica. Oggi spetta a noi percorrere questo cammino di discernimento sia a livello personale che comunitario. Non possiamo mirare ad una pastorale giovanile che non sia segnata profondamente da un cuore che ascolta, che interpreta e che sceglie.
    - Un secondo elemento su cui occorre riflettere in maniera profonda è quello di un’accoglienza umile, intelligente e rispettosa. I giovani in effetti non sono dei clienti! L’accoglienza che noi offriamo non può essere clinica. L’accoglienza è ben richiamata nella lettera agli Ebrei, che ricorda che ospitare il fratello è ospitare Dio: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13,2).
    Nella nostra tradizione salesiana la relazione frutto dell’accoglienza incondizionata dei giovani è un perno che regge tutto un cammino umanamente ricco e promettente. L’umiltà è necessaria per captare il senso profondo dell’incontro e la dignità dell’altro che va servito. "Servi dei giovani e non padroni", ripetiamo spesso. E così è. Un’umiltà che sa leggere dentro – intus-legere – il cuore dei giovani. Un’umiltà che mette a loro disposizione tutto ciò che siamo, tutto quello che abbiamo. Senza questi due ingredienti, l’umiltà e l’intelligenza, la nostra accoglienza non sarà mai rispettosa della persona, della sua fatica, del suo potenziale. Accogliere con rispetto non è frutto di un pio desiderio, ma il risultato di un atteggiamento umile, capace di ascoltare l’altro incontrandolo dove è.
    - Un terzo elemento lo vedo in quell’ascolto che favorisce la crescita integrale della persona. L’accoglienza conduce all’ascolto. In una cultura anonima, la scelta dell’ascolto riflette il desiderio di dare alle persone il giusto spazio dove possono raccontarsi. Ogni processo educativo-pastorale offre un spazio maturo dell’ascolto che rafforza l’accoglienza. Quante volte cogliamo nei giovani (nelle loro parole, nei loro gesti, nei loro atteggiamenti) il bisogno di essere ascoltati. Una richiesta non di comunicare "cose", ma di essere riconosciuti, incontrati, accettati. Per noi il cortile - spazio fisico e paradigmatico - rimane un'icona che coglie il valore profondo di questa scelta pastorale.
    - Un quarto elemento, intimamente legato ai precedenti, è quello della cultura dell’accompagnamento capace di suscitare identità e protagonismo. Mi riferisco qui all’accompagnamento in senso molto largo, quello dell’ambiente, del gruppo e personale. Su questo tema il Sinodo nel Documento Finale si è espresso in maniera chiara e insistente.
    Su ciò bisogna molto lavorare. Ed esprimo un criterio assolutamente discriminatorio: Non si può accompagnare gli altri se prima uno non si lascia accompagnare. In questa nostra cultura e società ciò diventa sempre più vero. I nostri giovani si sentono soli, e mancando loro dei punti sociali di appoggio, si sentono chiusi in spazi vuoti di senso e di orientamento. Ma dentro questo vuoto si sentono bombardati da una miriade di proposte, una quantità di messaggi abbaglianti e suadenti che li disorienta ancora di più.
    Ma è un pericolo in cui incorriamo anche noi adulti. Solo nella misura in cui la nostra vita diventi messaggio, riusciamo a comunicare esperienze e processi nei quali gradualmente i nostri giovani trovano la loro identità, il loro progetto di vita e si rendono capaci di un sano protagonismo.
    - Un quinto elemento è la sinodalità nella formazione e nella proposta pastorale – consacrati, giovani e laici fondata su progetti. L’insistenza del Documento Finale sulla sinodalità e sulla formazione, in quanto non può esistere una senza l’altra, ci può aiutare a investire sui processi di formazione a tutti i livelli. Solo se ci formiamo insieme metteremo solide basi per una proposta pastorale convinta e convincente.
    La ragione è bene espressa al n. 157: “I cambiamenti in atto si influenzano reciprocamente e non possono essere affrontati con uno sguardo selettivo”. Siamo chiamati noi in primis a capire la “visione antropologica della persona come totalità… (apprendendo) dall’esperienza rileggendola alla luce della Parola.” Si tratta quindi di “un nuovo approccio formativo, che punti all’integrazione delle prospettive, renda capaci di cogliere l’intreccio dei problemi e sappia unificare le diverse dimensioni della persona”.
    - E infine constato l'evidenza di una dimensione missionaria sempre più chiara ed esplicita, e "ricercata" da parte dei giovani. Che - specialmente coloro che hanno fatto un serio cammino all’interno della nostre proposte pastorali – non hanno paura a chiedere "di più".
    Papa Francesco nella Christus vivit ha ribadito in maniera forte (ChV nn.175, 239) questa chiamata alla missionarietà. Alcune piste pastorali, come per esempio il volontariato missionario, possono realmente essere segni di vita e di futuro che dobbiamo saper perseguire in maniera attenta.

    Un processo di sinodalità "salesiano"

    9. Si afferma che la sinodalità missionaria è il principale apporto di questo Sinodo e – secondo papa Francesco – norma di attuazione per la Chiesa del sec. XXI. Come possiamo mettere in marcia tali processi di sinodalità nella PG salesiana? Siamo preparati a questo?

    L’anima che accompagna tutti i nostri cammini pastorali è il carisma di Don Bosco. Solamente richiamandoci a queste nostre radici incontriamo il fulcro di tutta l’esperienza salesiana: lo “spirito di famiglia”. È qui il nostro fondamento. È qui il criterio della nostra azione pastorale. E allora per "mettere in marcia i processi di sinodalità” occorre centrarsi attorno a un progetto pastorale che sia espressione di una comunità che cresce, cammina e propone insieme. La proposta è molto chiara. Giustamente si chiede se siamo preparati. Non esiste una risposta netta. Quello che posso dire è che sto notando uno sforzo continuo in questa linea. Non dobbiamo dimenticare che la sfida della sinodalità non si trova nei documenti o nelle strutture esterne: essa ha le sue radici nel cuore di ogni educatore/educatrice. Ecco perché il tema della formazione permanente diventa una chiave indispensabile.
    Nei miei incontri di formazione in varie parti del mondo rimango colpito dalla "persistenza" di schemi pastorali vecchi e superati, mai positivamente "sfidati", che vengono presi come "dati per scontati" e su cui mai ci si confronta con serenità e intelligenza. Queste esperienza di formazione possono realmente diventare momenti di shock, di crisi e di passi in avanti. Il confronto con la realtà (e gli alri) può agitare acque stagnanti. Ma chi ha deciso che va tutto bene, che si è sempre fatto così, si "emargina" di fatto dai flussi della vita, in un mortale (pedagogicamente e spiritualmente) circolo vizioso.
    Se posso esprimere una mia convinzione profonda e sincera, che è frutto di esperienza e di confronto, so che la strada davanti a noi è quella di seguire il cammino della Chiesa e della Congregazione con determinazione e rispetto, perché quella strada sta già dando buoni frutti. Magari si crederà che non procediamo abbastanza velocemente... ma i frutti sono davvero buoni e permanenti, capaci di dare vita e speranza.
    In questa visione di presente e di futuro, lo ribadisco, la pietra angolare è la CEP. Investire nei cammini della CEP, nei consigli della CEP. Proporre cammini sistematici, non frammentati. Accompagnare le persone che ne fanno parte. Creare ambienti di reciproca fiducia, sincero ascolto. Essere attenti a dare solidità alle esperienze di formazione: spirituale, carismatica, umana. Sono questi alcuni degli elementi e scelte fondamentali che segnano esperienze riuscite di CEP. La sinodalità per noi Salesiani passa necessariamente attraverso questo percorso.

    Il discernimento

    10. Il discernimento è stato l'altro concetto chiave del Sinodo. È vero che la PG salesiana è “povera” circa i processi di discernimento, che facciamo molte attività ma poco discernimento? Cosa fare per migliorare sotto questo aspetto?

    Dobbiamo onestamente riconoscere che il tema del discernimento, insieme a quello dell’accompagnamento, ha da parte nostra bisogno di molta e urgente attenzione. In questi due campi abbiamo un deficit notevole.
    Riconosciamo che in un’epoca come quella nostra, non possiamo più dare per scontato quell’ambiente, sociale, culturale e religioso che in generale accompagnava a suo modo tutti i processi educativi nella società. Il cambio di paradigma sociale ha completamente mutato i punti di riferimento. Il messaggio che noi offriamo, come Chiesa e come Congregazione, non trova più una sintonia con il messaggio che gira nella quotidianità dei nostri giovani.
    Di fronte a tale situazione, il più delle volte noi abbiamo continuato a operare come se il mondo fosse lo stesso di prima, con il risultato di collocarci in un mondo parallelo a quello dei giovani.
    Il discernimento ci sfida, innanzitutto, a riconoscere il tempo e la storia di oggi. Solo così possiamo riuscire a interpretare come Dio sta agendo, oggi come ieri. E questo ascolto contemplativo ci dà il coraggio di fare e vivere delle scelte profetiche.
    Nel nostro PEPS, all’interno di ogni progetto troviamo nitido lo schema del discernimento: si legge il territorio, si identificano le sfide, ci si apre insieme a scelte conseguenti.
    A livello di riflessione, in effetti, la Congregazione ha già assunto tale processo di discernimento in ogni fase della proposta pastorale. Quello che ancora trova non facile attuazione è l'assunzione piena e condivisa di tale proposta.
    Riteniamo urgente e necessario accompagnare questi cammini a tutti i livelli: mondiale, ispettoriali e locali. Una grande parte dell’impegno del Dicastero è indirizzato a questo obiettivo. I segnali positivi ci sono, ne ho già accennato. Le varie esperienze ispettoriali di formazione nella pastorale giovanile, la Scuola dei Delegati di Pastorale Giovanile, gli incontri annuali a livello regionale, come anche il lavoro d’insieme tra i Dicasteri nel campo dell’accompagnamento e nel campo del volontariato... sono indicazioni di una linea precisa. Lo stesso possiamo dire di alcuni strumenti di progettazione che il Dicastero ha prodotto e offerto alle ispettorie. Questa è la strada. L’importante è che il cammino di animazione continui con chiarezza di visione e di contenuto.

    Il cuore dell'educatore

    11. Nel suo compito di animazione Lei ha sempre detto di voler attivare processi, più che consegnare documenti o proporre/imporre modelli ed esperienze. In parole più evocative Lei ha parlato del “cuore dell’educatore”, da dove nasce o si può riattivare la capacità propulsiva carismatica missionaria, fulcro di sintesi della vocazione ad educare ed evangelizzare.
    Quali sono secondo Lei i processi che il Sinodo ha evidenziato e che possono “toccare il cuore del pastore”?

    Indubbiamente, uno dei punti che più appare nei documenti del Sinodo è il tema dell’ascolto. È un tema che ci obbliga a riflettere, prima di tutto, su quali sono le scelte che noi dobbiamo fare e non stiamo facendo perché la nostra pastorale sia veramente un’esperienza di cammino con e per i giovani. Questa convinzione mi accompagna da sempre.
    Senza dubbio su di noi, educatori e pastori, cade un notevole peso: siamo invitati a capire il mondo dei giovani, che è diverso da quello che noi abbiamo vissuto. I tre nodi cruciali – la digitalizzazione, gli abusi e la migrazione – non si presentano soltanto come sfide e problemi (e certamente lo sono!), ma ancora di più come realtà che ci chiedono di essere comprese partendo da un atteggiamento di "empatia".
    Se prendiamo ad esempio il tema della digitalizzazione, molti di noi adulti siamo ancora arroccati a una comprensione del digitale come strumento. I giovani lo assumono come un dato di fatto della loro vita. La sfida della digitalizzazione non è nel suo uso e consumo, ma piuttosto nel comprendere che qui abbiamo un nuovo modo di intendere la realtà. Non cambia solo lo strumento, cambia lo stesso modo di vivere, di interpretare. La nostra "conversione" non è dunque solo tecnologica, ma di paradigmi e linguaggi, che sono i veicoli del messaggio cristiano. La digitalizzazione ha cambiato lo stile di comunicare in modo che rischiamo di dire le stesse parole ma di comunicare due messaggi completamente diversi.
    Lo stesso possiamo dire del tema degli abusi e del tema della migrazione. Io aggiungerei anche il tema della cura della casa comune, dal momento che i giovani si sintonizzano con esso in maniera molto più forte e convinta delle generazioni precedenti.

    Un altro processo, naturalmente legato al primo, è quello attorno alla nostra stessa vita di persone consacrate. Il Sinodo afferma che qualche volta la nostra vita in comune è un mondo a parte. Siamo presenti, ma come se fossimo lontani. Il Sinodo ci invita allora ad una apertura che non sia solo pratica, legata ad azioni immediate, ma che vada al di là, che ci permetta di renderci conto che in fondo i giovani sono alla ricerca di persone sane, autentiche, trasparenti. Essere accoglienti, che le nostre comunità siano luoghi umani aperti... potrà succedere solo nella misura in cui il nostro cuore si converta. Quando Papa Francesco parla di una Chiesa in uscita, tocchiamo un processo che sfida il cuore. È la sfida della missionarietà. E qui torniamo ancora una volta alla condizione primaria perché si avvii questo processo, come più volte ricordato (DF n. 118): il bisogno di una conversione spirituale, pastorale e missionaria.

    Nelle diverse Chiese

    12. La recezione del Sinodo ha certamente coinvolto e impegnato le varie Chiese e continenti. Lei vede delle peculiarità in questa recezione nei diversi contesti? Cosa ha colpito di più e in cosa si sentono maggiormente sfidate le chiese dei diversi continenti? E i giovani?

    Partendo dalla Instrumentum Laboris (e anche confrontando con l'esperienza di incontro di tante persone in varie parti del mondo) si constata che il Sinodo riesce a parlare non solo a tutti, ma sa anche leggere le diverse realtà e cogliere le sfide culturali e pastorali che in vari continenti hanno una sfumatura particolare.
    Tale diversità è emersa nelle discussioni del Sinodo, ed è ben sintetizzata nel Documento Finale (Parte I, Capitolo IV) dove leggiamo:

    “l’esperienza religiosa dei giovani è fortemente influenzata dal contesto sociale e culturale in cui vivono” il che ci impedisce di “parlare della religiosità dei giovani senza tenere presenti tutte queste differenze” (DF n. 48).

    Cito brevemente alcuni di questi contesti.
    Nelle regioni di antica tradizione cristiana, dove non c’è più una reale diffusa appartenenza alla Chiesa, non mancano però minoranze creative che portano avanti un’esperienza di rinascita della vita cristiana. Qui la sfida è di accompagnare queste esperienze in mezzo a una cultura di indifferenza alla fede. Qui i giovani chiedono ascolto, accoglienza e accompagnamento per essere sostenuti nel loro cammino di fede.
    In altre regioni dove i giovani sono "ecclesialmente" presenti in maniera consistente, dove la fede è viva, i giovani chiedono più protagonismo. Aspettano una Chiesa più disponibile all’ascolto delle loro aspettative. Qualche volta sentono il peso di un'istituzione che rende più difficile un cammino maggiormente in contatto con la loro vita, un cammino più sinodale.
    Là dove la presenza della Chiesa e dei cristiani in generale è una minoranza, alcune volte discriminata e perseguitata, i giovani mostrano una determinazione impressionante. Qui la sfida dei pastori ed educatori è di condividere un cammino di vicinanza, di solidarietà, di testimonianza, che dà forza e ragioni di una scelta coraggiosa di fede.
    Ci sono, poi, contesti dove la disillusione porta ad una lontananza dalla Chiesa e alla ricerca di altre esperienze offerte dalle sette. Questa è una sfida che interpella la responsabilità dei pastori e degli educatori a verificare e interrogarsi seriamente sul tipo di proposta che non stiamo offrendo, sulla sua insignificanza o freddezza anche emotiva ed esistenziale.
    Se c’è un filo comune tra questi vari contesti e situazioni, esso è la ricerca. In modi diversi e in forme varie, i giovani esprimono questo anelito al senso della vita, sono alla ricerca di qualcosa che li animi dal di dentro e offra loro forza e ragioni di vivere e di sperare. È questo che a noì, educatori e pastori, chiede un ascolto umile e intelligente.

    * Renato Cursi ha lavorato al Dicastero mondiale della PG, da settembre 2019 è coordinatore di DonBoscoNet a Bruxelles; Giancarlo De Nicolò è redattore di "Note di pastorale giovanile"; Jesús Rojano è direttore di "Misión Joven".


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