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    Dio ci parla nei giovani


    Intervista al cardinale Carlos Aguiar Retes, Arcivescovo di Città del Messico (Messico)

    A cura di Gioele Anni


    (NPG 2019-08-2)

    «Don Carlos Aguiar Retes è un uomo capace di parlare con il presidente della Repubblica e, mezz’ora dopo, di andare nel quartiere più povero della città a mangiare un boccone da una venditrice ambulante di tamales», i tipici involtini a base di mais. Così Jorge Traslosheros, un commentatore messicano, descriveva al National Catholic Reporter il nuovo Arcivescovo di Città del Messico. Era il dicembre 2017: papa Francesco, che un anno prima lo aveva nominato cardinale, ora lo assegnava alla diocesi più importante del Paese. A prima vista, di monsignor Aguiar Retes colpisce l’aspetto austero. È un uomo alto e magro, il viso severo, la carnagione chiara. Parla con voce bassa ma profonda, riflessiva. Chi ha pranzato con lui a Santa Marta, però, racconta di aver apprezzato anche la sua ironia. Nasce nel 1950 a Tepic, nel Messico centrale, a una manciata di chilometri dalla costa pacifica. Secondo di sei figli, sacerdote già a 23 anni, a Roma studia prima Sacra scrittura e poi Teologia biblica. Vescovo dal 1997, Aguiar Retes è una figura chiave nella Conferenza dei vescovi latinoamericani ad Aparecida, nel 2007. Qui si consolida il suo legame con l’allora cardinale di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio. E sono in pochi a sorprendersi quando il Papa argentino assegna la porpora al confratello messicano, per poi inviarlo a Città del Messico.

    I padri sinodali del centro e sud America hanno affermato che i giovani sono «luoghi teologici». Che cosa significa questa definizione?
    È una ripresa di quello che già il Concilio Vaticano II aveva affermato: ci sono dei «segni dei tempi» che dobbiamo cogliere. In America Latina li abbiamo chiamati spesso «luoghi teologici». In altre parole, esistono situazioni in cui il Signore si rivela con più forza. Abbiamo il compito di essere attenti a queste manifestazioni perché sono segnali che riguardano non solo poche persone o una famiglia, ma la società intera o un importante settore della società. Oggi la gioventù è in una situazione di adattamento molto difficile per il cambiamento epocale che stiamo vivendo. Per questo proprio i giovani sono dei «luoghi teologici».

    Quali sono i segni che i giovani mandano alla Chiesa e alla società?
    Molti giovani avvertono la presenza di Dio nella trascendenza, ma il Dio che cercano non è necessariamente il Dio delle espressioni tradizionali della Chiesa. È una sete di Dio che dobbiamo imparare a riconoscere per poter dialogare con loro e aiutarli a trovare il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. In secondo luogo, i giovani sono molto sensibili alle situazioni drammatiche. Hanno una forte disposizione alla solidarietà, reagiscono subito attivamente quando sono sollecitati da un contesto difficile. Questa è una caratteristica dei giovani di oggi e noi dobbiamo riuscire a essere lì con loro in questi momenti delicati. Mi sembra che questi siano due segni molto importanti che emergono dalla gioventù.

    La Chiesa latinoamericana ha forse anticipato i tempi della Chiesa universale sulla strada della sinodalità. Un momento di svolta in questo senso è stata la conferenza dei vescovi latinoamericani ad Aparecida nel 2007. Perché quell’incontro è stato così importante?
    Fin dalla preparazione ci siamo interrogati sulla fede in America Latina. Riconoscevamo una difficoltà di fondo: il discepolo di Gesù non può rimanere soltanto all’interno della Chiesa, ma deve essere inserito anche nel contesto sociale. Nei nostri Paesi la Chiesa ha una presenza culturale molto forte, c’è una devozione popolare radicata che dà forma a una chiara identità. Ma già dieci anni fa era chiaro che stava accadendo un cambiamento epocale: anche la nostra realtà andava incontro a un processo di secolarizzazione. Questa situazione interpellava con forza tutta la Chiesa e il suo modo di operare nella realtà del continente latinoamericano. Sentivamo l’importanza di non pensare solo a tutte le persone che già frequentavano le parrocchie, partecipavano alle processioni e ai vari momenti di celebrazione tradizionale in cui si esprime la fede della nostra terra, ma di guardare anche al di fuori.

    La conferenza di Aparecida delinea la figura dei discepoli-missionari, poi ripresa da papa Francesco nella Evangelii Gaudium. Come si è arrivati a questa intuizione?
    Credo che la chiave sia stata questa: ci siamo chiesti come fosse possibile passare dall’idea di avere dei “fedeli” a quella di formare delle “comunità di discepoli”. E, in secondo luogo, che questi discepoli non siano attivi in un gruppo solidale a se stesso, ma formino una comunità al servizio della società, cioè missionaria. Questi erano i due punti fondamentali di Aparecida. Sono stati messi in luce fin dalla preparazione e poi assunti dai vescovi con grande profondità. Durante la conferenza è stato fondamentale il contributo di papa Benedetto XVI nel suo discorso di apertura. Ci ha detto che la comunità di discepoli deve essere fondata sulla roccia della Parola di Dio per poter offrire davvero Gesù nel mondo. La sua indicazione ha arricchito in maniera decisiva la riflessione sul tema dei discepoli-missionari.

    Da febbraio del 2018 lei è Arcivescovo di Città del Messico. Una metropoli immensa con quasi 9 milioni di abitanti. Come si trova in questo nuovo servizio?
    È presto per fare un bilancio. Ho visitato quasi tutti gli organismi principali della diocesi e vedo che c’è tanta energia, un grande lavoro di Chiesa. Quello che manca, forse, è una comunione più stretta, più organica, che ci aiuti a operare sempre più come il lievito del Vangelo. L’ottanta per cento della popolazione a Città del Messico si identifica come cattolica, ma questa appartenenza non sempre riesce a emergere nella vita pubblica della città. La grande sfida è di essere più presenti all’interno della società.

    Qual è il grido che arriva dai giovani del Messico, e come volete coinvolgerli nel cammino della Chiesa?
    Stiamo vivendo esperienze di ascolto, in diocesi abbiamo organizzato un incontro proprio per dialogare con i giovani. Siamo stati insieme, giovani e adulti, e abbiamo definito un piano di rinnovamento per l’accompagnamento dei giovani. Si tratta di un processo: dal punto di vista ecclesiale ho notato l’importanza di avere un rapporto stretto tra la pastorale giovanile, quella universitaria e quella vocazionale. C’è bisogno di lavorare insieme per essere più incisivi nelle proposte che rivolgiamo ai nostri giovani. In Messico ci sono già tanti ragazzi che hanno una buona formazione cattolica e sono molto preparati. Dobbiamo aiutarli a essere sempre più discepoli-missionari.

    Che cosa sogna di vedere nella Chiesa di tutto il mondo al termine del Sinodo?
    Sogno che la Chiesa si faccia contagiare dalla gioia che è tipica dei giovani. Una Chiesa dal volto giovane, proprio come quello di Gesù.


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