II parte di: "Icaro torna a volare. Esperienze tra minori a rischio" (Elledici 2003, pp. 39-109)
Brani scelti
(NPG 2020-07-60)
Introduzione: dal fronte dell'esperienza
(…) Ho raccolto alcune lettere scritte dal fronte dell'esperienza di questi anni, sofferta e gioiosa.
È l'altra faccia del progetto, il racconto epistolare inviato a quanti provano simpatia per i ragazzi di strada.
Non troverete schemi, analisi approfondite, orientamenti organizzati.
Ho un unico desiderio: comunicare con voi e con quanti un giorno vorranno rivivere una simile esperienza educativa.
Scrivo nella serena fiducia che non ci sia, tra voi educatori,
nessuno che suoni la campana a morte. Mai!
Lasciamo ad altri il triste compito d’agenti delle pompe funebri.
Noi non siamo becchini, ma samaritani.
(pag. 40)
Un piccolo seme
(…) Ricordiamo i pilastri insostituibili del nostro intervento educativo.
Innanzitutto incarniamo la certezza che anche il ragazzo più delinquente può diventare migliore. I nostri ragazzi non ci credono. Hanno paura di essere diversi. Si sentono destinati a vivere ormai un’esistenza da emarginati, immersi in un contesto sociale, familiare e scolastico, tra conflitti, miseria materiale o morale.
(…) Ragazzi in maschera!
Una maschera d’aggressività e di spavalderia!
Una maschera per nascondere paure, coprire i propri occhi spenti.
Tanta rabbia!
È bastato strappare questa terribile maschera e scoprire un animo desideroso di bene, affamato di cose pulite. Il difficile sta proprio nel tirare giù questa maschera, saldata sul loro volto, tante volte, da una sofferenza al limite di ogni sopportazione, una maschera difesa a denti stretti per paura e timore di mostrare le piaghe che hanno deturpato e abbrutito la bellezza del loro volto e del loro cuore giovanile.
(…) Quando muore un giovane abbandonato sulla strada o in carcere, muore anche un pezzo dell’educazione. Nessuno si era accorto, forse troppo tardi, che la loro strada conduceva alla morte.
(…) Continuate a farvi samaritani di questi ragazzi, vittime spesso del brigantaggio della sopraffazione e dei falsi modelli di vita. Se questo vi è difficile, riprovate: potrete essere dei buoni cirenei! Di croci da portare ne troverete seminate ad ogni angolo di strada: sono in tanti ad averle abbandonate, schiacciati da un peso insopportabile.
Non vi stancate mai di tessere la fiducia nel loro cuore, anche se altri cocciutamente tenderanno a distruggere il nostro bene. E' purtroppo il prisma della cattiveria umana che orienta in direzioni diverse i raggi dei nostri sforzi.
Ci peserà talvolta la nostra scelta. Abbiamo accettato la sfida. Ce la faremo.
Con amore!
(pp. 41-44)
La fontana del villaggio
(…) All'origine del disagio c'è sempre un amore mancato.
Viviamo accanto a loro da innamorati della vita.
In amicizia!
L’amicizia vera nasce senza parole. Non si cerca per passare ma per vivere il tempo. Uno sguardo, un gesto, penetra nella mente e nel cuore più di mille parole.
L’amicizia e l’amore sono come le aquile: amano volare in alto.
È questo il pane profumato che il buon Dio mette sulla nostra mensa. Il nostro progetto è una piccola creatura: ha bisogno di premure e delicatezze, di paziente attesa. Nessuno di noi ha il diritto di sciupare questa preziosa occasione.
Credo che in educazione, come nell'amore, o si è totali o si rischia alla fine della vita di rimanere con le mani vuote e il cuore ripieno d’insoddisfazione.
Sento spesso ripetere: Mi manca tanto il Centro.
È vero: è come una croce che ti pesa quando la porti sulle tue spalle e ne senti la mancanza quando la lasci solo per qualche istante.
Un buon educatore dovrebbe ispirarsi alla storiella della fontana del villaggio, felice solo di gettare acqua; non importa a chi e quando. Che arrivi la buona massaia con la sua brocca abbrunita, con la sua piccola giara ad attingere acqua, o che vada a mescolarsi al terreno formando un noioso fango, importa poco. Tu però devi restare lì, sempre e disponibile. Non puoi, e non devi smettere mai di essere fontana viva: la gente ha diritto alla tua acqua. Puoi anche soffrire la solitudine, ma non puoi rinunciare, rifiutare di donarti. Questi ragazzi hanno diritto di poter contare sulla serietà e la paziente tessitura del nostro servizio.
(pp. 45-50)
La grande sfida
(…) Nulla ti turbi, ci ricorda Don Bosco. Siamo operatori chiamati a tentare, sempre. Non sono le fatiche e anche le possibili sconfitte a mandare in crisi un educatore, ma la rassegnazione, l'incapacità a non vivere con fede dinamica e con spirito di sfida il proprio servizio.
Dove sta allora la causa dei nostri disagi?
Mi sembrano tre gli elementi che spesso possono fare da talpa e rubarci i semi che noi con tanta cura abbiamo seminato: la perdita di vista del fine del progetto, la nostra impreparazione e la nostra impazienza.
(…) Il nostro non è un lavoro su vuoti a perdere. Nulla si perde di quanto noi diciamo, di quanto proponiamo, di come ci comportiamo: non siamo inutili, mai!
I fallimenti? Sono lezioni di vita, se accompagnati da atti d’umiltà.
Il ragazzo rispetta l’educatore che riconosce i propri errori, lo sente più vicino alla sua fragilità; non stima e ridicolizza educatori presuntuosi, vestiti d’onnipotenza.
Un buon educatore ricorda il suo passato, le radici della propria vita.
(…) Il nostro Centro è un servizio educativo del tutto particolare, che ha le sue radici nei valori del Vangelo e nella spiritualità salesiana. Noi operiamo, insieme, sui ragazzi e su ciascuno di noi. Guai se dimenticassimo che, in questo lavoro, noi siamo allo stesso tempo educatori ed educandi
(…)
Occorre dinamismo, creatività.
L'educazione è un'arte. Farsi artisti in questo campo è possibile, solo se entriamo mente e cuore nel percorso affettivo dei ragazzi, se la nostra diventa una comunicazione che stabilisca relazioni costruttive, se usiamo un linguaggio intelligente e offriamo messaggi comprensibili.
(…) Un educatore non alza mai bandiera bianca. “Lo dicevo io, che con questo ragazzo non c'era niente da fare", "tanto con... c'è poco da sperare”.
Occorre rassicurare sempre, all’infinito: io ho cura di te, puoi contare su di me!
(…) E allora? Guai se il nostro Progetto scandisse gli stessi ritmi della vita di una struttura penale! Noi viviamo con e per i ragazzi! Solo marciando con il loro passo è possibile incontrarsi, attivare il cambio; diversamente ciascuno andrà per la sua strada. Questo non significa compromesso, ma solo prendere con sé il ragazzo nel punto giusto e gradualmente riprendere ritmi nuovi di vita.
(pp. 63-67)
La favola di Cappuccetto Rosso
(…) A noi non è concesso il beneficio delle attenuanti; chi le cerca vive nel riposo eterno della coscienza. “Vorrei svegliarmi un giorno - ci ripete spesso un ragazzo, soggetto a due anni di messa alla prova - e non pensare più a un casino di gente che ti rompe...”.
Tutto è visto come una palla di piombo. È una partita a scacchi.
(…) I nostri interventi devono spingere l'altro a muovere: forse farà mosse sbagliate, che potranno deluderci o spiazzarci. Importante è muovere, a darsi na’ mossa. La nostra deve tener conto della loro mossa, creando spazi e occasioni: se vuole, ne trarrà vantaggio. Tutto in quel se vuole. Questo significa che lui deve riconoscere l'opportunità offertagli, convincersi della bontà della proposta per camminare sulla strada del bene.
Noi riceviamo un mandato sociale dagli organismi giudiziari: se restiamo agenti di cambiamento legati soltanto a questo doveroso assolvimento, siamo sulla strada sbagliata. C'è un altro mandato che tentiamo in continuazione di ottenere dal ragazzo.
“Voglio il tuo aiuto, la tua fiducia, la tua stima: non mi basta il semplice affetto”.
Noi tentiamo di rendere liberi dei soggetti prigionieri. Questi ragazzi vivono oscillando tra illusioni e delusioni: un pendolo che ci prova, ci frusta e logora talvolta la voglia di lavorare con loro. Siamo turbati da un senso di forte impotenza, accompagnato da una valanga d’interrogativi inquietanti, che attanagliano anche il più agguerrito educatore.
Il punto nodale resta sempre in quei due gemelli prima citati: motivare e negoziare.
Noi non siamo agenti immobiliari, che devono piazzare immobili, vendere, guadagnare; noi siamo agenti di cambiamento.
(pp. 82-86)
Giustizia e pace
Lettera ad un magistrato
(…) La tranquillità! Se vuoi, può essere questo il primo obiettivo del nostro lavoro. Sembra una parola poco usata. Un tecnico della materia gradirebbe una terminologia più leziosa. Resta tuttavia il primo gradino della nostra scala educativa. Sapessi quanto fa bene a questi ragazzi respirare un po' d’aria dove non ci siano conflitti, dove non si urla, dove non si giudica, dove si tenta di ragionare e non di condannare.
Sapessi, signor giudice, cosa si prova a vedere uno di questi ragazzi piangere di gioia! Sono occhi segnati dalla paura; non hanno mai visto in faccia come è fatta la vita in pace: ovunque lo sguardo girano, vedono e respirano solo tensioni.
Li guardo spesso negli occhi. Li osservo quando arrivano il primo giorno, li scruto prima che arrivino da te. Quegli occhi sembrano uno schermo vivente, dove danzano le immagini di animi inquieti. Il telecomando è nelle nostre mani.
(…) La tranquillità aiuta a capire, ad accorgersi che ci sono persone che vogliono veramente il loro bene. Spetta a noi seminare in questa bassa stagione della loro vita fiducia, speranza, serenità. Un cuore senza lacrime di gioia, credimi, è come un campo di fiori devastato dalla siccità.
(…) Per tanti anni ho pensato che l'amore, il voler bene, consistesse nell'essere gentili, cortesi, attenti, premurosi, buoni con tutti. Poi ho capito che questo è solo l'inizio. Voler bene significa aiutare anche l'altro a voler bene: io non mi sostituisco a te.
Tu puoi e devi farcela! E' il nostro motto. Noi non abbiamo nessuna procura per sostituirci a loro. Possono anche servirsi di noi per vedere ciò che devono fare, per risolvere i loro problemi: offriamo occasioni e strumenti, perché essi credano in se stessi e prendano fiducia. Proviamo a rafforzare radici per sviluppare il lato buono e sviluppare il senso autentico di libertà. E’ un diritto dei ragazzi crescere e volare liberi. A noi spetta irrobustirne le ali e non fare di loro dei novelli Icaro, che si illudono di potersi muovere senza fatica e rischi.
(pp. 109-114)
Conclusione: La valigia per l’ultimo viaggio
(…) Ogni essere umano ha pennelli e colori per disegnarsi il proprio Paradiso.
Spetta a ciascuno di noi, soprattutto a quanti hanno responsabilità educative, non deludere questa nuova primavera della cultura minorile: diversamente i fiori calpestati oggi diventeranno fango domani. Ho raccontato storie incredibili di sofferenze, ma anche di ragazzi risorti alla vita!
Papini ha scritto: “Quando non si riesce a definire o capire una verità in venti parole, neppure mille pagine riusciranno a renderla chiara”.
(p. 200)