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    Daniele: gioventù e resistenza


    I giovani nella Bibbia /10

    Raffaele Mantegazza


    (NPG 2019-02-64)

    Il libro di Daniele è un libro apocalittico, l’unico dell’Antico Testamento; non si tratta di un testo profetico, come spesso erroneamente si ritiene, ma appartiene appunto alla tradizione apocalittica che si pone allo snodo tra due epoche (anzi tra due eoni) e che dunque annuncia non tanto “la fine del mondo”[1], quanto il passaggio tra “questo mondo” e “il mondo a venire”. È perciò significativo a nostro parere che gli annunci apocalittici di questo testo, ovvero le profezie che riguardano il cambiamento radicale della storia umana operata da YHWH, siano messe in bocca proprio a un giovane, come se l’annuncio della giovinezza di un nuovo mondo avesse bisogno di labbra giovani per poter essere lanciato al mondo.
    Che Daniele sia un giovane è detto esplicitamente nel testo, laddove Nabucodonosor chiede che gli vengano portarti “giovani israeliti di stirpe reale o di famiglia nobile, senza difetti, di bell'aspetto, dotati di ogni scienza (hokma), educati, intelligenti e tali da poter stare nella reggia, per essere istruiti nella scrittura e nella lingua dei Caldei”[2]. Notiamo anzitutto in questa descrizione l’estremo amore e stima per i giovani ebrei, che ritroviamo (come nostalgia) nel testo delle Lamentazioni: "I suoi giovani erano più splendenti della neve,/più candidi del latte;/avevano il corpo più roseo dei coralli,/era zaffìro la loro figura"[3]. La gioventù è bella, anche fisicamente, ma la bellezza fisica è legata strettamente a doti morali, soprattutto legate all’intelligenza e alla saggezza. È curioso che il termine “hokmà”, saggezza appunto, sia legato alla gioventù. Di solito si intende per saggio una persona che abbia avuto sufficiente esperienza di vita, non necessariamente un anziano ma almeno un adulto: nelle culture classiche come nel senso comune anche odierno la gioventù è legata alla esuberanza, alla spontaneità, certo alla mancanza di vera saggezza. Eppure è proprio questa virtù, che il libro di Daniele considera fondamentale al punto che la frase "i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre"[4] è attribuita ai ragazzi, in una specie di anacoluto: “giovane saggio”.
    Ci viene in mente per analogia una poesia di Edgar Lee Masters, l’epigrafe di Alexander Trockmorton che riposa nel cimitero di Spoon River:

    Da giovane, le mie ali erano forti e instancabili, 
    ma non conoscevo le montagne.
    Da vecchio conoscevo le montagne
    ma le mie ali stanche
    non potevano tener dietro alla visione -
    il genio è saggezza e gioventù.

    È proprio questa apparentemente impossibile unione di saggezza e gioventù a realizzarsi nei ragazzi deportati alla corte di Nabucodonosor.
    E in Daniele questa saggezza si declinerà in modo del tutto particolare facendone il vero protagonista della prima parte del testo. Sono notevoli anzitutto i paralleli tra Daniele e un altro notissimo giovane della tradizione giudaica, Giuseppe: ambedue sono schiavi, superano una prova (la seduzione in Giuseppe, la dieta in Daniele - tra l’altro Daniele accetta lingua, cultura, letteratura, servizio e vassallaggio, rifiuta solo il cibo). Entrambi trionfano in un confronto con la sapienza locale, occupano una carica importante a corte.
    Più ancora che Giuseppe, Daniele è un resistente e mostra come proprio la gioventù possa essere la migliore sede per questa attività umana. Il gesto di resistenza di Daniele riguarda il cibo, una delle componenti fondamentali dell’identità di un popolo: Daniele non vuole mangiare i cibi di corte e propone di essere nutrito con i suoi compagni solo con legumi e acqua: “ma Daniele decise in cuor suo di non contaminarsi con le vivande del re e con il vino dei suoi banchetti e chiese al capo dei funzionari di non farlo contaminare”[5]. Daniele lancia una vera e propria sfida concreta e pratica ai funzionari di corte: “Mettici alla prova per dieci giorni, dandoci da mangiare legumi e da bere acqua, poi si confrontino, alla tua presenza, le nostre facce con quelle dei giovani che mangiano le vivande del re; quindi deciderai di fare con noi tuoi servi come avrai constatato». Egli acconsentì e fece la prova per dieci giorni; terminati questi, si vide che le loro facce erano più belle e più floride di quelle di tutti gli altri giovani che mangiavano le vivande del re. D'allora in poi il sovrintendente fece togliere l'assegnazione delle vivande e del vino e diede loro soltanto legumi”[6]. Notiamo che qui si va oltre il rifiuto dei cibi proibiti verso una pratica ascetica che avvicina ai recabiti o ai nazirei. Ma notiamo anche altro: la pratica quasi ascetica non restituisce come suo risultato una persona emaciata e magra come certe pratiche simili ci ricordano (basti pensare ai padri del deserto, agli anacoreti o agli esicasti) ma al contrario produce persone belle e floride. Resistere rende belli, rende fisicamente migliori, esalta quelle caratteristiche di bellezza che nella gioventù sono solo allo stato di promessa. La resistenza non è affare di asceti, o meglio l’ascesi propria della resistenza porta alla bellezza: rifiutare le false seduzioni di chi vuole nutrire il nostro corpo per renderlo (e renderci) schiavo libera la vera bellezza del corpo adolescente.
    Ma laddove Daniele mostra la sua saggezza (tratto che lo avvicina ulteriormente a Giuseppe – il sogno in Daniele non è la visione travolgente di Enoch) è nel suo ruolo di interprete dei sogni. La scienza del sogni si trova anche nei libri dei Caldei, è un sapere umano che YHWH accorda con mezzi naturali; peraltro il sogno non era sempre ben visto in ambito giudaico. Non è dunque dal punto di vista tecnico che Daniele mostra la sua superiorità, ma nel modo di intendere il rapporto tra intelligenza, saggezza e segni divini: in qualunque affare di sapienza e intelligenza su cui il re li interrogasse, li trovò dieci volte superiori a tutti i maghi e astrologi che c'erano in tutto il suo regno".[7]
    Al superamento della prova fisica (il cibo) segue il superamento della prova culturale-scientifica. Il re propone problemi ai giudei come un tempo la regina di Saba li proponeva a Salomone. E la prova più difficile è l’interpretazione del sogno, che deve esser preceduta dalla conoscenza del suo contenuto che il re non comunica: “Se non mi dite qual era il mio sogno, una sola sarà la vostra sorte”[8]. Daniele mostra di conoscere quello che il re ha sognato: “Tu stavi osservando, o re, ed ecco una statua, una statua enorme, di straordinario splendore, si ergeva davanti a te con terribile aspetto[9]” e procede alla ben nota interpretazione del sogno della statua che tanto materiale ha fornito agli apocalittici dei secoli successivi.
    Piuttosto che concentrarci sulla interpretazione occorre in questa sede sottolineare come il giovane Daniele riporti il sogno del re a un messaggio lanciato da YHWH. Si noti che il messaggio è rivolto al re: “Il Dio grande ha rivelato al re quello che avverrà da questo tempo in poi. Il sogno è vero e degna di fede ne è la spiegazione”[10] e solo (si fa per dire) la spiegazione è lasciata nelle mani del ragazzo. Come dire che YHWH comunica a chi vuole ma occorre uno spirito vergine e resistente per poter comprendere il suo messaggio.
    L’ultimo episodio di resistenza del quale ci occupiamo riguarda l’ordine del re di prostrarsi e adorare un idolo: "vi prostrerete e adorerete la statua d'oro[11]. Sappiamo quanto conti per gli israeliti la questione dell’idolatria. Nabucodonosor del resto non chiede che i popoli rinuncino ai loro dei ma semplicemente che adorino la statua; solo i monoteisti non possono obbedire. E ovviamente Daniele rifiuta procurando a sé e a i propri compagni la terribile punizione della fornace ardente. I ragazzi vengono posti nel forno “Ma l'angelo del Signore, che era sceso con Azaria e con i suoi compagni nella fornace, allontanò da loro la fiamma del fuoco e rese l'interno della fornace come un luogo dove soffiasse un vento pieno di rugiada. Così il fuoco non li toccò affatto, non fece loro alcun male, non diede loro alcuna molestia[12].
    A questa liberazione fa seguito la lode di YHWH cantata dai tre ragazzi e ispirata ad alcuni testi scritturali, in particolare al salmi. Ma al lettore non può non rimanere in mente la sconcertante affermazione finale del te: “Perciò io decreto che chiunque, a qualsiasi popolo, nazione o lingua appartenga, proferirà offesa contro il Dio di Sadràch, Mesàch e Abdènego, sia tagliato a pezzi e la sua casa sia ridotta a un mucchio di rovine, poiché nessun altro dio può in tal maniera liberare”[13].
    I giovani dunque hanno vinto. Mescolando il coraggio di chi si sa appoggiato da Dio con la forza di rimanere coerenti con la propria identità e tradizione, la gioventù ha saputo resistere. Dalla resistenza antifascista alla primavera araba sono stati sempre i giovani a cercare di mettere in discussione l’arroganza dei poteri, le loro statue dorate, le loro pretese totalitarie. Daniele ci insegna che questa liberazione è possibile e che i giovani possono vincere. E che anche quando perdono possono lasciarci una testimonianza immortale proprio perché giovane. Come lo studente ventenne Jan Palach che il 16 gennaio 1969 si diede fuoco a Praga per contestare l’invasione sovietica che aveva posto fine all’esperimento democratico della “primavera di Praga”; il giovane rimase per tre giorni in coma e poi spirò, lasciando in eredità l’ultima sua lettera che dice tra l’altro:
    Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana.
    Si è tanto discusso attorno a questo gesto e a gesti simili: ha senso immolare la propria vita per una causa, anche se giusta? Il suicidio può in qualche modo essere giustificato di fronte alla prepotenza dell’oppressione? Palach non sarebbe stato più utile alla causa della libertà se avesse lottato contro l’oppressore, magari anche cadendo? Domande difficilissime alle quali a nostro parere non si danno risposte semplici; ma quello che è certo è che Palach ha scelto di gettare il suo corpo nella mischia, in un suicidio che è un gesto diametralmente opposto a quello delle bombe umane utilizzate dal terrorismo; Palach sacrifica se stesso e non tocca i corpi altrui, lascia solo la sua vita sulla piazza, ma riesce comunque a fermare il tempo per un attimo, a scuotere le persone, a modificare la storia: “quando la piazza fermò la sua vita” ci si accorse della bellezza dei giovani quando hanno il coraggio di lottare. Se “son come falchi quei carri appostati”, la bellezza del corpo di Palach è la bellezza del ribelle, della colomba subito consumata dall’atroce fiamma che la porta via, ma che rimane come pegno, speranza, promessa futura, nutrimento di altre giovani resistenze.


    NOTE


    [1] È estremamente grave il fatto che il termine “apocalisse” con tutti i suoi derivati sia usato oggi solamente in senso negativo, come è per esempio dimostrato dal suo utilizzo onnipervasivo da parte della stampa a proposito degli attentati dell’11 settembre 2001.
    [2] Dan 1, 3-4.
    [3] Lam 4,7.
    [4] 12, 1-3.
    [5] Dan 1,8.
    [6] Dan 1, 11-16.
    [7] Dan 1,17.
    [8] Dan 2,9.
    [9] Dan 2, 31.
    [10] Dan 2, 45.
    [11] Dan 3,5.
    [12] Dan 3, 49-50.
    [13] Dan 3, 96.


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