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    Magari fossi beato! La beatitudine come stato giovanile


    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2019-05-50)


    Felici i coraggiosi, coloro che accettano

    con animo uguale la sconfitta o la palma.
    Felici coloro che serbano nella memoria
    parole di Virgilio o di Cristo,
    perché daranno luce ai loro giorni.
    Felici gli amati e gli amanti
    e coloro che possono fare a meno dell’amore.
    Felici i felici
    (Jorge Luis Borges, Frammento di un Vangelo apocrifo)


    Beato.
    La parola risuona nelle nostre orecchie come nostalgia di un momento perfetto, di uno stato di felicità. “Beato te”: lo diciamo sempre ad altri, come se per noi la beatitudine non fosse attingibile. “Beato chi la conosce” affermiamo a proposito di una realtà che per noi è presente solo nel desiderio.
    Beato è un participio passato, dal verbo “beare”. L’origine del verbo è sconosciuta anche se lo iato /ea/ costringe la voce a fermarsi e quasi ad ammorbidirsi, a rallentare i ritmi suggerendo uno stato quasi da Nirvana, una felicità fuori dal tempo e dallo spazio. “Beata gioventù!” dice chi sente di invecchiare, ma si dice in senso polemico anche “beata ignoranza”, senza rendersi conto forse di seguire una tradizione di pensiero che risale fino a Nicola Cusano. La beatitudine è uno stato di felicità così totale da essere quasi contagiosa: lo afferma Petrarca: “Beata s’è, che può beare altrui Co la sua vista”.
    Il beato però non è solo “felice”, il significato non è statico ma dinamico, o perlomeno lo stato di beatitudine giunge al termine di un’azione che non è solo del beato stesso: il beato è “fatto felice” da Dio. La beatitudine è la contraddizione di uno stato passivo che è più positivo di qualunque possibile attività.
    Il termine greco “Makarios” accentua ancora di più l’aspetto ottativo e desiderante del termine: da questa parola deriva l’espressione “magari!”, tipico modo di riferirsi a uno stato desiderato. Il beato è dunque tale nel presente o nel futuro? Sembrano esservi pochi dubbi sul fatto che chi è beato non ha ragione di dirlo (e forse non lo sa? In questo senso l’ignoranza è davvero beata?      “Quel giorno non mi domanderete più niente”[1]); semmai sono altri che lo nominano come tale, beati si è detti da altri. Beati si può solo sperare di esserlo, e agire in modo da avvicinarsi all’asintoto della beatitudine; che sempre asintotica resta, perché il salto che essa richiede porta in un’altra dimensione, alla quale possiamo solo accennare, da qui e da ora. “Nessuno che sia felice può sapere di esserlo. Per vedere la felicità, dovrebbe uscirne: e sarebbe come chi è già nato. Chi dice di essere felice mente, in quanto evoca la felicità, e pecca contro di essa. Fedele alla felicità è solo chi dice di essere stato felice. Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine: ed è ciò che costituisce la sua dignità incomparabile”[2].
    Il termine makarios designa una felicità come liberazione dalle pene, una felicità non necessariamente legata al possesso di qualcosa o a una ricchezza meramente materiale: la beatitudine è un essere e un poter-essere, non un avere. Prova ne sia il fatto che anche i defunti possono essere makarios (cfr. le isole dei beati già in Esiodo). Il macarismo non indica la via da seguire per conseguire la felicità, ma constata e proclama la felicità: si proclamano beati colo che fin d’ora sono chiamati a godere la gioia del regno: una felicità presente motivata dalla promessa della felicità escatologica
    In questo senso proprio i giovani, proiettati in un futuro che possono solo intravvedere, hanno la possibilità di cogliere tutta la promessa della beatitudine. I giovani sono beati perché piccoli, nipioi, e dunque puri di cuore: non c’è merito da acquisire ma uno stato di grazia per il quale innalzare inni di lode. Beati noi che siamo giovani, dunque.
    Ciò vale per l’aspetto sociale della beatitudine, a partire da quella sulla povertà. Come afferma Dupont[3] il semita è sensibile alla dimensione sociale: per noi il povero è chi ha poco, per i giudei è un uomo senza difesa contro i violenti e si appella a Dio come unico giudice. Il povero è anì: la parola deriva da una etimologia che significa “essere curvo”, ciò che cede, che viene abbassato a forza, più che un povero di fronte a un ricco è un oppresso di fronte agli oppressori; non si tratta dei mendicanti ma degli oppressi. Oppure è anaw: usato solo al plurale, anawim; un termine che ha la stessa radice del precedente anche se tende ad avere un significato maggiormente religioso; a volte però ha anche una declinazione sociologica; anche qui non si tratta dei mendicanti. Ancora, il povero è ebyon, termine che compare solo verso il IX secolo, quando si sviluppa una civiltà urbana; è colui che desidera, che domanda, che manca di qualcosa. Non chiede elemosina ma i suoi diritti. Dunque il povero è beato non perché è povero ma perché il suo mancare di qualcosa mette in moto una dinamica che porterà alla fine della povertà (quanti danni ha compiuto la confusione tra povertà, che è una condizione non scelta dall’uomo e non amata da YHWH, e sobrietà, che è uno stile di vita personalmente scelto e coerentemente portato avanti).
    Tutto quanto scritto è ancora più vero per quanto riguarda gli afflitti: in greco come in latino ci si riferisce a un lutto che prende tutta la persona, trabocca violentemente all’esterno. In ebraico si può dire abal (un dolore che viene espresso con segni che lo manifestano; è l’afflizione dei giusti che si muterà in gioia nel giorno del Signore; non è mai una semplice tristezza interiore) o, se ci si riferisce agli affamati raeb (legato alla carestia, colui che ha fame ma non ha di che nutrirsi, non solo manca loro il pane ma anche i mezzi per procurarselo).
    Dunque la pedagogia delle beatitudini nel loro aspetto sociale richiede che, a partire dalla constatazione della beatitudine che attende le categorie degli esclusi e dei reietti, si agisca oggi, qui e ora, per eliminare le cause della loro povertà. In nessun modo il linguaggio delle beatitudini può essere inteso come conferma o addirittura giustificazione teologica della povertà.
    A rendere ancora più chiaro questo aspetto è la beatitudine “beati gli operatori di pace”. Operare per la pace non è un modo di conquistarsi la beatitudine, come se si trattasse di una specie di investimento bancario: gli operatori di pace sono già beati perché non sanno di operare per la loro beatitudine. Nel loro darsi generosamente agli altri è implicito il senso di gioia e felicità totale che essi non cercano coscientemente e che non li aspetta come premio della loro azione, ma come suo compimento interno. Potremmo dire che essi non saranno beati perché sono stati operatori di pace, ma al contrario che sono operatori di pace in quanto beati, in quanto cioè realizzano qui e ora una porzione di beatitudine, ma non per se stessi bensì per gli altri.
    In questo senso la pedagogia della beatitudine è la pedagogia del già-e-non-ancora, lontana da ogni trappola deterministica legata alla predestinazione (men che meno alla doppia predestinazione) o peggio ancora ad ogni arrogante sicurezza che porta all’anomia (se sono già certo di essere beato, allora non faccio niente, o peggio ancora, tutto ciò che faccio è di per se stesso al di qua del bene e del male). Il beato opera da beato ma non sa di esserlo, fa il bene per fare il bene e non è costretto a fare il bene dal suo essere prescelto: e nella totale dedizione di sé anticipa qualcosa dell’assoluta felicità futura. Ma il beato non potrà essere beato se non lo saranno anche gli altri: in questo senso forse il povero Lazzaro che vede il ricco soffrire le pene dell’inferno ottiene giustizia ma non beatitudine.
    La pedagogia delle beatitudini chiede tutto e lo chiede per tutti, non come un diritto ma come un dono, e per questo chiede di far dono di sé. “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” non è una specie di partita doppia del perdono, ma semmai è un inno di lode alla straordinaria capacità di perdonare, che è nostra perché è di Dio, che noi possediamo perché partecipiamo in minima misura di quella divina: non perdoniamo per ottenere il perdono, ma perdoniamo perché esiste il perdono. La pedagogia delle beatitudini dunque è uno di quei concetti totalizzanti così presenti nella Bibbia, che accenna a un mondo totalmente redento, nel quale la gioia di uno si completa con la gioia di tutti.
    Questo è il senso del discorso di Piccarda Donati a Dante:

    “Frate, la nostra volontà quieta
    virtù di carità, che fa volerne
    sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
    Se disiassimo esser più superne,
    foran discordi li nostri disiri
    dal voler di colui che qui ne cerne;
    che vedrai non capere in questi giri,
    s’essere in carità è qui necesse,
    e se la sua natura ben rimiri.”[4]

    Chi è beato non invidia la beatitudine altrui, perché la beatitudine stessa non ha gradi, scale o gerarchie: un concetto pedagogicamente importantissimo soprattutto oggi a fronte di una pedagogia che si è fatta colonizzare dal sapere classificatorio, gerarchizzante e competitivo. Non si fa il bene per competere con gli altri, non c’è classificazione o catalogazione delle azioni buone, così come chi è beato non ha letteralmente lo spazio e il tempo per invidiare gli altri

    “Chiaro mi fu allor come ogne dove
    in cielo è paradiso, etsi la grazia
    del sommo ben d’un modo non vi piove”[5]

    La beatitudine dà a ciascuno secondo i suoi propri bisogni e desideri, va al di là della semplice retribuzione verso una pienezza di senso che noi possiamo solo intuire. “Un'altra parabola espose loro: «Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami». Un'altra parabola disse loro: «Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti»”[6].
    In questo inatteso, in questo sovrappiù, nello stupore di questa infinita abbondanza c’è la nostra speranza di poter essere un giorno davvero beati.

    NOTE 

    [1] Gv 16,20
    [2] Theodor W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, 1979, pag. 127
    [3] Faremo riferimento senza citarlo ogni volta a Jacques Dupont, Le beatitudini. Paoline, 1992
    [4] Dante Alighieri, Commedia. Paradiso, III, 70-78
    [5] Id. III, 88-90
    [6] Mt 13, 31-33


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