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    Abitare poeticamente il mondo


    Spiritualità giovane/intrepida che correla disincanto e festa

    Antonia Chiara Scardicchio

    (NPG 2020-06-14)


    «Saper aprire gli occhi e soffermarti per vivere pienamente e con gratitudine ogni piccolo dono della vita» (ChV 146)


    Il moto proprio dell'umano in ricerca

    Prendersi cura della spiritualità giovanile è impegno a doppio filo legato alla cura dei processi di adultità: giovinezza ed età adulta non sono polarità in contraddizione né la successione temporale che le contraddistingue implica che la prima sia in contraddizione o alternativa rispetto alla seconda.
    In fondo sappiamo bene che nelle storie individuali non è detto che l’una escluda l’altra: non è detto che non si possa essere giovani eppure già adulti – che non vuol dire disincantati ma generativi – e non è detto che non si possa essere adulti e anche giovani – che non vuol dire infervorati ma in perdurante apertura.
    Conviene, allora, innanzitutto schiarirci a noi stessi: domandarci come, esplicitamente e implicitamente, ci rappresentiamo l’età giovanile. Oltre la collocazione anagrafica, che cosa intendiamo quando usiamo l’espressione giovinezza? A cosa particolarmente riconduciamo la loro, la nostra?
    È una domanda cruciale, perché da essa dipende la progettazione educativa ad essa destinata.
    È una domanda cruciale, perché da essa dipende la nostra capacità di vedere veramente chi incontriamo e non l’idea che dei giovani abbiamo.
    È una domanda cruciale, perché da essa dipende la nostra possibilità di prenderci cura della giovinezza intesa come età eterna dello spirito, non nel senso giovanilista che coincide col risvoltino ai pantaloni del settantenne, ma come posizionamento al cospetto della Vita che è giovane perché pronta ad attraversare il bosco, l’ignoto, il “cimento”. Parola, quest’ultima, che non si usa più e che però dice bene della spinta vitale che è il moto proprio dell’essere umano in ricerca (cfr. Panksepp, 2014).

    Il radicamento nella storia

    Se centriamo il cuore della giovinezza nello scatto che nell’immaginario universale corrisponde all’eroe che va verso il drago, e che per noi corrisponde al lancio vocazionale, alla fecondità di futuro, all’uscita dalla propria terra per seguire la stella, pur senza avere assoluta certezza del dove ci condurrà, allora la cura della spiritualità giovanile ci chiede, innanzitutto, profondo radicamento nella storia.
    La storia: il luogo dell’incarnazione, il punto preciso dove Dio ci ha posto, scelto, chiamato, mandato.
    La storia: il tempo che tesse passato col presente, presente col futuro, la convocazione all’abbraccio del mondo, la più poderosa convocazione a una identità che non confina né si confina.
    E quanto più la storia è dolorosa – politicamente, intimamente – tanto più è spingente la questione identitaria, tanto più si percepisce la spinta alla Grande Domanda: “che ci faccio qui?”.
    La cura della spiritualità giovanile, intesa non come antitetica ma come integrata a quella adulta, è, allora, cura filosofica (Zambrano, 1996; Mortari, 2002; 2005).
    Eppure per un po' di decenni abbiamo ceduto alla seduzione d’intendere la progettazione educativa per i giovani come soprattutto coincidente con “esperienze-wow”, con “spettacolari-cose-da-fare”, cercando di competere con le feste e coi concerti (perché sì, effettivamente, paiono cose propriamente giovanili quelle che puoi sostenere fisicamente solo a una certa età, giacché dopo i 40 il divano vince in fascino gareggiando con la notte bianca).
    Ma non possiamo più permetterci di eludere la questione identitaria fondamentale - il nesso indisgiungibile tra identità e domanda, tra identità e ricerca - proprio adesso, proprio nel tempo in cui, mentre tanta educazione viene liquidata come istruzione, il rischio che ci attende è la perdita della interrogazione filosofica, presi e catturati dalle app che pensando al nostro posto ci disabituano al pensiero (Spitzer, 2013; Benasayag, 2019).
    La questione filosofica è un tutt’uno con la domanda intorno all’accompagnamento educativo alla spiritualità: perché la fede non è rinuncia alla ragione, non ci ha mai chiesto la sua sospensione ma, anzi, è possibilità della sua moltiplicazione, della sua apertura oltre gli steccati dei pensieri fast, già-pronti.
    E lo sappiamo bene che la “fede-4-salti-in-padella” è la prima che si frantuma al cospetto della vita: e non occorre neppure arrivare a 30 anni, perché per molti già prima la Vita si presenta nuda.
    La fede che diventa un tutt’uno con l’identità è quella che tiene sempre fissa e viva la Grande Domanda ed è proprio non sentendola mai completamente raggiunta che sperimenta la giovinezza e la giovinezza che perdura: perché perdura la ricerca, continua la spinta, non si arresta il cimento (cfr. Morin, 2015; Goleman & Senge, 2017).

    Il gusto e la sua perdita

    Eh no, i giovani non sono solo creature di festa: quella, semmai, è la versione maniacale della psiche che alterna disperazione a eccitazione (cfr. Recalcati, 2011, 2014, 2016) e che vive travolta, senza stella.
    Facciamo un grande torto alla giovinezza se la intendiamo solo come festante: così la riduciamo a una edulcorazione forse necessaria solo al nostro amarcord, così le togliamo quanto di responsabilità e compito già le appartiene, le è proprio, la contraddistingue come capacità e coraggio di fronteggiamento del bosco, della notte, del drago.
    La cura della spiritualità giovanile richiede, perché sia credibile e possibile la narrazione di una vita da gustare, che si racconti con onestà l’attraversamento della perdita di gusto, l’onestà del metterci e mettere al cospetto della durezza, non solo della tenerezza, delle storie, della storia: la storia autentica, quella biografica personale e quella biografica universale, quella che intreccia il destino proprio al destino del mondo, e dunque la domanda filosofica, la questione antropologica, l’interrogazione escatologica.
    E se tornassimo a proporre ai giovani di studiare?
    Dopo decenni in cui abbiamo cercato mirabolanti tecniche e giochi per non farli stancare, strabilianti attivazioni per poterli affascinare, adesso conviene fermarci a guardare, a guardarci: i giovani non hanno più né maestri né testimoni. Hanno influencer. Hanno totem da idolatrare in un sempre più veloce turn over. Anche la spiritualità “prêt-à-porter” finisce per essere consumata, anche il bisogno di senso finisce consumato (“mi mandi via whatspp quella preghiera, quel link, quella videoconferenza con quel prete figo o con quel professore-yeah ?!”).
    Già: oh, yeah.
    Così tutto si prende, si mastica e si lascia: talvolta stiamo con le esperienze pastorali come stiamo in relazione usa-e-getta con le gomme da masticare. E viviamo esperienze religiose eppure non spirituali.
    E anche le cose di Dio – le cose dell’anima, le domande sull’eterno, le questioni di senso intorno al vivere e morire – stanno nel carrello come gli ordini su Amazon: subito dopo aver cliccato “procedi all’ordine”, c’è di nuovo il vuoto. Come lattanti attaccati al seno materno: abbiamo solo bisogno di essere nutriti, il gusto unico è quello della presa, e l’unica forma della ricerca è la soddisfazione del bisogno.
    C’è sempre molto romanticismo attorno all’immagine del neonato che beve il latte materno eppure è una seduzione pericolosa: è buona e giusta da bambini, non può restare l’icona per descrivere l’identità umana, che è piena e ricca e feconda quando lascia andare la sola postura del prendere e si muove alla scoperta: del mondo, dell’altro, della Vita che, strabordante, non coincide soltanto con la terra comoda del seno materno.
    È senza cimento che il gusto del vivere si perde; si perde quando tutto è solo wow, yeah, adesso-subito-non farmi-aspettare, non-farmi-cimentare: gli studenti universitari preparano gli esami sugli estratti, sui riassunti, sulle slide, i professori sono tutor, supporter, motivatori personali, tutto deve essere facile e pronto e in grado di colmare.
    E se tornassimo a proporre ai giovani di faticare?

    Dal disincanto, l'amore

    Studio, fatica, cimento: tre declinazioni come tre radici identitarie a proposito dell’uomo e della donna che come ricercatori escono dalla propria terra, e così possono vivere con la passione non soltanto emotiva ma pienamente esistenziale, la passione dell’esplorare, dello sperimentare, del compartecipare alla creazione del mondo (cfr. ChV 144-149).
    Il nodo del nostro tempo sta certamente nella assurdità di questa proposta, nel suo essere ora più che mai utopica perché inattuale: proprio adesso che tutto muove verso il fast-thinking (Kahneman, 2012), quel processo di pensiero rapido che ci toglie la libertà di pensare, quel processo di pensiero surrogato che ci fa leggere spediti un post e non ci fa leggere fino alla fine un articolo e ormai neppure un messaggio su whatsapp quando è lungo più di sei righe.
    Ma in fondo a noi il Vangelo non ha mai chiesto di essere alla moda.
    Imparare i linguaggi dei giovani non vuol dire applicare alle nostre progettazioni la stessa logica del risvoltino ai pantaloni, perché anche mentre tutto cambia c’è un quid umano che resta, immutato resta e chiede custodia: è giovane non la spiritualità che si sciorina via app, è giovane la spiritualità di chi si lancia, si slancia, si cimenta come Abramo nell’uscita dalla propria terra, è giovane la spiritualità di chi, scoprendosi amato da Dio, da innamorato sta in esplorazione. In domanda, acuta domanda, ricerca, interrogazione.
    E allora forse abbiamo bisogno di re-imparare.
    Re-imparare a pensare il fare. E a pensare il pensare (cfr. Striano, 2000, 2001; Mortari, 2002, 2005; Mezirow, 2003; Siegel, 2010; Formenti, 2017).
    Re-imparare a leggere e ri-leggere: fermarci, dubitare della nostra prima veloce interpretazione, stare così in quell’apertura all’ignoto che è la sola precondizione della pienezza di vita.
    Re-imparare a imparare, a cercare un maestro, ad accogliere le critiche non come fossero frecce, a benedire i no, a concepire che una attesa e un rallentamento non sono una maledizione.
    Re-imparare a raccontare/contagiare ai giovani la vita partendo dal limite, da ciò che non è wow, e dalla morte. Perché vale per noi quello che Magris tempo fa scriveva a proposito di letteratura, vale per noi e per ogni discorso in educazione e pastorale:

    “Solo una letteratura capace di confrontarsi senza compiacimenti e senza riguardi con l’immane potenziale del negativo insito nella vita e nella storia può esprimere l’ardua bontà; sono Les liaisons dangereuses e non i romanzi sentimentali a narrare l’intensità, lo smarrimento e anche la tenerezza dell’amore.
    Le parole “bontà” e “buono” non stonano in bocca a Dostoevskij, proprio perché egli si è immerso senza remore nel fango che scorre nelle nostre vene, come un messia che risorge ma prima muore e scende davvero all’inferno; Bernanos può trovare la grazia perché non nobilita con sentimenti concilianti la dolente tenebra”.

    E Magris ancora, poco oltre nella stessa pagina e poi in quella successiva, ha il coraggio della correlazione tra lutto e festa, fatica e giovinezza:

    “L’amore implica il disincanto e la capacità di fissare il nulla.
    Quanta più vita un libro è capace di contenere, tanta più voce esso dà non solo alla seduzione, alla sua continuità, ma anche, contemporaneamente, alle sue crepe, ai suosi inganni, alla sua indifferenza (…).
    Ogni vero libro si misura con la demonicità della vita; anche il Vangelo è terribile, perché constata che a chi ha viene dato e a chi non ha viene tolto anche quel poco che ha.
    In questa capacità di scrutare verità anche intollerabili c’è una bontà più grande di ogni conciliante bonomia, la disponibilità a scendere sino in fondo, con impavida e sconsolata pietà, nel nostro buio” (Magris, 2016, pp. 41,42).

    Re-imparare, re-insegnare: a intraprendere il viaggio nella selva oscura.
    Abitare la storia del mondo e la storia del proprio spazio/tempo interno, sentire il dolore del proprio cuore e insieme il dolore del cuore della comunità come spinta al viaggio, alla bellezza della intraprendenza verso la co-costruzione di un destino buono comune (cfr. Benasayag & Del Rey, 2016): questioni di passione, di storia, di antropologia, di filosofia, di escatologia. Questioni di spazio e di tempo interiori ed esteriori, al crocevia tra intimità e politica, concavo e convesso: questioni di coscienza.

    Gratitudine, contemplazione: pratiche di rottura, slow thinking, incarnata poesia

    Coscienza: posizionamento nella vita che coincide con la congiunzione, con la giuntura, con la connessione tra piccolo e gigantesco, quotidiano ed eterno. La coscienza è studio, lavoro, attraversamento, celebrazione: tutti i moti della contemplazione.
    E però anche quest’ultima è una parola assai antica, e per taluni per questo assai poco giovanile.
    Eppure sta tutto qui il senso che è eterno in ogni biografia di chi è mosso e in ricerca: la coscienza ha a che fare col fermarsi, fermarsi a guardare, insieme radicarsi e slanciarsi, è slow thinking (Kahneman, 2012) e dunque contemplazione, necessaria sosta per la spinta, necessaria pausa per lo scatto del salto, necessaria notte nella ritmica della festa.
    E la contemplazione ha a che fare col lasciare andare la postura arrogante dello sbattere i piedi per avere qualcosa che “ci spetta”, come se Dio e la vita fossero un distributore di beni e servizi, e guadagnarsi, proprio faticando, il moto interiore della gratitudine. Il moto: perché non è statica ma è mobile la gratitudine, e per questo è giovane e conosce l’incanto, la meraviglia non come irretimento ma come incarnazione, radicamento, piena adesione alla convocazione a stare vegli, pensanti, mossi, amanti della storia, propria e del mondo.
    Gratitudine come mossa interiore che non cede al gioco del consumo e non arriva dopo ma parte prima: prima di vedere ottenuto quello che vorremmo, che la fede non è computo né idolatria del risultato, ma sguardo aperto a quello che è, che c’è, che può essere, anche quando non totalmente comprendiamo, sappiamo, vediamo.
    Gratitudine contemplativa, contemplazione grata... e per questa giovanile postura progettare eventi di formazione con antichi impasti tra storia, antropologia, filosofia, insieme a giardinaggio, idraulica, edilizia, “cose di fatica” straordinaria e quotidiana: esercizi spirituali, pratiche di silenzio, di studio, di lavoro e, come nella ritmica della vita monastica, ore di preghiera e ore di festa.
    Pratiche di cimento, pratiche di rottura, sì: che quello è lo spazio che dice dell’essere giovani, ovvero continuamente chiamati, rotti/spaccati/liberati dal comodo che nel nutrirti solo non ti sta amando ma ti sta togliendo possibilità di vita e di creatività/creazione.
    Pratiche epistemiche ed estetiche d’apertura all’imprevisto, laboratori di ricerca e straniamento/uscita da sé/missione, esercizi spirituali e pragmatici, poetici e politici movimenti interiori ed esteriori (cfr. Perticari, 1996; Riva, 2004; Rivoltella, 2011; Pasini, 2016; Formenti, 2017) appassionati di storia e di storie, di convocazioni e implicazioni.
    In questo interstizio, dove lavoro e generatività coincidono, si scoprono ulteriori coincidenze e così anche contemplazione e gratitudine si scoprono combaciare: chi è grato contempla, chi contempla è grato, e sta nella vita non computando entrate e uscite, lodi e critiche, pieni e vuoti, ma tutto accogliendo come fosse segno.
    Così, nel modo precipuo col quale Bobin (2019) descrive l’abitare poeticamente il mondo, specificando che la postura contemplativa/poetica “non è una decorazione (…), ma “è come mettere la mano sulla punta più sottile del reale”:

    “La contemplazione è ciò che minaccia maggiormente, e in modo stranissimo, il superpotere della tecnica. E per una ragione molto semplice: la tecnica apparentemente ci facilita la vita. Ma è un dogma che oggi la vita sia facilitata, per riprendere il pensiero di Gillas Dattas. Chi ha detto che la vita deve essere facile e comoda? È comodo amare? È comodo soffrire? Lo è sperare ?
    La tecnica ci allontana da queste cose, e fa espandere un'epidemia di irrealtà che invade silenziosamente il mondo (p. 31).

    La contemplazione, ciò che chiamiamo poesia, ne è proprio il contrario. È persino il contrario di ciò che intendiamo troppo spesso con la parola poesia. (…)
    Il reale è dal lato della poesia e la poesia è dal lato del reale.

    I contemplativi, chiunque essi siano, possono essere poeti conosciuti come tali, ma può esserlo anche un imbianchino che fischietta come un merlo in una stanza vuota, o una giovane donna che pensa a tutt'altro mentre stira la biancheria. Gli istanti di contemplazione sono istanti di grande tregua per il mondo poiché è in questi istanti che il reale non ha più paura di raggiungerci. Non c'è più nulla di rumoroso nei nostri cuori o nelle nostre teste. Le cose, gli animali, i fantasmi che sono molto reali, tutto ciò che è dell'ordine del vivente si avvicina a noi e viene a trovare il suo nome, viene a mendicare il suo nome (p. 33).

    Abitare poeticamente il mondo sarebbe forse prima di tutto guardare pacificamente, senza l'intenzione di prendere, senza cercare una consolazione, senza cercare nulla. (...).
    E penso che in quel momento qualcosa del mondo si apra come una mandorla” (p. 35).

    Passare dal consumare la vita al tenerla tutta intera, integra, piena: questioni di passione, storia, filosofia, antropologia, escatologia, poesia.
    Proviamo a re-imparare a progettare la cura della spiritualità giovanile cominciando dalla fine, ovvero dall’inizio: dalla morte, dalla vita.

    Bibliografia

    Benasayag M.(2019). Funzionare o esistere? Milano: Vita e Pensiero.
    Benasayag M., & Del Rey, A. (2016). Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa. Milano: Feltrinelli.
    Bobin, C. (2019). Abitare poeticamente il mondo. Otranto: Anima Mundi.
    Contini, M.G., Fabbri, M., Manuzzi, P. (2006). Non di solo cervello. Educare alle connessioni mente-corpo-significati-contesti. Milano: Raffaello Cortina.
    Formenti, L. (2017). Narrazione e trasformazione. Un modello complesso. Milano: Raffaello Cortina.
    Goleman, D., & Senge, P. (2017). A scuola di futuro. Milano: BUR.
    Kahneman, D. (2012). Pensieri lenti. Pensieri veloci. Milano: Mondadori.
    Magris C., Utopia e disincanto, Garzanti, Milano 2001.
    Mezirow, J. (2003). Apprendimento e trasformazione. Milano: Raffaello Cortina.
    Morin, E. (2015). Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione. Milano: Raffaello Cortina.
    Morin, E. (2018). Conoscenza Ignoranza Mistero. Milano: Raffaello Cortina.
    Mortari, L. (2002). Aver cura della vita della mente. Firenze: La Nuova Italia.
    Mortari, L. (2005). Apprendere dall’esperienza. Roma: Carocci.
    Panksepp, J. (2014). Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane. Milano: Raffaello Cortina.
    Pasini, B. (Ed). (2016). Palpitare di menti. Il laboratorio formativo: stili, metafore, epistemologie. Santarcangelo: Apogeo
    Perticari, P. (1996). Attesi imprevisti. Milano: Bollati Boringhieri.
    Recalcati, M. (2011). Elogio del fallimento. Trento: Erickson.
    Recalcati, M. (2014). Il complesso di Telemaco. Milano: Feltrinelli.
    Recalcati M. (2016). Se la morte non è un abisso da vincere. Repubblica, ottobre 2016.
    Riva, M.G. (2004). Il lavoro pedagogico come ricerca di significati e ascolto delle emozioni. Milano: Guerini Scientifica.
    Scardicchio, A.C. (2020). Il futuro è una questione coscienza, SIR, maggio 2020
    Siegel, D. (2010). Mindsight. Milano: Raffaello Cortina.
    Spitzer, M. (2013). Demenza digitale. Milano: Corbaccio.
    Striano, M. (2000). Educare al pensare. Percorsi e prospettive. Lecce: Pensa Multimedia.
    Striano, M. (2001). La “razionalità riflessiva” nell’agire educativo. Napoli: Liguori.
    Zambrano, M. (1996). Verso un sapere dell’anima. Milano: Raffaello Cortina.


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