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    La pastorale dell'equilibrista



    Una Chiesa al servizio del lavoro giovanile

    Bruno Bignami *


    (NPG 2019-08-23)


    L’equilibrista

    «La mia Chiesa rimane ferma e crede di fare progressi; io rimango con un piede fermo in lei, perché mi sento questa Chiesa, e con l’altro tento di seguire la veloce corsa del mondo. Membra stiracchiate fra due forze, debbo ammettere di fare acrobazie, di slogarmi le membra come un pagliaccio, ma di rimanere fermo. E sotto il mio piede, il mondo gira; e sotto il mio piede, immerso in essa, la mia Chiesa sta ferma. Proprio come un pagliaccio che fatica a mantenersi in equilibrio sopra un rullo che gira velocemente» [1].

    L’immagine dell’equilibrista di don Luisito Bianchi, prete operaio e raffinato scrittore, descrive mirabilmente la fatica della Chiesa a farcela con il lavoro. Non tanto a livello teoretico, perché le riflessioni magisteriali non mancano. A partire dalla Laborem exercens di Giovanni Paolo II passando per la Caritas in veritate di Benedetto XVI fino alla Laudato Si’ di Francesco le luci ecclesiali sul lavoro si sono accese con competenza. Mai come oggi troviamo un serbatoio dottrinale colmo da cui attingere acqua pura!
    Eppure, proprio in questo contesto avvertiamo la difficoltà a far entrare il tema del lavoro nell’ambito pastorale. Si può azzardare, quasi senza smentita, che della vita di giovani e adulti interessa quasi tutto (scelte religiose, socio-politiche, affettive, familiari...) mentre appare del tutto irrilevante nell’andamento ordinario della pastorale il lavoro (o non lavoro) delle persone. Invece, questo tema ha un impatto significativo sulla configurazione vocazione dell’esistenza di ciascuno. A livello giovanile la questione è ancor più drammatica e scandalosa. Gli orari e l’impostazione pastorale dei percorsi formativi per giovani è job free – usando un’espressione alla moda. Tra Chiesa, giovani e lavoro, uno dei tre sembra di troppo: se un giovane lavora è in genere lontano dalla vita ecclesiale; se frequenta la comunità cristiana è perché non lavora ancora; se la Chiesa si occupa di lavoro difficilmente si rivolge ai giovani. Gli incontri di pastorale sociale a tutti i livelli sono frequentati più da un pubblico adulto che da quello giovanile e anche questo fa riflettere.
    Se questo è il quadro, come non sentirci rappresentati dal pagliaccio di don Luisito Bianchi? Ci troviamo in un equilibrio instabile, siamo costretti a fare acrobazie tra un mondo che corre (anche con fughe in avanti) grazie alla tecnologia e alla rivoluzione digitale e una Chiesa che appare ferma, talvolta in retrotopia – usando una felice espressione di Bauman. Come un motore di scafo che gira a vuoto perché non immerso nell’acqua della storia, la Chiesa sembra impantanata in sterili discussioni, dimenticando che già le Scritture contengono consigli, aneddoti, esortazioni, modelli che hanno a che fare con l’opera creatrice di Dio e la capacità umana di collaborare con essa. Il lavoro è questione teologica, per nulla irrilevante nella relazione costitutiva tra Dio e l’uomo.
    Esiste dunque una competenza della pastorale ad affrontare il tema del lavoro oggi? Quale contributo può offrire? E quale lavoro educativo è possibile mettere in campo con i giovani? Equilibristi cercasi.

    I nodi da sciogliere

    Il lavoro giovanile oggi attraversa una stagione da surriscaldamento climatico. Ci sono alcuni nodi giunti al pettine e che chiedono di essere presi sul serio. Ne consideriamo quattro.
    Il primo nodo è quello della disoccupazione giovanile. Essa è raddoppiata in poco più di un decennio (si è passati dal 23,2% del 2004 al 43,3% del 2016) e il trend è stato di crescita continua. Nella fascia d’età tra i 20-24 anni e 25-29 anni, nel 2018, si è registrato un differenziale nel tasso di occupazione rispetto alla media dei giovani europei che giunge a 20 e 22 punti percentuali [2]. Ciò che sconcerta sono alcune scelte giovanili che appaiono radicali: la fuga verso il nord Europa e il fatto che, in molti casi, chi ha perso il lavoro preferisce la rassegnazione alla ricerca di una nuova occupazione. Il grande esodo è frutto di una diffusa rassegnazione sul futuro italiano e anche dalla ricerca di un respiro più ampio, meno provinciale rispetto a quanto possono offrire la maggior parte dei territori nazionali.
    Il secondo nodo è dettato dalla presenza di nuove categorie di giovani che rischiano di essere esclusi in tutto, sia dalla formazione che dall’attività concreta. Sono i Neet (l’acronimo sta per «Not currently engaged in Education, Employment or Training»), ossia i giovani non occupati o espulsi dai circuiti formativi. La preoccupazione sta nel fatto che, tra la condizione di Neet, la devianza e l’esclusione sociale, il passo è breve. Se si guarda con attenzione la differenza tra nord e sud Italia, con i differenti livelli economici, non deve sorprendere che la presenza dei Neet non sia conseguenza di un minore sviluppo. Essi sono piuttosto il fallimento del sistema formazione-lavoro, che non funziona adeguatamente. Insomma, non è sempre vero che i Neet siano poveri: gli studi sulle disuguaglianze mostrano che il reddito che manca è dovuto più a carenza di capitale relazionale, sociale ed educativo che ad assenza di flusso di denaro. Ci sono redditi che si disperdono o che peggiorano le condizioni di disuguaglianza perché le risorse finiscono in sentieri sbagliati: droga, lotterie, slot machine o altri percorsi degenerativi.
    Un terzo nodo verte sulla formazione. È sotto i nostri occhi una crescente riduzione della qualità occupazionale dei giovani. Molti di loro si trovano in una posizione intermedia, sospesi tra «dentro e fuori», perché impegnati in part-time o con contratti a tempo determinato, sfruttati o scarsamente retribuiti. La crisi economica iniziata nel 2008, ha presentato un conto umano drammatico: aumento della disoccupazione da una parte; obbligo a doversi accontentare di posti sottopagati dall’altra. La crisi economica si è abbattuta sulla categoria più fragile, quella in grado di incrementare fiducia e prospettiva nel Paese. In molti territori sono visibili le macerie: depressione economica e fuga delle energie migliori. Lo scenario è desolante perché rappresenta una notevole erosione del capitale umano. Società di consulenza, assicurazioni e multinazionali spremono il lavoro giovanile, senza un serio investimento sulle competenze e senza un autentico riconoscimento dell’opera svolta. Si assistono a lavori che affamano, competizioni al ribasso, obbligo di firmare contratti capestro che costringono a rimanere legati ad una impresa per un certo numero di anni o a venire pagati per non passare alla concorrenza. All’interno di queste situazioni non potrà mai fiorire un investimento vocazionale delle persone. Si assisterà sempre a voli negati. Su questa lunghezza d’onda negativa si sta facendo strada l’ideologia dei due terzi: in futuro, cioè, si prevede che un terzo di disoccupati vivrà di assistenzialismo con un assegno sociale dello Stato. Nel ricatto è impresa ardua l’operazione riscatto!
    In questo contesto si affrontano due letture contrapposte dei dati. Da una parte c’è chi ritiene che i giovani siano disoccupati per colpa del fatto che il loro profilo professionale è inadeguato alle richieste delle imprese. Dall’altra c’è chi sostiene che la disoccupazione sia causata dalla deregolamentazione del mercato del lavoro, che porta le imprese a sfruttare i giovani mantenendoli nella precarietà.
    Ci sono mestieri in cui non si trovano adeguate competenze professionali: si pensi a falegnami, commercialisti, infermieri, fabbri, ingegneri, esperti di marketing, addetti al settore della moda... Lo chiamano mismatch, ossia il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. I principali settori di attività che ricercano giovani sono l’industria meccanica e quella agroalimentare; il settore tessile e della moda; il design e il settore dell’automotive; i servizi di alloggio e ristorazione (turismo); le attività avanzate di supporto alle imprese; il commercio; le industrie della carta, cartotecnica e stampa; i servizi informatici e delle telecomunicazioni; le industrie chimico-farmaceutiche, della plastica e della gomma [3]. Sembra carente una cultura rivolta all’artigianato e ai mestieri, se è vero che, in Italia, gli studenti negli Istituti tecnici sono solo il 30,7% e quelli degli Istituti professionali si fermano al 15%. In alcune città il numero di avvocati è esorbitante rispetto alla mancanza di medici o operatori sanitari.
    Il quarto nodo può essere identificato nel cambiamento tecnologico in atto: stando ai dati forniti dall’Ocse, il 14% dei posti di lavoro tradizionali sparirà, mentre il 30-40% si trasformerà. E nei Paesi dove maggiormente si svilupperanno le tecnologie, aumenteranno le possibilità di occupazione [4]. Il rapporto Tomorrow’s Jobs di Microsoft prevede che il 65% degli studenti di oggi farà lavori che ancora non esistono. Tutto ciò richiede una nuova mentalità. Nell’epoca dell’intelligenza artificiale, della robotica, della nanotecnologia e della biotecnologia (la cosiddetta industria 4.0) più di un terzo delle competenze che saranno considerate fondamentali, e quindi ad alta domanda per nuovi posti di lavoro, oggi hanno un’importanza secondaria: le social skill, cioè capacità di persuasione, intelligenza emotiva, abilità nell’insegnamento; le capacità cognitive, quindi creatività, ragionamento analitico; e le process skill, ovvero capacità di ascolto e critical thinking. Le sfide etiche non mancheranno, soprattutto di fronte al rischio di de-umanizzazione del lavoro, possibile sia con il ricorso ai braccialetti elettronici (con compiti di sorveglianza) sia con l’introduzione dell’artificiale.
    Così si fa avanti la divisione tra tecno-scettici e tecno-entusiasti: per i primi i robot diventeranno il perno della produttività, lasciando a casa molte persone non qualificate; per i secondi, invece, nella cosiddetta «fabbrica digitale» non si rimpiangeranno più lavori ripetitivi e faticosi, passando dalla tuta blu al camice bianco, dalla cassetta degli attrezzi al tablet gestibile anche da casa [5]. Il processo tecnologico dell’industria 4.0 è irreversibile. Piaccia o no. Per questo non è «la tecnologia che fa male al lavoro: è la sua assenza» [6]: basti pensare che i 600mila posti di lavoro persi durante la crisi economica sono stati causati dalla mancanza di investimenti in tecnologia da parte delle imprese. La resistenza all’innovazione è una tragedia per il Paese campione dell’invenzione. Meraviglia anche vedere che i giovani in genere non sono ossessionati dal posto fisso. Ciò che appariva qualche decennio fa la grande conquista, ora è visto persino come limite. Anche qui, però, c’è l’altra faccia della medaglia: chi si trova con competenze multiple e spendibili non fatica a ragionare in questi termini, ma chi parte da una condizione svantaggiata? E chi non ha una formazione adeguata?

    «Per chi sono io?»: la competenza ecclesiale sulla vocazione

    Il magistero di papa Francesco non ha dribblato il tema lavoro [7]. In molti contributi ha cercato di far emergere la centralità della persona. Un punto di non ritorno è l’esortazione apostolica postsinodale Christus vivit (CV, 2019), rivolta particolarmente ai giovani. Al n. 258 sgombra il campo da semplificazioni e associa in modo stretto il tema del lavoro a quello della vocazione: l’«“essere per gli altri” nella vita di ogni giovane è normalmente collegato a due questioni fondamentali: la formazione di una nuova famiglia e il lavoro». La famiglia e il lavoro sono gli ambiti in cui si giocano normalmente le esistenze. Certo, ci sono anche vocazioni di speciale consacrazione, ma la specifica sui due fronti è decisiva per la pastorale della Chiesa.
    Il lavoro di cui scrive Francesco non è astratto. È esperienza che rivela ferite nella vita di molti giovani. Ciò è dato senza dubbio dalle elevate percentuali di disoccupazione, ma anche da varie forme di esclusione e di emarginazione. Per capire il dramma non è sufficiente l’appiattimento economico sulla soglia di povertà entro la quale si finisce senza possibilità di lavoro. C’è di più, perché «la mancanza di lavoro recide nei giovani la capacità di sognare e di sperare e li priva della possibilità di dare un contributo allo sviluppo della società» (CV 270). È in gioco la vita della persona, ossia il lavoratore mancato. La Chiesa «ospedale da campo» spesso è chiamata a curare ferite profonde nell’esistenza dei giovani: disoccupazione, sogni interrotti, formazione inadeguata, progetti svaniti, corruzione diffusa, sfruttamento, lavoro «nero» o sottopagato tarpano le ali ai sogni e accendono roghi sul terreno fertile della società. Il lavoro, infatti, «per un giovane non è semplicemente un’attività finalizzata a produrre un reddito. È un’espressione della dignità umana, è un cammino di maturazione e di inserimento sociale, è uno stimolo costante a crescere in termini di responsabilità e di creatività, è una protezione contro la tendenza all’individualismo e alla comodità, ed è anche dar gloria a Dio attraverso lo sviluppo delle proprie capacità» (CV 271).
    C’è un legame indissolubile tra il lavoro e le domande profonde della vita, quelle di senso. La risposta all’interrogativo «per che cosa sono stato creato?», «qual è il motivo del mio passaggio su questa terra?» e «qual è il progetto di Dio sulla mia vita?» hanno a che fare con l’orientamento globale dell’esistenza, con le motivazioni che spingono a progettare e ad avviare processi generativi. È possibile far credere a un giovane che la sua vita è un solenne divertimento intervallato da qualche forma di impegno? Oppure il lavoro è ciò che plasma la persona e la fa sentire partecipe del progetto di amore di Dio sull’umanità? Se così fosse, si spiegherebbero le ferite enormi aperte da esistenze sottratte al lavoro. Per questo, il lavoro è fonte di gioia e speranza, di tristezza e angoscia per l’uomo. Scrive Papa Francesco: «Voglio ricordare qual è la grande domanda: Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: “Ma chi sono io?”. Tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: “Per chi sono io?”».
    La strada si apre con le domande giuste.

    «Con chi sono io?»: la competenza ecclesiale sulla cooperazione

    A dirci che la Chiesa ha una competenza particolare sulla questione lavoro all’interno di una prospettiva relazionale è ancora il magistero di papa Francesco. Vengono in aiuto due citazioni. La prima si trova in LS 125: «Qualsiasi forma di lavoro presuppone un’idea sulla relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sé». La seconda è stata pronunciata a Genova il 27 maggio 2017 durante l’incontro con il mondo del lavoro: «Quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, è tutto il patto sociale» [8]. Il lavoro è la cartina di tornasole di un modello di convivenza sociale. Il modo con cui si lavora esprime un tipo di democrazia. L’affermazione non è nuova per chi conosce la Costituzione italiana: l’art. 1 afferma, infatti, che la Repubblica è fondata sul lavoro. Purtroppo, una lettura superficiale di questo enunciato non interroga più le coscienze come dovrebbe. Uno sguardo invece alla ricaduta sul mondo giovanile va alla sostanza: la disoccupazione e lo scarso investimento sui giovani mostrano una crisi di democrazia.
    Se dunque il lavoro fonda una comunità, è vero anche il contrario: una comunità crea lavoro. Il rapporto tra comunità e lavoro è la prima forma di economia circolare. Spesso ci si illude che possa intraprendere nel mondo dell’impresa solo chi ha idee geniali, chi ha un passo in più degli altri, il self-made man. Niente di più sbagliato: «Nessuno è padrone delle sue origini, come nessuno può essere salvatore del mondo» [9]. Il lavoro si crea dentro a un contesto di relazioni. Lo conferma la storia dei distretti di produzione nei territori italiani (dall’agroalimentare al manifatturiero, dal conciario al metalmeccanico, dall’elettronico al tessile, dal siderurgico al legno, dalla moda al sanitario, dalla gomma alla meccatronica...). Nel 2017 i distretti hanno mostrato una crescita di fatturato migliore rispetto alle aree non distrettuali (+4,3% contro il +4%). Lo testimonia anche la ricchezza della cooperazione che rappresenta già un modello di sviluppo e di economia alternativo a quello consumistico e incentrato sull’ideologia del «solo profitto a qualunque costo». Il lavoro non ha solo una ricaduta economica, è anche esperienza sociale. La cooperazione stessa ha portato la democrazia all’interno dell’impresa. Le idee di un imprenditore o di più persone, che si mettono insieme a creare lavoro, hanno sempre alle spalle ricercatori, progettatori, esperti commerciali, comunicatori. E se allora è una comunità che genera lavoro, diventa più facile comprendere il motivo della crisi attuale. L’individualismo imperante non è generativo. E’ deserto per ogni forma di cooperazione e di impresa. Spegne sul nascere qualsiasi slancio ideale e sociale. Tarpa le ali alla creatività. Il vero dramma per il mondo giovanile è questo contesto di siccità comunitaria, di egolatria che uccide i talenti [10].
    Se si vuole costruire un serio dibattito sul tema giovani e lavoro occorre partire dai fondamenti, dall’edificazione di tessuti sociali vitali. Il lavoro è sempre anche un lavorare con e per qualcun altro. Proprio della persona è la relazione, per cui si lavora davvero quando l’attività è finalizzata a qualcuno. Persino la passione nel proprio lavoro, associabile alla gratuità del vivere, non conosce alcuna forza di incentivi. Ognuno impara a lavorare da altri, lavora con qualcuno e produce per uno sconosciuto che entra in relazione con la vita di un altro acquistando quel bene. Ciò è così vero che lavorare può diventare un atto redentivo: realizzare bene la propria opera in qualsiasi situazione umana e sociale sta a significare che la dignità della persona che lavora è più grande di qualsiasi struttura circostante.
    La terapia per una società che ha carenza di lavoro non è, in primo luogo, la creazione di sportelli per l’impiego o l’aumento di consulenti fiscali, ma l’investimento in animatori di comunità, in persone cioè che sanno creare connessioni, che tessono reti, che sanno mettere insieme ascolto e speranza. Dietro alla crisi occupazionale si può nascondere anche una prova umana e morale, che va curata non solo con il ricorso al credito. Persino la demotivazione, l’isolamento produttivo, il vuoto relazionale possono mandare gambe all’aria un’impresa, venendo meno il livello minimo comunitario che motiva la solidarietà tra l’imprenditore e i lavoratori. Non esiste, pertanto, il lavoro in sé, perché esso si presenta sempre come comunità di lavoro, la cui reciprocità esprime un modello di rapporti sociali. Scrive a proposito l’economista Luigino Bruni: «Il merito non è solo né primariamente una questione di curriculum vitae e di titoli di studio, ma è aver appreso l’arte delle relazioni, che è sempre arte della gratuità, del valore delle cose in sé, soprattutto in un mondo del lavoro come quello attuale dove il mestiere lo si impara mentre si lavora» [11].
    Cosa c’entra tutto ciò con il mondo dei giovani? Non è difficile immaginare che offrire loro un tessuto comunitario sfilacciato e poco credibile genera la prima forma di esclusione. La Chiesa, che ha nel suo DNA la cura per il livello di vita comunitaria, o diviene «addetta» al lavoro, costruendo esperienze relazionali significative, oppure tradisce il proprio mandato. Finirebbe per non offrire più il contesto generativo adatto, anche per opportunità di lavoro. Gli oratori in questo senso possono essere vitali: luoghi di aggregazione, dove si educa allo stare insieme con un progetto e una direzione. Ciò è ancora più urgente nell’epoca in cui il neoliberalismo, stando alla felice analisi del filosofo coreano Byung-Chul Han, tende a fare del lavoratore un imprenditore. «Oggi, ciascuno è un lavoratore che sfrutta se stesso per la propria impresa» [12]. È diffusa cioè l’idea che ciascuno si autoproduca in modo illimitato. Ne deriva il primato della prestazione che porta a dare la colpa di ogni fallimento a se stessi e alle proprie incapacità. Nell’autosfruttamento si finisce per incolparsi e per aggredirsi: orari di lavoro senza limite, viaggi infiniti, prevaricazione sul tempo feriale-festivo, scadimento delle relazioni familiari. La solitudine del «lavoratore-imprenditore» isolato dal «noi» sociale crea le condizioni per il deserto civile. Quanto si rivela fondamentale, invece, abituare i giovani (ossia generare un habitus in loro) a coltivare le relazioni, a vivere esperienze comunitarie significative. È possibile diventare imprenditori o lavoratori solo se si fanno «esperienze istituenti» [13] di servizio o volontariato, come quelle che la tradizione ecclesiale continua a promuovere nei vissuti feriali delle parrocchie. Le istituzioni, nonostante tutta la volontà odierna di smantellare le intermediazioni, mantengono la loro funzione simbolica. Creano condizioni favorevoli.

    Una Chiesa al servizio dei giovani (futuri) lavoratori

    Le competenze ecclesiali nel mondo del lavoro possono incentrarsi sulle dimensioni vocazionale e cooperativa. La pastorale giovanile e quella sociale potrebbero stabilire una alleanza strategica in questa direzione. Già il Progetto Policoro della Chiesa italiana si fonda su un’intuizione che proviene dal cuore della fede cristiana: il lavoro non nasce dal nulla, ma in un contesto ecclesiale forte e generativo. Da qui possiamo presentare due esigenze urgenti.
    La prima è la necessità di una comunità educante e capace di ricche esperienze relazionali. Senza di esse, la vita sociale si spegne. I giovani devono poter fare un’esperienza significativa di Chiesa, dove possono sentirsi accolti ma soprattutto trovare persone che li accompagnano a fare discernimento circa i sogni della loro vita.
    La seconda esigenza è quella di offrire una direzione che motivi: quale città, quale pianeta e quale modello di sviluppo intendiamo costruire? Come ciascuno può contribuirvi? Scriveva Seneca nell’antichità: «Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare».
    Il magistero di papa Francesco ha indicato nel principio secondo cui «il tempo è superiore allo spazio» un riferimento fondamentale (EG 222-225). Di fronte a giovani che vivono la stagione della continua accelerazione, che porta a consumare cose ed esperienze, la Chiesa può umilmente offrire la saggezza evangelica. Se ci si illude che la maturazione umana coincida con l’accumulo di beni o che basti procedere per tentativi (o errori) per crescere, il «saper vivere» cristiano insegna a darsi tempo, a lavorare con pazienza sulla formazione delle coscienze, a fare esperienze liberanti di prossimità e cura.
    Accompagnare alla ricerca della propria vocazione di cura del mondo e formare alla capacità relazionale sono due campi dove la comunità ecclesiale può giocare in casa. Ha voce in capitolo, competenze e buone pratiche da vendere. A quando il fischio d’inizio (o di ripresa) della partita?

    * Direttore dell’Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoro, CEI.


    NOTE

    [1] L. Bianchi, I miei amici. Diari (1968-1970), Sironi, Milano 2008, 655.
    [2] Cfr R. Lodigiani, «Trasformazioni del lavoro: l’Italia è in ritardo», Aggiornamenti sociali 70 (2019) 6/7, 456-463. Per un’analisi approfondita dei dati si veda la recente pubblicazione IREF – Istituto di Ricerche Educative e Formative, Il ri[s]catto del presente. Giovani e lavoro nell’Italia della crisi, a cura di G. Zucca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018.
    [3] Fonte dei dati è l’articolo di D. Di Vico, «Dai tecnici specializzati agli addetti al turismo. Quando il lavoro c’è, mancano i profili giusti», Corriere della Sera, 14 gennaio 2018, 2.
    [4] Cfr L. De Biase, Il lavoro del futuro, Codice Edizioni, Torino 2018.
    [5] Sul tema cfr M. Bentivogli, Contrordine compagni. Manuale di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro e dell’Italia, Rizzoli, Milano 2019.
    [6] M. Bentivogli, Contrordine compagni, 97.
    [7] Cfr G. Costa – P. Foglizzo, Il lavoro è dignità. Le parole di Papa Francesco, Ediesse, Roma 2018.
    [8] Francesco, «Incontro con il mondo del lavoro», Genova 27 maggio 2017: cfr G. Costa - P. Foglizzo, a cura di, Il lavoro è dignità, 101.
    [9] M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013, 66.
    [10] Cfr P. Sequeri, La cruna dell’ego. Uscire dal monoteismo del sé, Vita e Pensiero, Milano 2017.
    [11] L. Bruni, Fondati sul lavoro, Vita e Pensiero, Milano 2014, 115.
    [12] B.-C. Han, Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, Milano 2016, 14.
    [13] Cfr Comitato Scientifico delle Settimane Sociali dei Cattolici italiani, Il lavoro che vogliamo: «libero, creativo, partecipativo e solidale» (EG 192), Palumbi, Teramo 2018, 220-221.


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