Andrea Bucelli
(NPG 2020-06-23)
«Andare oltre i gruppi di amici e costruire l'amicizia sociale, cercare il bene comune» (ChV 169)
Le mie conoscenze ed esperienze del mondo giovanile sono limitate. Quindi posso solo proporre qualche impressione da inesperto di pastorale giovanile. La volta che mi fu assegnato il compito di catechista dei bambini, non trovavo mai le parole per rivolgermi a loro. E loro coglievano il mio disagio.
Ho modo di avvicinare generazioni ormai distanti dalla mia, sia vivendo con i figli, sia frequentando gli studenti universitari – giovani adulti – a cui insegno e che incontro anche svolgendo incarichi istituzionali (presidente di un corso di laurea magistrale). Li osservo quindi “dalla cattedra”, ma anche nell’affrontare i problemi quotidiani, legati al percorso formativo, dal momento della scelta del corso di studi alla laurea.
Che impressione ricavo da tutto ciò? Ovvero, per riprendere le domande che mi sono state sottoposte come traccia di questo intervento: che cosa significa formare (e formarsi) giovani capaci di immaginare un futuro partecipativo e solidale? Quali risorse mettere in campo? Quali aspetti far crescere?
Non so dare risposte ad interrogativi così complessi. Posso solo abbozzare qualche sommaria considerazione, come dicevo.
Dare spazio di pensiero e di azione
La prima, che ritorna spesso nei miei pensieri: ai giovani occorre dare spazio di pensiero e d’azione; non possono essere lasciati fuori, solo ad ascoltare chi ragiona “con la testa immersa in un altro secolo”. Tanto meno possiamo ridurli a NEET (Not in Education, Employement or Training), categoria che suscita sdegno e inquietudine, se si considera che comprende chi cerca attivamente lavoro (tecnicamente “disoccupati”, parte della “forza lavoro” assieme agli occupati), ma anche gli “inattivi”, perché “scoraggiati” (ovvero chi non cerca più, ma vorrebbe lavorare) o non interessati al lavoro. “Una generazione in panchina”[1], che in Italia conta 2.116.000 persone in età compresa tra 15 e 29 anni[2].
Ai giovani dunque va data la parola, vanno create condizioni tali da favorire la liberazione delle loro energie, perché sono pronti a spiccare il volo: “come rondini in volo verso la primavera”, diceva Giorgio La Pira. L’“effettiva partecipazione” dei giovani “all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, co. 2, Cost.) bisogna volerla, prepararla, favorirla, accompagnarla. Deve diventare un programma di rigenerazione della società. Altrimenti resta una parola vuota, proclamata e mai attuata.
A volte lo spazio si dà anche senza volerlo, per incapacità (ad esempio di maneggiare gli strumenti informatici) o per disinteresse dei meno giovani. Il giardino di casa mia, che ho sempre trascurato per pigrizia e mancanza di tempo, in questo periodo di forzata clausura per l’emergenza sanitaria è rifiorito come non mai. I miei figli, senza che dicessi loro alcunché, vi ci si sono dedicati, giorno dopo giorno impegnati a ripulire, piantare, coltivare. Però, un conto è che i giovani suppliscano a ciò che gli adulti non possono o non vogliono fare, altro è che gli adulti abbiano la consapevolezza e la determinazione di valorizzarne presenza, ruolo, potenzialità.
Sul piano più generale, politico, non possiamo non raccogliere la provocazione di papa Francesco: quale modello di sviluppo è quello che – come il nostro – ruba il futuro ai giovani, li priva «di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie?»[3].
L’altra considerazione su cui vorrei porre l’accento, anche per il lavoro che faccio, riguarda la scuola. Sarebbero tante le riflessioni sul tema. Certo è che l’istruzione è il capitolo fondamentale su cui investire, come vorrebbe (all’art. 34) la nostra Carta costituzionale. Di fronte alle grandi questioni contemporanee «ci troviamo davanti ad una sfida educativa» (Laudato sì, n. 209).
Ma l’educazione, la scuola di ogni ordine e grado, oggi a quale modello si va ispirando? A me sembra che da anni prevalga il “paradigma tecnocratico” di cui parla la stessa Laudato sì (n. 106). Può darsi che l’approccio che tutto misura e tutto confronta elimini sacche di inefficienza anche consistenti, e sta bene. Ma l’esasperazione di regole e procedure, indicatori di dati statistici e tabelle, davvero raccoglie la sfida educativa di cui dicevamo? “Dobbiamo rivalutare la ragione critica; ecco la vera via per ristabilire il ruolo dell’educazione”, scriveva Ernesto Balducci[4]. E quanto i giovani oggi sono aiutati a crescere come persone che fanno parte di una comunità, più dotate del senso degli altri che propense a costruire steccati? Persone disposte ad anteporre il bene comune di volta in volta emergente ai propri interessi e alla propria carriera[5]?
Occorre un nuovo umanesimo, si dice. Però – anche qui – la parola, se non vuole restare una declamazione inutile, ha bisogno di essere vissuta, testimoniata, declinata, calata nel governo delle cose. Faccio un esempio relativo ad una vertenza che, al momento in cui scrivo, non si è ancora chiusa nel confronto serrato tra esecutivo e forze politiche e sindacali. Mi riferisco alla stabilizzazione dei precari nella scuola media superiore. Persone già nella scuola da anni, in là con l’età e magari con famiglia, forse anche stimate da colleghi dirigenti e alunni. La loro capacità di insegnare, secondo il Ministero, dovrebbe essere testata attraverso una prova Computer based di 80 domande in 80 minuti. Un minuto a domanda! Non solo. A seguito del concorso straordinario ne sarà bandito uno ordinario, con la conseguenza che, se il malcapitato dovesse fallire la prova a quiz, qualcun altro dall’una (straordinaria) o dall’altra graduatoria (ordinaria) potrebbe sopravanzarlo. Con il risultato finale di far perdere il lavoro ad un insegnante di comprovata e apprezzata esperienza. Possibile non escogitare un altro criterio di reclutamento, in grado di verificare capacità tecniche e ad un tempo rispettoso di quel che è maturato negli anni del precariato?
Sulla stessa falsariga e di nuovo attingendo alla mia esperienza: esiste nel nostro ordinamento un percorso di eccellenza che è il dottorato di ricerca; dovrebbe formare i futuri ricercatori e docenti universitari. Strumento con cui, giustamente, lo Stato investe sui giovani “capaci e meritevoli” di cui parla l’art. 34 della Costituzione. Sarebbe molto interessante conoscere (ma non ho dati) il numero dei dottori di ricerca che, anch’essi formati in anni di studio, non hanno trovato sbocco nelle università italiane e neanche nella scuola media superiore. Quante le energie accumulate e poi disperse, sacrificate e, nella migliore delle ipotesi, sottoutilizzate; quanti i giovani, nel frattempo diventati agés, frustrati e persi?
Che ne sarebbe invece se trovassimo politiche davvero efficaci – assai più coraggiose, ad esempio, del vigente servizio civile – in grado di dare concrete opportunità d’inserimento e sviluppo?
Riattivare dialoghi tra le generazioni
Un’ultima battuta sul rapporto tra generazioni. Si è interrotto, questo rapporto: abbiamo segregato gli anziani nelle RSA, di questi tempi martoriati; li abbiamo ghettizzati, nascosti; i giovani non conoscono i nonni, i nonni non conoscono i nipoti. Abbiamo bisogno di recuperare il dialogo tra generazioni. Non solo. Abbiamo bisogno di proiettarci verso le generazioni a venire, ad esempio nel calibrare le scelte economiche in funzione di sostenibilità ambientale e sociale. Non possiamo più permetterci di saccheggiare il creato e di ridurre in povertà strati sempre più ampi della popolazione (Laudato sì), segnatamente i più giovani. Bandirei allora la parola “rottamazione” per rilanciare l’insegnamento lapiriano dell’unità nel molteplice della famiglia umana. Ma concludo citando un prete orionino, don Angelo Vallesi, salito al Padre più di vent’anni fa, insegnante di religione al liceo e figura di riferimento nei miei anni giovanili: «Giovani e adulti vanno visti insieme perché insieme debbono vivere: i loro doni, infatti, si completano in quanto complementari! Il giovane, senza l’adulto, sarebbe un carisma senza discernimento. Il discernimento del giovane, infatti, è l’adulto, così come il discernimento dell’adulto è il giovane. Più precisamente: il carisma del giovane è la fantasia, la creatività (egli è chiamato a far nascere quel che non trova…), il potere di far ringiovanire anche l’adulto… È ancora del giovane la capacità di rivitalizzare le opere, le proposte, i metodi, le sensibilità, gli stili di vita…
L’adulto, a sua volta, rappresenta il carisma della stabilità, della sicurezza, dell’esperienza, della calma, dello spirito di sacrificio, del lavoro umile, faticoso, quotidiano…»[6].
NOTE
[1] Una generazione in panchina. Da NEET a risorsa per il paese, a cura di S. Alfieri, E. Sironi, Vita e Pensiero, Milano, 2017.
[2] Ultimi dati ISTAT, riferiti al 2018.
[3] Discorso per il conferimento del premio Carlo Magno, 6 maggio 2016.
[4] In Fede e scelta politica, Milano, Mondadori 1977, p. 24.
[5] Cfr. Christus vivit, 169.
[6] Molte cose ho ancora da dirvi. Riflessioni di don Angelo Vallesi, a cura di C. Megli, L. Morolli, M. Morolli, M. Pasquini, Firenze, 2019, p. 214.