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    Célestin Freinet. La vita si prepara attraverso la vita


    SULLE SPALLE DEI GIGANTI /10

    Fabrizio Travaini

    (NPG 2020-01-72)


     

    Célestin Freinet (15 ottobre 1896 – 8 ottobre 1966) è stato un maestro e pedagogista francese che si è battuto per promuovere una nuova visione della didattica scolastica rivoluzionandone i presupposti di fondo, ma non solo.
    Nato e cresciuto in una famiglia contadina, (era il quinto di otto figli) sin dalla sua infanzia dedica parecchio tempo a prendersi cura degli animali e a lavorare duramente nei campi, alternando a queste faticose attività fisiche lo studio scolastico.
    Questo periodo della sua vita lo influenzerà enormemente nell’elaborazione del suo futuro pensiero pedagogico, seminando le basi per quella che sarà poi definita pedagogia popolare e preparando il terreno per il suo metodo naturale.
    Entrato in contatto con l’apparato scolastico per la prima volta nel 1920 come maestro nella scuola a Bar-sur-Loup, Freinet si rese subito conto di come l’aula e l’ambiente scolastico in generale trasudassero immobilità, silenzio, distacco e rigidità. Proprio da questa sua prima esperienza a contatto con la realtà scolastica sorsero in lui i primi dubbi e fatiche riguardo al sistema tradizionale. Freinet individuava elementi di forte imposizione autoritaria nell’impostazione delle classi, una didattica verticistica ancorata all’idea di un sapere unicamente trasmissibile nella rigida forma della “lezione frontale”, programmi meticolosamente strutturati e invariabili, insomma un ambiente impositivo e schematicamente predefinito.
    Successivamente venne influenzato da correnti di pensiero a lui più affini come quelle di un’educazione “nuova” di Claparède, Ferrière e Cousinet, pur mantenendo una certa distanza in quanto le riteneva ancora troppo elitarie, teoriche e astratte, capaci di rispondere unicamente ai bisogni educativi dei bambini benestanti e non di tutti quegli alunni che versavano in condizioni di povertà e miseria.
    Fu così che, proprio in questo contesto e tenendo presente di questa prospettiva essenzialmente democratica che stava nascendo in lui, Freinet costruì a Vence nel 1935 una scuola capace di accogliere chiunque, anche bambini spagnoli profughi.
    Questa istituzione rivoluzionò drasticamente il concetto stesso di “Scuola”, in quanto tutte quelle dimensioni profondamente pedagogiche quali spazi, tempi, setting, oggetti e comunicazione vennero stravolte e ri-assemblate in una forma completamente nuova. Basti pensare che nella sua scuola non esistevano le aule per come le intendiamo nella comune accezione, le lezioni consistevano principalmente in laboratori, vi era la presenza di grandi orti che venivano curati dagli alunni e vi erano molti spazi all’aperto in cui poter lavorare ma anche studiare.
    Emerge quindi fortissima l’influenza dei suoi primi anni di vita a strettissimo contatto con la natura, quando si è andata lentamente formando la sua forma mentis di «uomo pratico che lega il pensiero alla vita, la teoria all’azione, l’ideale alla ricerca costante e caparbia della via che lo realizzi e lo esprima creativamente nel reale»[1]. Auspica un ritorno alle origini, non come regressione ad un mondo primitivo, privo delle nuove tecnologie che stavano nascendo (anzi Freinet promosse l’utilizzo della tipografia e della stamperia a scuola che rappresentavano proprio le tecnologie più all’avanguardia in quegli anni), ma da intendersi come desiderio sincero di scoprire i reali bisogni e le attività spontanee che sorgono nei bambini in maniera del tutto naturale, non artificiosa, non come costrutto culturale o sotto l’influenza di un mondo adulto già rigidamente costituito. Significava una vera e propria rivoluzione in quegli anni rendere il bambino con la sua innocenza e anche ingenuità, protagonista e artefice del suo apprendimento. Questo rappresentava ovviamente solo il punto di partenza, perché Freinet non immaginava una scuola in cui il bambino avrebbe strutturato le attività in base alle sue preferenze; il punto di arrivo consisteva in attività cooperative e organizzate che sarebbero riuscite ad arricchire il bambino senza però fargli perdere la creatività insita in lui.

    “Fate scaturire la sorgente” e “Il cavallo che non aveva sete”

    L’immagine evocativa che meglio esprime il concetto di educazione per Freinet è quella esposta nel suo racconto “Fate scaturire la sorgente”, presente nel libro Una moderna pedagogia del buon senso (I detti di Matteo): «I pedagoghi sono come quei bambini che si divertono a costruire un bacino nel luogo che a loro sembra il più adatto perché non ci sono né rocce né radici intricate e tenaci ed essi possono scavare e rimuovere la terra anche con attrezzi primitivi. E quando il bacino è costruito si preoccupano di condurvi l’acqua. Forse ne troveranno così poca, arriverà così difficilmente con una pendenza così leggera e colerà in rigagnoli tanto sottili che il più piccolo filo d’erba devierà il suo corso incerto. Durante questo tempo il bacino, lento a riempirsi, si disseccherà, si fenderà e perderà l’acqua condottavi con tanto stento. Voi avrete un bel chiudere e tappare, non riuscirete mai a riempire il bacino se non con acqua stagnante e sporca che non potrete usare. Dovrete allora aprire lo scarico e rinunciare al deposito, a meno che, a forza di secchi d’acqua portati dalla sorgente vicina, non riempiate artificialmente il bacino: questo creerà per un momento qualche illusione, ma l’acqua resterà finché ne porterete coi secchi. Gli abitanti delle nostre montagne sì che sanno cominciare dal principio. Essi ricercano la sorgente e non soltanto il rigagnolo che gocciola al fondo del vallone; ricercano la polla di dove, in profondità, l’acqua esce gorgogliando, fresca e chiara, fra le pietre. Quando la sorgente è trovata, quando l’acqua zampilla intrepida e sicura è facile incanalarla fino alla rustica conca che strariperà eliminando le impurità che l’onda avrà rimescolate e rigettate. Cessiamo dunque di lasciarci ipnotizzare dai bacini capricciosi dell’osservazione, della memoria, delle teorie formali ammucchiate nella landa desolata della vecchia scolastica. Non affatichiamoci più a lungo a chiudere i buchi sospetti, a portare secchi d’acqua, ad agitare quella massa informe, morta e stagnante. Esaminiamo le sorgenti; cerchiamo in profondità il flutto che gorgoglia fra le pietre; guidiamo la corrente e lasciamola scorrere abbondantemente nelle conche rustiche. Noi costruiremo allora i bacini razionali per utilizzare e addomesticare le ricchezze che la vita ci avrà generosamente elargito[2]».
    Emerge sempre più imperante la visione della mente del bambino come se fosse acqua che scorre libera, che va a tentoni, che si muove per “tentativi ed errori” come direbbe lo psicologo E. L. Thorndike, scoperte e ricerche, fino a quando non viene indirizzata verso una meta che dia un senso al suo vagare; all’educatore spetta un compito di orientamento, ben differente da quello di detentore e impositore di un sapere astratto come accadeva in passato.
    Per comprendere ancora meglio la fondamentale importanza di questo primo concetto proposto da Freinet e smussare ulteriormente l’idea di una pedagogia che si impone senza lasciare aperte le porte ad eventuali forme alternative di apprendimento si può ricorrere ad un altro estratto del suo libro nel quale racconta la storia di un cavallo che non aveva sete: «Un giovane cittadino voleva rendersi utile nella fattoria dove era ospite e decise di portare il cavallo all’abbeveratoio. Ma il cavallo si rifiutava e voleva condurre il cittadino verso il prato. "Ma da quando in qua i cavalli comandano? Tu verrai a bere, te lo dico io!" e lo tira per la briglia e lo spinge malamente. La bestia avanza verso l’abbeveratoio. "Forse ha paura - pensa il giovanotto - se l’accarezzassi? Bevi! Prendi..."Nulla da fare e il giovane urla: "Tu bestiaccia berrai " Il cavallo storce il muso e nitrisce, soffia, ma non beve. Arriva il contadino Matteo e gli dice: "Tu credi che un cavallo si tratti così. Ma lui è meno bestia di qualche uomo, lo sai? Tu puoi ucciderlo, ma lui non berrà. Tempo perduto, povero te!". "Come fare allora?". "Si vede bene che non sei un contadino. Non hai capito che il cavallo non ha sete nelle ore mattutine e ha invece bisogno dell’erba medica. Lascialo mangiare a sazietà e dopo avrà sete. Allora lo vedrai galoppare verso l’abbeveratoio. Non aspetterà che tu gli dia il permesso. Non si può cambiare l’ordine delle cose: se si vuol far bere chi non ha sete si sbaglia". Educatori, siete al bivio. Non ostinatevi nell’errore di una "pedagogia del cavallo che non ha sete", ma orientatevi coraggiosamente e saggiamente verso "la pedagogia del cavallo che galoppa verso l’erba medica e l’abbeveratoio»[3].

    Le “Tecniche Freinet”

    Avvalendosi di queste sue convinzioni Freinet decide di istituire delle vere e proprie tecniche pedagogiche innovative per sviluppare al meglio l’apprendimento infantile da lui rinominato tâtonnement, infatti «noi non ricerchiamo più nei libri, né nei programmi la base essenziale della nostra opera educativa. Ogni pedagogia che non abbia le sue basi sull’educando, sui suoi bisogni, sui suoi sentimenti, sulle sue più intime aspirazioni, è falsa. Scruteremo dunque l’animo del fanciullo, e possediamo per potervi penetrare una tecnica che s’è dimostrata molto efficace: la libera composizione, la Tipografia a scuola, e la corrispondenza interscolastica. Questa spontanea espressione sarà insieme un’espansione della personalità e una occasione scolastica di acquistare, ampliare e precisare le diverse cognizioni: lingua, grammatica, vocabolario, scienze, storia, geografia, morale, innestando logicamente sull’interesse infantile così esteriorizzato le varie discipline previste dal programma»[4].
    Quindi la trasmissione dei contenuti e del sapere non vengono rimpiazzati da attività libere a discrezione dell’alunno, ma vengono strutturati in maniera tale da risultare aderenti alle reali capacità, competenze, interessi, ritmi e stili cognitivi dei bambini, così da rendere l’apprendimento un processo il più naturale possibile.
    La scuola di Freinet pone al primo posto la costruzione pratica del sapere, un processo che parte dal basso e richiede il massimo impegno e la massima partecipazione dell’alunno per realizzarlo. In quest’ottica le attività laboratoriali assumono un ruolo di primaria importanza, infatti questa è probabilmente stata una delle più grandi intuizioni di questo pedagogista, ovvero per dirla con le parole di Marinella Attinà il fatto che «l’istituzione del laboratorio appare molto innovativa: inteso come luogo di mediazione epistemologico – didattica, come categoria pedagogica capace di rivitalizzare la didattica, insomma uno spazio mentale e psicologico prima ancora che fisico»[5] .
    In questo modo il bambino mette mano fisicamente al processo di formazione attraverso una sperimentazione diretta della conoscenza guidato da un insegnante che intenzionalmente trasforma la predella da elemento di asimmetria evidente in palcoscenico per spettacoli degli alunni, che sposta le sue lezioni da un’aula angusta e claustrofobica negli spazi aperti organizzando uscite scolastiche, che sostituisce al testo sotto dettatura la scrittura di testi liberi e la realizzazione di un giornale di classe, che introduce l’autovalutazione a scapito dello strumento del voto e della bocciatura da parte del docente. Inoltre tra le altre tecniche che Freinet introdusse nella sua scuola figurano l’illustrazione dei testi stampati, la pittura libera, lo schedario di documentazione, le “conferenze” dei bambini una volta terminata una ricerca e molte altre, tutte caratterizzate da grande dinamismo e flessibilità.
     
    Parafrasando Gaber: Pedagogia è… partecipazione!

    Il valore aggiunto del pensiero pedagogico di Freinet non si limita però a quanto sopra riportato, ma va cercato nella diretta conseguenza che un apprendimento di questo tipo può generare nei più giovani, ovvero la centralità della dimensione sociale per la vita dell’individuo fondata sulla cultura popolare. Infatti il pedagogista francese non voleva limitarsi ad insegnare la didattica seguendo strategie e tecniche “stravaganti” e non convenzionali, il vero scopo del suo agire e pensare educativo era rivolto a preparare i suoi alunni a diventare un giorno cittadini pronti ad affrontare la vita con tenacia ed eroismo, a sapersi fare carico delle istanze delle minoranze, a fondare le proprie azioni su principi di cooperazione, uguaglianza, democrazia. Uomini e donne capaci di superare ogni forma di isolamento e individualismo, sensibili alle esperienze altrui per realizzare un lavoro comune in vista di obiettivi più ampi. Un’educazione quindi che si caratterizza con una forte vena sociale e politica, che non si delinea come mera indicazione teorico – filosofica, ma che affonda le sue radici in una realtà fortemente concreta, nel e per il mondo, con lo sguardo sempre rivolto al Popolo, agli oppressi e agli emarginati.
    Si delinea sempre di più l’idea che il lavoro di Célestin Freinet possa essere ricondotto ad un tentativo di costruire una vera e propria Visione, una sorta di Profezia che si auto avvera fortemente desiderata e ricercata da parte di questo pedagogista che ha dedicato la sua intera vita per questa causa riuscendo anche a fondare nel 1928 la CEL (Coopérative de l’enseignement laïc), per arrivare al 1957 con la nascita della FIMEM (Féderation Internationale des Mouvements de l'École Moderne), fino al punto di esportare il suo pensiero all’estero tanto da portare il pedagogista italiano Mario Lodi a dare origine al Movimento di Cooperazione Educativa.
    La sfida intrapresa da Freinet ormai quasi un secolo fa suona più che mai attuale, soprattutto in questo tempo dove la competitività, l’efficienza e il predominio sull’altro sembrano essere diventati gli assiomi fondamentali di una società che fatica sempre più a dare voce e rispetto a chi non riesce ad emergere, a chi per innumerevoli motivi non ha la possibilità di stare “al passo coi tempi”.
    Freinet ci ricorda l’importanza di mantenere uno sguardo globale su tutti e tutto, inclusivo e non esclusivo, capace di accogliere la realtà per quello che è senza forzarla o selezionarla. Richiama chiunque ad assumersi la responsabilità di agire per il bene comune, in vista di un orizzonte condiviso, guidata da una saggezza profonda e da un ascolto sincero dei bisogni dell’umanità.
    Sottolinea l’importanza della cooperazione, intesa come operare insieme, mai come singoli individui staccati dalla comunità. Un messaggio di speranza, di fiducia e soprattutto di grande impegno sociale, di responsabilità civile e forse più che mai di partecipazione politica.

     

    NOTE

    [1] C. Freinet, Una moderna pedagogia del buon senso (I detti di Matteo), Roma, Editions du Seuil, 1994.
    [2] Idem, pag. 28.
    [3] Idem, pag. 25.
    [4] C. Freinet, Nascita di una pedagogia popolare, Firenze, La Nuova Italia, 1976.
    [5] M. Attinà, La scuola primaria, Milano, Mondadori Education, 2012


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