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    Mondo giovanile ed esperienza liturgica. Un tentativo di "status quaestionis"



    Manuel Belli

    (NPG 2019-02-12)


     

    La Riforma Liturgica e il mondo giovanile hanno un legame, almeno nelle origini e nelle intenzioni di chi ha animato il Movimento Liturgico. Circa Romano Guardini infatti è noto che «fra le attività che fiancheggiarono l'impegno accademico la principale fu quella svolta nel castello di Rothenfels sul Meno, che divenne un vero simbolo per la gioventù a lui contemporanea. […] In questo ambiente Guardini elaborò le esperienze liturgiche che confluirono nelle novità accolte dal Vaticano II».[1] I Padri del Concilio Vaticano II hanno rivolto ai giovani il celebre messaggio: «È per voi giovani, per voi soprattutto, che essa con il suo Concilio ha acceso una luce, quella che rischiara l'avvenire, il vostro avvenire».

    Tuttavia i nostri problemi di pastorale liturgica giovanile solo parzialmente si identificano con quelli di Guardini e dei Padri conciliari, per quanto le loro proposte siano valide intuizioni anche per le nostre questioni. Per Guardini il problema è «come un culto si svuota di significato, a forza di intellettualizzarsi»[2]. Per la nostra attuale situazione pastorale questo è uno dei problemi, di frequente ci troviamo a fronteggiarne uno ancora più basilare: non solo il culto si svuota di significato, bensì le celebrazione si svuotano dai più giovani partecipanti. E così ereditiamo un problema guardiniano di risignificazione cultuale (tutt’altro che risolto), e assieme un problema post-moderno dell’assenza di persone con cui risignificare il culto. È indispensabile oggi provare a comprendere chi siano i giovani protagonisti di una pastorale liturgica: quantitativamente e qualitativamente non sono più i giovani del castello di Rothenfels di Guardini. Per questa ragione è importante fare tesoro del mandato conciliare e delle istanze del Movimento Liturgico per andare verso nuove interrogazioni di cosa significhi oggi “formazione liturgica”.

    Quanti vengono in chiesa?

    Le statistiche ci offrono alcuni dati quantitativi che ci introducono nel problema. Nell’ultimo Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica emergono questi dati:

    La frequenza ai riti conferma la distanza dei giovani dall’esperienza religiosa: coloro che dichiarano di frequentare la chiesa una volta a settimana sono l’11,7%. Il 53,8% è costituito da frequentatori occasionali: il 20,2% partecipa a una funzione religiosa qualche volta l’anno oppure in particolari circostanze. Il 25,1% non vi partecipa mai.[3]

    Una ricerca condotta dagli Oratori delle Diocesi Lombarde datata al 2012 ci aiuta a comprendere non solo il dato assoluto, ma anche l’andamento degli ultimi anni:

    A fronte di una relativa stabilità della quota di giovani che definiamo «cattolici impegnati attivamente in organizzazioni religiose» (dunque coloro che partecipano attivamente alle funzioni religiose e praticano attività volontaria nelle parrocchie e nei movimenti cattolici, che passano dal 10,7 all’8,7%) e di «praticanti assidui» (quanti partecipano regolarmente alle funzioni religiose pur non essendo attivi in organizzazioni religiose), che passano dal 14 al 12,3%, le rilevazioni condotte dall’Ipsos stimano in quasi 10 punti percentuali nel corso degli ultimi sei anni la crescita della quota di giovani «non credenti» (quanti cioè dichiarano apertamente il loro totale distacco dalla fede cattolica, che passano dal 18,2% al 27,6%). Anche la fascia dei «non praticanti» (quanti non prendono mai parte a funzioni religiose, pur definendosi credenti) resta sostanzialmente invariata (dal 12,5% al 12,8%), mentre calano vistosamente i «praticanti saltuari» (scesi dal 42,1 al 35%).[4]

    La ricerca è datata, ma il trend è ben delineato e non sembra destinato a cambiamenti negli anni prossimi. Se confrontiamo la ricerca degli Oratori Lombardi con i dati del Rapporto giovani, il numero dei praticanti saltuari è in una riduzione drastica: dal 35% del 2012 siamo passati al 20% del 2017. Non è facile interpretare il dato, ma questo significa che è in netta diminuzione una frequenza al culto “a Natale e Pasqua” per questioni di identità culturali: solo 3 italiani su 10, nella fascia giovanile, pensano che in questi momenti identitari per i cattolici possa avere senso partecipare all’eucaristia.

    Il Rapporto Giovani del 2018 riporta un dato molto significativo: i giovani italiani tra i 20 e 30 anni che si ritengono cattolici sono il 52%. Ma tra di loro solo 1 su 5 partecipa all’eucaristia. La domanda se parliamo di “tanti” o “pochi” è ambigua. In un fortunato e graffiante volume di recente pubblicazione, un sacerdote tedesco offre questo pensiero:

    Nel piano pastorale di una diocesi ho letto che le persone avrebbero abbandonato la parrocchia tradizionale, che oggi entrerebbero in contatto con la chiesa in un modo diverso e in luoghi diversi, per esempio attraverso le scuole o le case di formazione e che per molti un luogo di incontro sarebbe anche la celebrazione eucaristica domenicale. La partecipazione dei cattolici all’eucaristia scende sotto il 10% e tuttavia i responsabili continuano a scrivere che “per molti” un luogo di incontro con la chiesa sarebbe proprio la celebrazione eucaristica domenicale. Allora a partire da quale numero oseremo parlare di “poco”? Dobbiamo scendere ancora fino al per mille?[5]

    Le tinte non sono certamente pastello, ma una presa d’atto è doverosa: i giovani che partecipano alla liturgia sono una strettissima minoranza della popolazione in termini assoluti, e una stretta minoranza tra i cattolici. Sono inoltre sempre di più i giovani che non disdegnano di dirsi cattolici, ma che non hanno più alcuna esperienza dei riti cristiani, nemmeno saltuaria. Anche il sacramento della riconciliazione mostra la stessa tendenza: tra i 18 e i 29 anni solo il 20% dei giovani cattolici si confessa almeno una volta all’anno e il trend è in costante e rapida diminuzione (dimezzamento della percentuale in meno di 10 anni)[6]. Se diamo un’occhiata alla situazione mondiale, l’Italia è davvero una felice eccezione: secondo una ricerca dell’Università di Georgetown, negli Stati Uniti il 45% degli adulti che fa la comunione non si è mai confessata dopo la cresima[7].

    Giovani e riti in alcuni ritratti

    I numeri dunque pongono un problema, ma è possibile andare oltre i numeri? Non mancano ricerche rigorose di carattere qualitativo circa il mondo giovanile, da cui è possibile desumere alcune indicazioni sul rapporto tra i giovani e la liturgia. Non siamo a conoscenza di lavori monografici sul tema: di recente ci sono numerose pubblicazioni che trattano il rapporto tra i giovani e la fede, anche se non immediatamente il rapporto giovani e liturgia. Proponiamo di raccogliere alcune indicazioni individuando tre tipologie di giovane: il giovane “assiduo” alle liturgie, il praticante “saltuario” e il “distante”. Il rischio che è necessario correre è quello di stereotipare, ma le ricerche offrono sufficienti sfumature.

    I distanti. Sono passati ormai una decina di anni dalla prima fortunata edizione di La prima generazione incredula di A. Matteo. Il ritratto che egli fornisce dei giovani ha conosciuto un certo consenso: «Gli uomini e le donne del nostro tempo […] non avvertono più la “convenienza” della parola del giovane rabbino di Nazareth per una vita bella e degna di essere detta umana: hanno semplicemente imparato a cavarsela senza Dio e senza Chiesa»[8]. In una condivisione di fondo della proposta di Matteo, sono numerosi gli interventi che cercano di precisare la questione. F. Garelli, in una batteria di interviste, ha proposto ai giovani di reagire di fronte al fatto se si sentano o meno la prima generazione incredula, e le risposte sono sorprendenti: «A questa idea si contrappone la convinzione che, come sostiene un intervistato che si definisce “cattolico praticante”, “la categoria dei giovani non è uniformemente incredula ma ci sono diverse sfumature”; sembrerebbe dunque più ragionevole pensare che l’incredulità riguardi soltanto una quota dei giovani, peraltro non necessariamente maggioritaria»[9].
    Le definizioni si fanno più sfumate: il non riconoscersi cattolici non significa non essere credenti, e l’essere cattolico non significa necessariamente riconoscersi nella dottrina della chiesa. Non è facilissimo indicare alcuni nuclei dell’appartenenza credente. In una recente ricerca qualitativa condotta su un campione di giovani bergamaschi da parte della Diocesi e dell’Università di Bergamo, i ricercatori descrivono così il rapporto tra i giovani intervistati e la fede: «Traspare che nelle storie dei giovani, la spiritualità (che qualcuno chiama anche fede) è spesso un fatto privato e che di sicuro non ha un linguaggio comune»[10].
    Individuiamo così una categoria di giovani che non vive un’opposizione rispetto alla chiesa e alla sua fede: la guarda a distanza, tra un’atavica diffidenza e una pacifica presa di distanza. Per questa tipologia giovanile la messa rappresenta il momento per antonomasia nella pratica della religione cattolica, e appartiene a un indiscriminato insieme di dogmi, precetti morali, pratiche cultuali e doveri da cui pacificamente essi prendono le distanze. Tuttavia le distanze non sono mai così nette, almeno per una buona maggioranza di loro: «Sono giovani che rinunciano volentieri a giudicarsi a vicenda. Invocano piuttosto la tolleranza ed esigono il rispetto delle proprie idee e di quelle altrui, fanno fatica ad assegnare a qualunque sistema di norme un primato definitivo sugli altri»[11].
    La situazione è piuttosto spiazzante, e in una recente inchiesta fatta sugli educatori alla fede di giovani, gli intervistati presbiteri non celano la difficoltà a comprendere una condizione così complessa: «Lo spiazzamento dei preti di fronte a questo non sopportare più, da parte dei giovani, di vivere una pratica sacramentale che né li convince né li coinvolge è forse soltanto un aspetto di un problema ancora più ampio, che riguarda il rapporto tra la comunità cristiana, i preti e la cultura oggi emergente»[12].
    Insomma: per secoli abbiamo creato un trinomio che sembrava quasi indistruttibile tra “essere credente” - “essere cattolico” - “andare a messa la domenica”. Normalmente il venir meno di uno dei tre poli significava automaticamente la caduta dell’impianto, con una eccezione costituita dal “cattolico non praticante”, che tuttavia almeno nelle festività principali riconosceva una certa pertinenza alla pratica dei riti e si riconosceva in alcuni principi etici. Oggi, come abbiamo visto, i cattolici non praticanti stanno praticamente scomparendo e la domanda circa i fattori di un’appartenenza ecclesiale diventa a tratti di difficile se non impossibile soluzione. I riti dei cristiani e ogni aspetto normativo della fede sembrano non interessare una larghissima fetta di giovani, ma questa presa di distanza non significa necessariamente un rifiuto in blocco della fede.
    E non significa un’assenza di ritualità. Nella già citata ricerca qualitativa sui giovani bergamaschi, i ricercatori hanno classificato nove tipologie di giovane contemporaneo, ed è interessante notare come ciascuna abbia sviluppato le proprie forme di ritualità. Ad esempio, una prima tipologia è lo “spettatore”, colui che vive la vita in un perenne assaggio di esperienze non impegnative: a questa tipologia di giovani «piace andare ai concerti d’estate, quando le band suonano all’aperto, nei festival dove non paghi il biglietto, dove ti porti il plaid, stai con qualche amico, balli, e nessuno ti chiede niente»[13]. Parliamo di una celebrazione dei legami non impegnativi, di una ritualità collettiva che permetta spazi di anonimato ricercato e desiderato. Un’altra interessante tipologia descritta è quella del flaneur, il giovane che può contare su un medio/alto tenore di vita e che imposta l’esistenza nella ricerca di una vita sociale in cui “non sentirsi uno del popolo”: il flaneur «anche nel riposo deve essere al “top”: prende lo smartphone e comincia a chiamare gente. […] Musica, chiacchiere, risate, eleganza, sfoggio di abbronzature, muscoli palestrati, abiti firmati e carte di credito. Poi accade una cosa strana. È notte, i ragazzi e le ragazze a poco a poco se ne vanno, scompaiono con la stessa naturalezza con la quale si sono presentati. È tutto un sorriso, un “a presto”, uno scambio di baci a distanza e di ammiccamenti»[14].
    Non esiste identità senza delle forme rituali di affermazione, e così i vari tipi di giovani “distanti” dalla liturgia cristiana “celebrano” la vita con i linguaggi che gli sono più propri. Ma tra i riti dei cristiani e le nuove liturgie laiche giovanili quali nessi ci sono? Forse nessuno. E qui iniziano dei problemi, almeno in una logica di possibile evangelizzazione. Ci sono sempre stati gli atei che non partecipavano ai riti della chiesa: don Camillo e Peppone stigmatizzano una situazione basilare. Ma i riti di don Camillo e i riti di Peppone erano semplicemente due stili di segno opposto, chiaramente intelligibili gli uni per gli altri. I nuovi riti laici dei giovani sono semplicemente paralleli rispetto ai riti dei cristiani. Le due realtà sembrano non incrociarsi. Con il pericolo di una ritualità cristiana che si allontana dalla vita della maggior parte dei giovani, e di vite dei giovani che vivono forme rituali talvolta molto povere.
    Nel 2015 è uscito un film molto interessante, dal titolo Unlearning: un gentile invito alla disobbedienza. Si tratta di un documentario in cui una famiglia decide di partire per un viaggio in seguito ad un fatto curioso: la figlia a scuola ha disegnato un pollo con quattro zampe, convinta che fosse davvero così perché ha sempre visto le confezioni del supermercato con quattro cosce di pollo. La situazione è stimolante sotto diversi profili, non ultimo quello liturgico: cosa può saperne una bambina che disegna i polli con quattro zampe di “frutti della terra e del lavoro dell’uomo”? Semplicemente lo stile di vita di questa bambina (che diventerà giovane) e la liturgia non possono parlarsi.

    Non i può proporre alcun processo di evangelizzazione senza una seria disamina dei riti dei “distanti”; il pericolo è che siano riti indiscriminati e poco generativi e che «quella attuale non sia un’epoca propizia al desiderio e che occorra innanzitutto occuparsi della sopravvivenza. […] Ma è una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro»[15]. Un discernimento sui riti giovanili è esigito dalla carità pastorale (pensiamo a quelli che si consumano su uno schermo): ci possono essere anche riti tristi da convertire. Nel processo di revisione rituale, i riti religiosi non possono rimanere a margine: si possono innescare processi celebrativi e formazione liturgica affinché davvero la ritualità cristiana possa essere “fonte e culmine”?

    I saltuari. Ci sono dei giovani che non mancano di celebrare qualche volta con la comunità dei cristiani, e vi ritrovano elementi interessanti. Ma assieme si incontrano con simboliche che non riescono a integrare e comprendere.
    In una intervista, una ragazza che appartiene all’Agesci e ha un contatto poco costante con la ritualità cristiana, si esprime in questi termini:

    Dovete sapere che anche il mio Dio è sempre con me, perché è praticamente la mia coscienza, non sono religiosa, ma ho una spiritualità mia, che non si discosta molto da quella cristiana. Dovete sapere che la chiesa non mi piace perché pone dei fiori recisi accanto a Cristo su un altare, e non Cristo accanto ai fiori che crescono sulla terra! Se tutto il mondo è la casa di Dio, allora perché dovremmo costruirgliene un’altra noi?[16]

    La testimonianza può sembrare semplice e addirittura bizzarra, ma in realtà il problema evocato è serio: siamo di fronte a una ragazza che non disdegna di dirsi credente, che trova una forte affinità con quella che lei considera la fede della chiesa, ma che non riesce a comprendere la simbolica dei riti accostata alle sue convinzioni personali. Una pianeta dorata, un apparato floreale significativo, un calice dorato, il fumo dell’incenso e un canto polifonico sono il linguaggio del “solenne” mediamente condiviso nelle parrocchie. Ma quale intelligibilità per un giovane frequentatore saltuario delle nostre celebrazioni? L’intervista mostra che non è remoto il rischio di non comprendersi, e non si tratta di incomprensioni di natura dogmatica, ma dei linguaggi rituali.
    Senza alcuna pretesa di completezza, ci sono forse alcuni stili celebrativi su cui discernere: sono biglietti da visita di una chiesa interessante o timbro di uscita sul passaporto di una chiesa da cui meglio prendere le distanze il più possibile?
    Abbiamo già citato la simbolica del “solenne”. Parleremo più avanti dei giovani assidui partecipatori della liturgia, per cui potrebbero servire altri pensieri: qui ci atteniamo a qualche ipotesi sui frequentatori saltuari della liturgia. La polifonia, l’oro e l’incenso sono codici intelligibili? Non è facile una risposta: non è da escludere che un giovane possa rimanere positivamente colpito da una celebrazione che evochi il tradizionale linguaggio del sacro e del solenne. Con buona approssimazione però parleremmo di una minoranza, perché dalle interviste qualitative consultate emerge con nitidezza che i giovani faticano ad accostare al messaggio cristiano “l’oro”, che anzi respirano come contraddizione: «È convinzione diffusa del mondo giovanile che la chiesa sia troppo statica, quasi fuori dal tempo e che invece, se vuole ancora essere significativa, debba innanzitutto cambiare linguaggio, renderlo meno formale, meno dottrinale e astratto. [Un giovane intervistato sostiene che] “la chiesa parla in maniera un po’ antica, parla in maniera un po’ troppo solenne, un po’ troppo ritualistica, in maniera troppo edulcorata, invece i giovani non hanno bisogno di questo»[17].
    Almeno dal 2000 una simbolica che è sembrata più adatta ad invitare i giovani saltuari ad una appartenenza ecclesiale più solida è stata quella dei grandi eventi. Le Giornate Mondiali della Gioventù hanno fornito musiche, suppellettili e stili celebrativi anche per le realtà parrocchiali. E non poche risorse pastorali si muovono attorno a questi eventi. Tuttavia in uno studio pubblicato nel 2002 sul notiziario del Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile diversi sacerdoti hanno evidenziato qualche chiaroscurità: «La GMG diviene così assimilabile ad “esperienze forti” tipicamente laiche, come quella della partita di calcio allo stadio o del concerto, esperienze che sicuramente producono una “effervescenza collettiva” che poi però svanisce in breve tempo senza lasciare tracce significative nella vita del soggetto»[18]. Il problema però è più profondo rispetto ad una osservazione minimale secondo la quale il grande evento rischierebbe di lasciare il tempo che trova. Lo esprime bene don Michele Falabretti, direttore del Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile:

    La critica più grande fatta ai grandi eventi è di mantenere un carattere episodico che non aiuta la crescita quotidiana della propria fede. Questa critica nasce dall’idea che si debbano pensare momenti come questi per sostenere, forse persino far rinascere l’esperienza della fede nel cuore dei giovani. […] Forse non abbiamo mai pensato alla GMG come a un grande momento dove l’ordinario viene in qualche modo rappresentato e, se possibile, celebrato. Dove – nella categoria dell’ordinario – vanno inserite anche le fragilità, le incertezze., i dubbi, le domande[19].

    Non mancano segnali che i giovani stanno lanciando per chiederci di ripensare le simboliche degli “uomini che ad alta quota insegnano a volare” (come si cantava alla GMG del 2000). Forse i giovani sono un po’ assuefatti da simboliche (e talvolta retoriche) della “novità sconvolgente del cristianesimo”, del cristiano come l’uomo felice e riuscito che fa cose grandi, della chiesa come umanità nuova e della fede come impegno per cambiare il mondo? Che sono tutte cose vere, ma non immediate per un giovane che ha di fronte a sé anni di precariato, un debito pubblico impronunciabile, famiglie fragili e istituzioni sempre meno credute (forse credibili). Forse i giovani chiedono meno eroicità e più “classe media della santità”. Fa pensare un fenomeno editoriale come quello di A. d’Avenia che ha riempito teatri di giovani e adolescenti presentando il suo libro L’arte di essere fragili. I giovani vivono un maggiore stress da scelta, le possibilità si moltiplicano, e con esse le possibilità di fallimento. Da questo punto di vista possiamo immaginare che vengano percepite come distanti le immagini semplificatorie di una gioia puramente entusiastica, appellando invece a una gioia meno spumeggiante ma di cui si possa vivere in tempi di complessità non semplificabile.

    Gli assidui. Infine non possiamo dimenticare che comunque un giovane italiano su 10 in chiesa ci viene tutte le settimane. Parliamo certo di minoranza, ma di una minoranza comunque significativa. Pur in un numero relativamente ristretto i modelli sono moltissimi. Tra di essi abbiamo una quota importante di giovani che possiamo chiamare “tradizionalisti”. Secondo un recente articolo che ritrae la crisi vocazionale francese, «in controtendenza sono invece le cosiddette comunità “tradizionaliste": durante quest’anno, uno su cinque, ossia il 20 per cento dei nuovi preti in Francia appartengono a queste comunità […] che inoltre possono contare su un notevole gruppo di sacerdoti giovani»[20].
    Accanto però a chi predilige la messa secondo il vecchio rito e una ortodossia da difendere contro ogni possibile ripensamento, dobbiamo contare tra gli assidui anche Sara che

    è una cristiana praticante. Convive da un anno con Luca: si amano e desidererebbero costruire una famiglia insieme, un giorno. Tra le sue passioni più grandi, i tatuaggi: ne ha una collezione su tutto il corpo! […] Ogni domenica va a messa, è un’esperta delle medicine alternative ayurvediche e proprio non riesce a capire perché non si debbano riconoscere i diritti civili dei gay. Dicono che è una questione morale complessa, ma cosa c’è di così difficile se due persone si amano?[21]

    Tra i tradizionalisti e Sara troviamo anche una discreta fetta di giovani intervistati che va a messa abitualmente ma che pensa che «non sia così rilevante: meglio un’azione in più a favore del prossimo»[22]. La galassia degli assidui è dunque davvero variegata e ricca di sfumature, più complesse rispetto ai casi che abbiamo appena stigmatizzato. Un dato tuttavia costante è il seguente: la grande maggioranza degli assidui vive anche altre forme di impegno sociale o ecclesiale. Il dato sembrerebbe interpretabile nella logica di una maggioranza sempre più ristretta, ma anche sempre più qualificata e motivata: chi partecipa ai riti sente che questo momento non può essere estemporaneo, ma si traduce in uno stile.
    Leggendo le pagine del recente documento post-sinodale, l’impressione che se ne ricava è che anche da parte dei giovani partecipanti ai riti venga una domanda di ripensamento: «In diversi contesti i giovani cattolici chiedono proposte di preghiera e momenti sacramentali capaci di intercettare la loro vita quotidiana, in una liturgia fresca, autentica e gioiosa» (n.51). Gli aggettivi utilizzati non sono di facile interpretazione e sembrano più evocativi che prescrittivi. Non abbiamo un modello unico di giovane cattolico che partecipa alla liturgia: il fatto che ci sia una minoranza di giovani che comunque partecipa assiduamente alla liturgia non deve essere occasione per semplificare il problema, e proprio le loro singolarità e le loro fragilità diventano spazi e luoghi di formazione liturgica. I giovani “assidui” continuano ad essere giovani del nostro tempo, in cui stiamo assistendo ad un cambio epocale. Ogni tipo di valore sta conoscendo un forte ripensamento, perché i valori non sono più tali in quanto garantiti da un’istituzione: «Tradizioni e regole non valgono di per sé, ma “se ne capisco il valore”, se sento che aumentano il mio benessere, se fanno parte coerente e arricchente del mio sviluppo personale»[23]. La situazione non è priva di rischi: «È arduo costruire un rapporto di fede dove il confine tra la dimensione del proprio sentire interiore e la realtà oggettiva di Dio è divenuto così labile»[24].
    Guardini, circa mezzo secolo fa, si esprimeva in questi termini:

    Nella liturgia il Lògos ha la preminenza, che gli spetta, sulla volontà. Di qui la sua mirabile placidità, la sua calma profonda. Di qui s’intende come [la liturgia] sembri totalmente risolversi in contemplazione, adorazione, esaltazione della verità divina. Di qui la sua apparente indifferenza alle piccole miserie quotidiane. Di qui la sua scarsa preoccupazione di «educare» immediatamente e di insegnare la virtù. La liturgia ha in sé qualcosa che fa pensare alle stelle, al loro corso eternamente uguale, alle loro leggi inviolabili, al loro fondo silenzio, all’ampiezza infinita in cui si trovano. Sembra, però, soltanto che la liturgia si preoccupi così poco delle azioni e delle aspirazioni, e della condizione morale degli uomini. Poiché in realtà essa sa assai bene provvedervi: chi infatti vive realmente in essa, si assicura la verità, la santità e la pace nell’intimo dell’essere[25].

    Il testo è molto suggestivo, ma attuale? Forse per qualcuno, ma per la maggior parte dei giovani una realtà che non sia in grado di mostrare la sua “preoccupazione di educare immediatamente” e che appaia come “indifferente alle piccole miserie quotidiane” non è intelligibile. Non lo è per il distante, che non rifiuta di parlare di fede qualora essa gli risulti esistenzialmente interessante. Non lo è per il saltuario che non ha il tempo di “pensare alle stelle” (e tra saltuari e distanti, ricordiamo, parliamo del 90% dei giovani italiani). Ma non lo è nemmeno per gli assidui, in cui abbiamo giovani “tradizionalisti”, giovani come Sara e giovani impegnati ma che non hanno la liturgia al culmine dei loro pensieri.
    Secondo Guardini la formazione liturgica non sussiste nella trasmissione di nozioni, ma nel far emergere l’autentico che risiede nell’esistere umano: «L’uomo ha bisogno della liturgia per essere se stesso perché essa gli offre un’esperienza simbolica; parimenti la liturgia esige un uomo con capacità simbolica per essere “agita” e compresa autenticamente»[26]. Quando Guardini ipotizzava questo concetto aveva in mente un numero importante di giovani cattolici desiderosi di ricostruire l’Europa dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale; non ipotizzava la complessità dei giovani che noi conosciamo, e ignorava il numero tutto sommato esiguo di chi sarebbe andato in chiesa.
    Fare oggi formazione liturgica significa attivare alcuni processi per un giovane su dieci e lasciarsi interrogare dagli altri nove: sono questi i nuovi scenari per rendere feconde le intuizioni guardiniane.

     

    NOTE

    [1] G. Bormolini, Romani Guardini: I santi segni. Santificazione di spazio e tempo nella liturgia e nel tempio cristiano, in «Rivista di ascetica e mistica» 3 (2004) 481-511, qui 510.
    [2] H. Engelmann - F. Ferrier, Introduzione a Guardini, Queriniana, Brescia 1968, 147.
    [3] P. Bignardi, Fede e valori religiosi in Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2018, Il Mulino, Milano 2018, 118.
    [4] ODL, Giovani e fede. Identità, appartenenza e pratica religiosa dei 20-30enni, Litostampa, Bergamo 2013, 36
    [5] T. Frings, Così non posso più fare il parroco. Vi racconto perché, Ancora, Milano 2018, 108.
    [6] Cfr. A. Castegnaro, Fede e Libertà, Marcianus Press, Venezia 2007.
    [7] https://www.avvenire.it/agora/pagine/riconciliazione-
    [8] A. Matteo, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, ed. Rubettino, Soveria Mannelli 2010, 14.
    [9] F. Garelli, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, il Mulino, Bologna 2016, 171.
    [10] Aa. Vv., Young’s. Un viaggio nella realtà dei giovani 20-30enni bergamaschi, Gierre, Bergamo 2018, 22.
    [11] M. Maranzano, Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della chiesa in Italia, Feltrinelli, Milano 2012, 50.
    [12] R. Bichi – P. Bignardi (edd.), Il futuro della fede. Nell’educazione dei giovani la chiesa di domani, Vita e Pensiero, Milano 2018, 128-129.
    [13] Young’s, 72.
    [14] Young’s, 65.
    [15] M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005, 63.
    [16] S. Laffi (ed.), Quello che dovete sapere di me. La parola ai ragazzi, Feltrinelli, Milano 2016, 76-77.
    [17] R. Bichi – P. Bignardi (edd.), Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia, Vita e Pensiero, Milano 2015, 100.
    [18] R. Camoletto, La GMG e la pastorale giovanile ordinaria, in «Notiziario del Servizio Nazionale di Pastorale giovanile» 35 (2002), 90 – 108, qui 98.
    [19] M. Falabretti, Liturgia e spiritualità nei percorsi per giovani, in «Sacramentaria e Scienze religiose» 49 (2018) 93 – 110, qui 94.
    [20] A. Dall’Osto, Preti in Francia: crescono solo i tradizionalisti, http://www.settimananews.it/ministeri-carismi/preti-in-francia-crescono-solo-i-tradizionalisti/
    [21] Young’s, 118.
    [22] Dio a modo mio, 57.
    [23] La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2018, 123.
    [24] Dio a modo mio, XII.
    [25] R. Guardini, Lo Spirito della Liturgia, Morcelliana, Brescia 1930, 110.
    [26] G. Busani, I compiti del Movimento Liturgico secondo Guardini, in F. Brovelli (ed.), Liturgia: temi e autori. Saggi di studio sul Movimento Liturgico, CLV Edizioni Liturgiche, Roma 1990, 83-138, qui 102.


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
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    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


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    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
    Chiara e don Massimo


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca
    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


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    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


    Quello in cui crediamo
    Giovani e ricerca

    Rivista "Testimonianze"


    Universitari in ricerca
    Riflessioni e testimonianze FUCI


    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

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    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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