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    Beatitudini, vocazione alla felicità


    Aspetti letterari e teologici di Mt 5,1-12

    Giuseppe De Virgilio

    (NPG 2019-05-9)


     

    Spiegando la chiamata universale alla santità, papa Francesco annota: «Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini (cf. Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Esse sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita»[1]. Ci proponiamo di offrire un’analisi della pagina delle Beatitudini (Mt 5,1-12), che apre il primo discorso di Gesù nel Vangelo secondo Matteo.
    È opinione comune che l’evangelista abbia inteso conferire a questo solenne insegnamento un ruolo prioritario e programmatico[2]. Si tratta della proclamazione della felicità e di liberazione che consiste nell’affidare la propria vicenda esistenziale nelle mani provvidenti di Dio Padre (cf. Mt 6,6.9-14). Pertanto non siamo di fronte ad una «legge» costruita sull’enumerazione di principi astratti e utopici[3], ma ogni singola beatitudine va compresa come un annuncio di vita, una chiamata alla libertà, che ha come conseguenza l’impegno personale e comunitario a trasformare radicalmente la storia con il dinamismo del Regno di Dio che vi irrompe[4]. Dopo aver inquadrato il contesto letterario della pericope e la sua disposizione strutturale, approfondiamo le singole beatitudini rileggendole nell’ottica unitaria del messaggio teologico matteano[5].

    Il contesto letterario

    Le beatitudini aprono il discorso della montagna di Gesù (cf. Mt 5-7) che è nella prima parte del Vangelo (4,17-16,20) [6]. La funzione programmatica del discorso è data dal fatto che siamo di fronte al primo solenne insegnamento di Gesù, collocato nella scenografia di un monte, al cospetto dei discepoli e della folla che lo segue. Volendo riassumere l’articolazione dell’intero discorso del monte, ci sembra illuminante la proposta di Fabris che individua tre parti di Mt 5-7 secondo una continuità tematica centrata sullo «stile del discepolato»: I) statuto e compito dei discepoli (5,1-48); II) Nuovo stile di vita (6,1-7,12); III) Veri e falsi discepoli (7,13-29).
    La pericope di Mt 5,1-12 apre la prima parte del discorso con la raccolta di nove dichiarazioni, connotate dalla ripetizione dell’aggettivo «beati», seguito dall’indicazione dei destinatari e dalla motivazione della condizione di felicità. Siamo di fronte a un testo compatto, dal ritmo cadenzato che sortisce un effetto dirompete negli uditori. Vanno sottolineate alcune differenze tra le versione matteana (Mt 5,1-12) e quella lucana (Lc 6,20-23) delle Beatitudini. Oltre al contesto e al diverso orientamento teologico dei due Vangeli, occorre evidenziare che in Luca risultano solo quattro delle otto beatitudini matteane, come si può constatare dal confronto sinottico tra i due brani:

    beatitudini confronto

    Le divergenze di maggior rilievo riguardano la formulazione delle prime tre, che in Matteo sono in terza persona plurale («essi») mentre in Luca in seconda persona («voi»). Una seconda differenza è data dall’accentuazione spirituale e interiore che il primo evangelista conferisce alle dichiarazioni, mentre in Luca si avverte una maggiore aderenza realistica della condizione storica e presenziale degli uditori[7]. Le beatitudini si rivolgono a categorie di persone caratterizzate dalle situazioni sociali problematiche (cf. Lc 6,20-26) o da condizioni interiori (cf. Mt 5,3-12). In Luca «i poveri gli affamati e quelli che piangono» non sono beati a causa del loro stato di povertà (che permane sempre un male), ma per l’amore privilegiato che Dio manifesta nei loro confronti e della promessa che un giorno la loro situazione sarà capovolta ed essi troveranno al posto della sofferenza la felicità. In Matteo la beatitudine si accompagna a disposizioni soggettive richieste ai credenti, a partire da un fondamentale atto di fiducia: abbandonarsi alla volontà del Padre e attendere tutto da Lui. Avendo presente tali aspetti, focalizziamo la nostra analisi sulla versione matteana.

    Genere e disposizione di Mt 5,1-12

    Mt 5,3-12
    3«Beati i poveri in spirito,
    perché di essi è il regno dei cieli.
    4Beati quelli che sono nel pianto,
    perché saranno consolati.
    5Beati i miti,
    perché avranno in eredità la terra.
    6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
    perché saranno saziati.
    7Beati i misericordiosi,
    perché troveranno misericordia.
    8Beati i puri di cuore,
    perché vedranno Dio.
    9Beati gli operatori di pace,
    perché saranno chiamati figli di Dio.
    10Beati i perseguitati per la giustizia,
    perché di essi è il regno dei cieli.
    11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.
     
    Ad uno sguardo generale si nota come i destinatari delle prime quattro beatitudini sono descritti con attitudini che vanno rovesciate nel tempo escatologico, mentre quelli delle ultime quattro sono beneficiari di una ricompensa. L’unità globale del brano matteano sembra assicurata risalto dalla ripetizione della stessa motivazione «…è il regno dei cieli» (v. 3.10), definita con il tempo presente, a differenza delle altre beatitudini che sono al futuro. Nei vv. 11-12 la sequenza delle beatitudini è interrotta dal passaggio alla seconda persona plurale (v. 11: «beati voi») che racchiude il nono macarisma, con cui si completa l’unità e si passa alla sentenza seguente sul sale e sulla luce (vv. 13-16). A ben vedere la struttura base delle singole dichiarazioni è costituita da quattro elementi: a) dichiarazione di felicità con il termine «beati» (makarioi); b) descrizione dei destinatari, mediante un nome, o una proposizione participiale relativa, che pone in risalto la qualità-condizione presupposta o richiesta per la felicità proclamata; c) indicazione della causa concreta oggettiva che fonda e giustifica la dichiarazione iniziale; d) soluzione positiva della condizione dei destinatari.
    Il termine «beatitudine» (la formula aggettivale «beato/i») nella tradizione biblica definisce la condizione di «gioia piena», di felicità profonda, di compimento autentico della persona benedetta da Dio e in comunione con lui. Tale stato di vita non dipende da una passeggera condizione emotiva, né dall’esercizio di una virtù o qualità morale, ma dall’azione spirituale di Dio, che raggiunge il credente che accoglie la Parola e si fa discepolo di Cristo (7,21-27; 13,52).
    Nella Bibbia ebraica troviamo circa 60 attestazioni di beatitudine (dichiarazioni che si aprono con l’aggettivo «beato»; eb. ‘ashrê; gr. makarios), mentre nel Nuovo Testamento circa 50. Esse costituiscono un genere specifico vicino al discorso sapienziale e ricalcano forme espressive già note nel giudaismo, negli scritti qumranici e nei libri dell’Antico Testamento, soprattutto nel Salterio. Al di fuori dei Vangeli, solo in quattro scritti neotestamentari troviamo espressioni di beatitudini. Oltre alle due serie unitarie di «beatitudini» che, nel Nuovo Testamento vi sono diversi detti che riportano singole beatitudini pronunciate da Gesù[8] o da altri personaggi biblici[9]. Il messaggio delle beatitudini contiene in sé sia la prospettiva di una felicità nel «presente», sia l’attesa di un compimento nel «futuro».

    Beatitudini: dinamismo di felicità e di santità

    La cornice matteana dell’insegnamento di Gesù è rappresentata dalla montagna. «Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli» (5,1). Collegando l’indicazione generica della montagna con 8,1, l’evangelista chiude il primo discorso volendo sottolineare la coralità dell’insegnamento del maestro. Egli si rivolge alle folle (cf. 4,24-25) e insieme ai discepoli che lo circondano. La montagna assume un ruolo importante per la missione di Cristo. In particolare si coglie in Matteo la contrapposizione tra le montagne nel ministero galilaico e città santa, edificata sul monte Sion.
    Un secondo aspetto riguarda l’insegnamento che Gesù impartisce dopo essersi seduto[10]. I discepoli sono presentati nell’atto di avvicinarsi al Signore e di ascoltarlo. Essi formano un uditorio più vicino al maestro, ma anche distinto rispetto alle folle che sono collocate più in basso. È soprattutto l’attività didattica di Gesù a essere evidenziata da Matteo (cf. 4,23) attraverso la solenne proclamazione, che si apre con l’aggettivo «beati». Dichiarando «beati» gli uomini, il Signore conferma la felicità a cui ha diritto ogni persona che viene al mondo, in qualunque condizione essa si trovi[11]. Alla proclamazione della felicità segue la motivazione («perché»), contestualizzata nelle diverse situazioni esistenziali. Il ritmo martellante dell’aggettivo «beati» che inaugura ogni affermazione del discorso del Signore serve a dimostrare che è possibile «riuscire nella vita». Dalla venuta in Cristo in poi, coloro che si pongono con fede in ascolto della Parola di Dio sono in grado di comprendere che è possibile trasformare la prosa mediocre del quotidiano in una poesia che schiude la gioia indefinibile di ogni essere vivente. La vita come dono di felicità presente e futura è il tema dominante su cui s’intrecciano le variazioni di questa sublime pagina evangelica.

    Beati i poveri in spirito

    «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (5,3). È il fondamento di ogni beatitudine, la chiave interpretativa della vita di fede per il presente e il futuro dell’uomo. La povertà di spirito è la condizione interiore necessaria per vivere l’intero messaggio evangelico. «Poveri in spirito» erano nell’Antico Testamento gli oppressi obbligati a «curvarsi» (‘anāwîm) di fronte ai ricchi e ai potenti. Nei Salmi e nella predicazione profetica i «poveri in spirito» sono quelle persone di fede che si sottomettono interiormente e totalmente al Signore[12]. La perifrasi assume un profondo valore spirituale e si associa contenutisticamente alla beatitudine della mitezza» (5,5). La singolare associazione dell’essere poveri «in spirito» indica come lo spirito, sia quello divino che quello umano, rappresenta la forza interiore che spinge il credente a vivere la povertà nella relazione con Dio e con il prossimo. Lo stile della povertà spirituale non è una condizione sociale subita, ma un’attitudine scelta nella piena consapevolezza della fiducia che il credente ascrive a Dio e alla sua signoria. In tal modo l’annuncio di felicità è rivolto a quelle persone che indotte dallo spirito, si sono rese «povere per il Regno».
    L’espressione è riletta e applicata ai credenti di ogni tempo che hanno liberamente scelto di «curvarsi» davanti a Dio, affidando a Lui solo il loro destino e attingendo da Lui la forza per lottare. In tale prospettiva esistenziale, l’atto di affidamento del credente costituisce il germe della rivoluzione interiore e del cambiamento esistenziale dell’umanità[13]. La motivazione collegata alla felicità dei poveri è già al presente una partecipazione al dinamismo del «regno dei cieli» (vv. 3.10). Esso riveste un’importanza decisiva per designare l’azione sovrana, trasformatrice e salvifica di Dio nella storia umana. L’espressione «perché di essi è il regno dei cieli» assume una valenza singolare: i poveri, che non posseggono beni, diventano «proprietari» del regno dei cieli. Ad essi appartiene il dinamismo trasformate del mondo, il potere regale di Dio che agisce mediante l’amore.

    Beati coloro che sono nel pianto

    La successione dei temi che caratterizza il discorso di Gesù descrive un processo di liberazione, a partire dalla fondamentale e ineludibile realtà della sofferenza provocata dai distacchi e dall’esperienza della morte delle persone care. In tale orizzonte si colloca la seconda beatitudine: «Beati coloro che sono nel pianto perché saranno consolati» (5,4). È la condizione di chi sperimenta il dolore del lutto, la sofferenza dei distacchi, lo smacco di fronte ad una catastrofe familiare, sociale o nazionale o anche la partecipazione alle disgrazie altrui. L’afflizione è la comune esperienza dell’essere umano e Gesù-messia è venuto a confortare e consolare tutti gli afflitti (cf. Is 61,1-3). Oltre all’afflizione prodotta dalle situazioni esterne di sofferenza, vi è anche un dolore generato dal peccato personale, come ricorda Giacomo nella sua lettera (cf. Gc 4,8-10). Coloro che piangono per le diverse condizioni esistenziali indicate, sono persone ferite, prostrate, abbattute e per questo vulnerabili. Il loro amore per Dio rischia di essere schiacciato dall’afflizione, dalla solitudine, dalla malinconia che spinge alla disperazione. La beatitudine di Gesù si rivolge proprio a loro, affermando che il loro affidamento alla volontà di Dio vissuto con tutto il cuore fin dal presente, porterà nel futuro alla piena consolazione. È Dio il protagonista che donerà consolazione, cambiando radicalmente la sorte degli afflitti, così come avviene nella parabola di Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31). Anche questa seconda beatitudine fa emergere la paradossalità del binomio «afflizione-consolazione» e il cambiamento radicale della condizione esistenziale e spirituale del credente: dalla valle di lacrime alla città della gioia, dove le lacrime saranno terse e Dio dimorerà con il suo popolo fedele (cf. Ap 21,3-4). La situazione di sofferenza dei credenti deve essere fin dal presente oggetto di consolazione da parte della comunità ecclesiale, chiamata a sostenere i deboli, consolare gli afflitti, prendersi cura dei tribolati[14]. Annota papa Francesco: «Saper piangere con gl altri, questo è santità»[15].

    Beati i miti

    Segue la terza beatitudine: «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5). L’associazione terminologica tra i «poveri in spirito» e i «miti» suggerisce uno stretto collegamento della prima con la terza beatitudine. Tuttavia nell’approfondire il motivo della mitezza emergono aspetti specifici di tale condizione. Ci aiuta a comprendere chi sono le persone «miti» la motivazione della beatitudine: «i miti avranno in eredità la terra» (cf. Sal 37,11). Nel Sal 37 i miti sono in una situazione di conflitto e sono posti in contrapposizione con i malvagi. Essi sono invitati a non adirarsi e a non invidiare i malvagi (37,1) ma a confidare nel Signore e a perseverare nel bene. In questo modo colui che vive la mitezza diventa un segno luminoso di giustizia, di fecondità, di sicurezza e di pace per tutto il popolo (37,3). La condizione interiore della persona mite è quella di sperare in Dio con un atteggiamento umile e silenzioso, non irritarsi per il successo e la protervia dei malvagi, desistere dall’ira e deporre lo sdegno (37,8).
    Solo in Mt 11,29 il Signore si autorivela come «mite e umile di cuore». Nella logica della mitezza del «messia pacifico» (cf. Zac 9,9) Gesù fa il suo ingresso trionfale a Gerusalemme (Mt 21,5). Nello sviluppo della riflessione paolina la mitezza è tra i doni dello Spirito Santo (Gal 5,2) e rappresenta una caratteristica dello stile ecclesiale. Possiamo riassumere il contenuto della mitezza (praútēs) nella capacità di esercitare equilibrio nelle relazioni interpersonali e di costruire una convivenza pacifica e rispettosa del prossimo. La beatitudine aggiunge che i miti «erediteranno la terra». Si tratta di una promessa messianica molto importante nell’ebraismo, che risale alla vicenda di Abramo (Gen 12,7) e si compie nell’evento della liberazione dalla schiavitù di Egitto attraverso l’esodo di Israele e il patto di alleanza con Yhwh al Sinai (cf. Es 19-24). Il cammino attraverso il deserto e l’ingresso in Canaan hanno rappresentato per Israele il segno che Dio compie le sue promesse[16]. Facendo propria questa prospettiva illustrata nel Sal 37,11, Gesù conferma la promessa divina ai credenti. La terra però non si riferisce a un mero possesso geografico ma alla dimora eterna (Mt 19,29) che risponde all’idea del «regno dei cieli» (cf. Mt 25,34). Esercitando la virtù della mitezza, i credenti saranno beati perché si sono sottratti alle logiche di potere e di prevaricazione, mentre hanno saputo costruire rapporti di armonia basati sul rispetto del prossimo sul modello di Gesù «mite e umile di cuore»[17].

    Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia

    La quarta beatitudine recita: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (5,6). La quarta e l’ottava beatitudine parlano di «giustizia» (dikaiosýnē: 5,6.10), mostrando l’importanza che questa virtù riveste nella nostra pagina, nel primo discorso di Gesù (cf. Mt 5,20; 6,1.33) e nel Vangelo[18]. La «giustizia» è ritenuta un motivo-guida della predicazione di Gesù nel primo vangelo. L’evangelista adopera il termine dikaiosýnē presentando l’intera missione del Cristo come «via della giustizia» (Mt 21,32) preannunciata dal Battista (Mt 3,3; 11,10). Lo stesso battesimo diventa occasione di rivelazione del progetto salvifico di Dio che consiste nel «compiere tutta la giustizia» da parte del Figlio (3,15). Fin dall’inizio del racconto evangelico, Matteo colloca la figura messianica di Gesù di Nazaret nell’orizzonte teologico dell’agire salvifico di Dio. Come intendere il concetto di «giustizia» nella nostra pagina? Esso comporta una doppia interpretazione. Anzitutto praticare la giustizia significa vivere rapporti giusti. In tal senso la giustizia corrisponde alla virtù morale dell’equità e del rispetto del diritto altrui. In una seconda accezione la giustizia consiste nell’aderire al progetto di Dio, il solo «giusto» che rende giusti gli uomini. Questo impegno comporta il riconoscimento di Dio nella fede e la piena apertura del cuore di fronte alla volontà celeste. Pertanto desiderare come bene essenziale la giustizia significa accogliere e trasmettere il dono della vita (Mt 6,25-33).
    Sono anzitutto i poveri, i destinatari di questo «invito alla vita» e a credere nel Dio che compie la «giustizia», come viene ricordato nell’Antico Testamento[19]. Essi possono essere certi che il loro diritto non viene dimenticato pur nell’ingiustizia subita, perché con la missione del Figlio, è Dio stesso a fare loro giustizia. Ecco perché la «fame e sete della giustizia» vengono presentate come beatitudine e insieme come esigenza posta ai credenti, perché possano collaborare alla missione di Cristo «superando» la giustizia degli scribi e dei farisei (5,20). La richiesta di Gesù in 6,33 di cercare anzitutto «il regno e la sua giustizia» esprime l’invito a corrispondere all’opera della salvezza. Le sei antitesi riportate in 5,21-48 traducono quella «giustizia migliore» (5,20) che la comunità apprende dall’unico maestro, il Cristo (cfr. 28,18-20), colui che non abolisce, ma porta a compimento la Legge e i Profeti (5,17). «Tale giustizia incomincia a realizzarsi nella vita di ciascuno quando si è giusti nelle proprie decisioni, e si esprime poi nel cercare la giustizia per i poveri e i deboli»[20].

    Beati i misericordiosi

    La quinta beatitudine recita: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (5,7). Con questa ulteriore proclamazione Gesù pone in risalto l’aspetto pratico e «attivo» delle qualità richieste per chi si apre alla dinamica spirituale del regno. La prima esigenza che impegna il credente è l’esercizio fattivo della misericordia e del perdono. Sia l’atteggiamento umano che l’azione divina sono rappresentati dal dinamismo della misericordia (éleos). Raramente nella Bibbia la misericordia si predica per un uomo. Essa è attributo proprio di Yhwh. Egli solo è sorgente di perdono, ha «viscere di compassione» (eb.: rehem = viscera) ed è in grado di soccorrere i miseri e di rimettere i peccati. Dio esercita la misericordia nei confronti del suo popolo quando sostiene i poveri [21] e redime i penitenti. L’uomo giusto che incarna questa beatitudine è colui che imita Dio nel suo agire verso il prossimo, perdonando le offese ricevute e condividendo la compassione verso i bisognosi. Essere misericordiosi significa partecipare alla stessa dinamica generativa di Dio.
    Nel Nuovo Testamento il modello concreto che riassume il dinamismo della misericordia divina è Gesù di Nazaret; l’evangelista Matteo lo evidenzia sia negli insegnamenti che nello stile missionario. L’invocazione della misericordia rivolta a Cristo ritorna insistentemente nei racconti di guarigione[22]. In essi si mostra come Gesù eserciti la «compassione divina» soccorrendo i bisognosi e commuovendosi per le folle stanche e sfinite come «pecore senza pastore» (Mt 4,23; 9,36). Il comportamento del credente verso chi ha bisogno deve essere connotato dalla giusta compassione, evitando atteggiamenti formali e ipocriti (cf. 23,23). Il collegamento tra la misericordia divina e umana ritorna nella parabola del servo spietato (Mt 18,23-35), che completa la riflessione sulla correzione fraterna e l’invito a perdonare senza misura (18,15-20.21-22). La connessione con la «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo a nostri debitori» (v. 12). In questo senso l’azione divina e la risposta umana fanno emergere la responsabilità del credente soprattutto nelle relazioni interpersonali. Nel cuore pulsante della pagina matteana delle beatitudini si colloca l’agire misericordioso, come dono generativo di vita, strada di felicità, espressione di comunione con Dio e i fratelli, segno di un amore che guarisce le ferite e dischiude la profezia della pace universale[23].

    Beati i puri di cuore

    Nella sesta beatitudine: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (5,8), s’interrompe la serie dei passivi teologici e si evidenzia il motivo del «cuore» (v. 3) associato alla purezza. Secondo la tradizione biblica l’idea del cuore rimanda all’identità interiore della persona umana e assume anche il significato di coscienza. Numerose sono le attestazioni con le quali si attribuiscono al cuore le funzioni intellettuali e razionali. Dio parla nel cuore di ogni persona e questi ascolta e risponde, prendendo libere decisioni nel suo cuore[24]. Esso è la sede dei sentimenti, dell’amore e dell’obbedienza a Yhwh[25]. Dal suo rinnovamento dipende la ripresa della relazione interrotta dal peccato[26]. Dal cuore ben custodito che sgorga una risposta fedele alla parola di Dio[27]. Secondo la promessa, la legge spirituale che contrassegna la nuova alleanza sarà incisa nel cuore di ogni uomo (cf. Eb 8,10). L’azione vivificante dello Spirito si compie nel cuore dei battezzati[28]. Il cuore si presenta come il centro della vita intellettuale, volitiva ed emozionale dell’uomo, come il luogo di origine, di riferimento e d’unità di tutti i suoi rapporti con Dio e con gli uomini. Anche nel Vangelo matteano il cuore è visto come sede della volontà dell’uomo (6,21), dei suoi pensieri (9,4), della cognizione (13,15.19), delle scelte valoriali (11,29; 18,35), degli atteggiamenti verso il prossimo (15,19) e della stessa relazione con Dio (15,8).
    In cosa consiste la purezza? Essa riguarda la condizione dell’interiorità pacificata e autenticamente conforme alla legge divina, che si traduce in rettitudine e integrità di vita. Nella visione anticotestamentaria si distingue la purezza «cultuale», che attiene al rispetto delle norme e ai riti delle prescrizioni legali e la purezza «morale», che riflette la condizione interiore del credente di fronte al peccato[29]. L’invito a convertire il cuore e a renderlo puro mediante uno stile di vita autentico è ripreso soprattutto nella predicazione profetica[30]. L’espressione contenuta nella beatitudine si avvicina al Sal 24,3-4 che recita: «Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro (katharòs tē kardía), chi non si rivolge agli idoli, chi non giura con inganno». Il salmista evidenzia la condizione di integrità interiore del fedele che sale verso il tempio per partecipare ai riti liturgici. Le mani innocenti, la sincerità della vita e la benevolenza verso il prossimo devono contrassegnare il retto agire del credente in tutta la sua esistenza (cf. Sal 15,1-3; 73,13).
    È lo stesso credo di Israele a ribadire che l’amore autentico e totale a Dio deve essere espressione di adesione alla sua volontà «con tutto il cuore» (Dt 6,5). In tale prospettiva Gesù insegna ad aderire a Dio con verità, accettando la sua volontà nella consapevolezza che le intenzioni profonde dell’uomo si radicano nel suo cuore[31]. Dalla ricchezza delle espressioni contenute nel v. 8 si delinea l’ideale della persona capace di costruire relazioni autentiche, con solarità e la trasparenza, in tutta onesta e integrità. Un credente che incarna questa beatitudine diventa «testimonianza» credibile della presenza di Dio nel mondo[32]. La promessa collegata ai puri di cuore consiste nel compimento dell’aspirazione escatologica della contemplazione di Dio. Il «Dio che nessuno ha mai visto» (Gv 1,18)[33] è la meta del cammino umano. Pertanto la santificazione e la pace faticosamente cercata e vissuta sulla terra sono condizioni necessarie per vedere il Signore (Eb 12,14; 1Gv 3,2; Ap 22,3-5). Dal contesto generale si intende il concetto di «visione di Dio» nel senso dell’incontro vitale e della comunione piena con Lui[34].

    Beati gli operatori di pace

    La settima beatitudine recita: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (v. 9). È importante sottolineare la relazione tra felicità e pace (shalôm). Essa è insieme dono divino e frutto dell’impegno umano. «Uomini di pace» sono coloro che non provocano liti, sono disponibili alla riconciliazione e capaci di ricomporre i dissidi tra contendenti. L’espressione «operatori di pace» (eirēnopoioí) unica nella Bibbia, contiene una dinamica propositiva ed evangelizzante. Essa designa l’azione sistematica di chi, pazientemente come un artigiano che lavora nella sua bottega, costruisce con arte e sapienza, una cultura della solidarietà e di ascolto, sa valorizzare ogni persona, promuove relazioni di concordia, di accoglienza e di riconciliazione (Gc 3,18). La pace nella Bibbia non si limita a una semplice assenza di guerre, ma abbraccia una serie di relazioni che riguardano l’armonia familiare, la sicurezza comunitaria e l’agire socio-politico. Il «fare la pace» può essere applicato alle relazioni tra uomini o all’azione stessa di Dio che opera nella storia. In alcuni casi l’impiego della pace allude alla felicità e alla situazione di benessere dei singoli e della società[35]. In prospettiva escatologica la pace si collega al dono della salvezza dell’era messianica e al godimento di tutti i benefici divini. I discepoli devono essere i primi annunciatori della pace (Mt 10,12-13). Nel Nuovo Testamento l’azione di fare la pace è attribuita a Cristo, il Figlio amato dal Padre (Col 1,20) che nella pasqua realizza la riconciliazione degli uomini (2Cor 5,18a; Col 1,14). È rilevante l’impiego teologico di «pace» in Efesini, dove Paolo identifica il Figlio di Dio con la pace (Ef 2,14) perché ha unificato i due popoli nell’unica Chiesa. Inoltre la pacificazione ha come conseguenza la realizzazione dell’«uomo nuovo» (Ef 2,15; cf. Col 3,9-11) e la diffusione universale del «vangelo della pace» (2,17).
    Anche se il termine eirḗne è poco presente in Matteo, tuttavia l’idea della pace ritorna in diversi contesti che implicano perdono, riconciliazione e guarigione nelle relazioni interpersonali. Lo stare in pace con tutti è un’esortazione di Gesù stesso (Mc 9,50), ripresa nella parenesi paolina[36]. Nel discorso della montagna Gesù invita, prima di portare l’offerta all’altare, a fare pace con il fratello che si trova in conflitto (Mt 5,23-24). Perché l’azione cultuale sia autentica e valida, il credente è chiamato a fare il primo passo della riconciliazione. La relazione tra pace e perdono è espressa nel discorso ecclesiale e motivata dalla responsabilità del singolo e della Chiesa a correggere e pregare per chi ha sbagliato (Mt 18,15-22).
    La conseguenza della beatitudine è la promessa che gli operatori di pace saranno chiamati «figli di Dio». Secondo la tradizione anticotestamentaria la condizione di «figlio di Dio» è attribuita al re[37], ma riservata anche per i giusti (Sal 82,6) e in generale applicata a Israele stesso (Sal 2,7). Se per l’antica alleanza la paternità divina ha un significato tendenzialmente morale e pedagogico, nella rivelazione neotestamentaria Gesù rivela il Padre e mostra che Egli è la sorgente vitale a cui tutto e tutti devono tendere. È stata osservata la stretta connessione di questa beatitudine con la sesta antitesi, che Gesù pronuncia nel suo insegnamento sulla nuova legge: «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» (5,45). La partecipazione alla figliolanza divina dei credenti è collegata con la preghiera e il perdono dei persecutori. In questa linea si deve comprendere l’esortazione a essere perfetti come il Padre celeste (Mt 5,48) e a esercitare il perdono (6,12; 18,33), avendo piena fiducia nella provvidenza del Padre (6,25-34). Il motivo della figliolanza divina dei battezzati è ripreso in prospettiva escatologica in Lc 20,36, ma la sua rielaborazione teologica è attestata soprattutto nella teologia paolina (cf. Gal 4,4-7; Rm 8,14-17) e giovannea (1Gv 3,1). I credenti sono figli e artigiani della pace «perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza»[38].

    Beati i perseguitati per la giustizia

    L’ottava beatitudine recita: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (5,10). Segue un’ultima dichiarazione più estesa, che ha lo scopo di concludere la serie delle beatitudini: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi» (v. 11-13). Data la connessione tematica tra le due asserzioni, diversi commentatori ritengono che siamo di fronte a un’unica beatitudine articolata in due dichiarazioni distinte. L’affermazione dei vv. 11-12 interrompe lo stile formale delle precedenti e insiste sugli stessi destinatari che si trovano in una situazione di persecuzione[39].
    Colpisce l’improvviso cambiamento di situazione rispetto a ciò che precede (vv. 3-9). Più che un agire, i destinatari subiscono persecuzione. La posizione conclusiva di questo tema permette di collegare il dinamismo della felicità al realismo della prova e della tribolazione a motivo per la giustizia (v. 10:) e la testimonianza per Cristo (v. 11). Si coglie ancora più intensamente la paradossalità dell’esperienza di fede cristiana. Il primo evangelista sottolinea più di tutti il motivo della persecuzione, menzionandolo in tre discorsi.
    La beatitudine della persecuzione per la giustizia è espressa prima in terza persona plurale (v. 10) e dopo è ripetuta in seconda persona plurale (v. 11), per applicarla agli astanti e in modo speciale ai discepoli. Essi saranno insultati, perseguitati, fatti oggetto di menzogna e di ogni malvagità. Tutto questo avverrà per causa di Gesù. Essi però devono seguire la prassi del perdono e della non violenza, accettando pazientemente la prova della persecuzione. La «giustizia» corrisponde al progetto salvifico di Dio, che rende giusta l’umanità attraverso il mistero pasquale del Figlio. Più avanti nel discorso della montagna Gesù affermerà che i credenti dovranno perfino amare i nemici, pregare per i persecutori, per essere «figli del Padre celeste, egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (5,44). Nel discorso missionario Gesù istruisce i Dodici in caso di persecuzione: «Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra» (10,23). Il comportamento pratico dei missionari dovrà essere ispirato alla prudenza, prevendendo anche la fuga come risposta a possibili persecuzioni. Un ultimo annuncio è inserito nella requisitoria che il Signore rivolge ai suoi avversari (scribi e farisei) in 23,34. Il destino che ha caratterizzato il Signore, connoterà anche la missione dei credenti (cf. 10,5-15; Gv 15,20). I discepoli inviati a evangelizzare e testimoniare la salvezza di Dio sono paragonati ai profeti dell’Antico Testamento, perseguitati dai loro avversari del tempo (cf. 5,12).
    La Chiesa primitiva è stata oggetto di persecuzione in odio alla fede[40]. L’esperienza di Stefano il primo martire (At 7) e di tutti gli apostoli è caratterizzata da prove e persecuzioni subite a causa del Vangelo. Spicca per la sua intensità autobiografica la testimonianza di Paolo che si definiva «bestemmiatore, persecutore e violento» (1Tm 1,13). Scrivendo al suo fedele discepolo Timoteo, l’Apostolo dichiara: «Tutti quelli che vogliono rettamente vivere in Cristo Gesù saranno perseguitati» (2Tm 3,12). Sono eloquenti le due «beatitudini» di 1Pt 3,9; 4,14 collegate proprio alla persecuzione. La persecuzione per la giustizia è collegata alla presenza attuale e operante del regno dei cieli. In definitiva «accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità»[41].

    Rallegratevi ed esultate

    Il destino dei credenti è unito a quello di Gesù crocifisso e risorto. Per questo l’essere oltraggiati e perseguitati prefigura la sorte del Figlio amato (Mt 3,17; cf. Is 42,1), che indossa i panni del servo sofferente (Mt 12,15-21; cf. Is 42,1-4) e cammina nell’obbedienza e nella fedeltà alla volontà del Padre fino alla fine (26,36-46). Le beatitudini non si comprenderebbero nella loro luce pasquale se non fossero completata dal v. 12: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Questi due verbi rafforzano la speranza, perché esprimono la gioia interiore l’esultanza esteriore per la «grande ricompensa» che Dio concederà alla fine della storia. Possiamo intravvedere in quest’ultimo passaggio la sintesi della motivazione escatologica che caratterizza l’esistenza dei credenti. Il tratto caratteristico dei vv. 11-12 è rappresentato dalla ripresa dell’intero messaggio delle otto beatitudini e dalla loro applicazione effettiva. Proprio perché questo «discorso» è profondamente realistico e non prospetta illusioni, ideologie o miti, i credenti sperimentano concretamente nella loro debolezza, questa dialettica contraddittoria della persecuzione e della gioia. La paradossale felicità proclamata nelle otto beatitudini è completata dall’invito alla gioia e all’esultanza pasquale ed escatologica.

    Controcorrente

    La «forza rivoluzionaria» delle Beatitudini evangeliche consiste proprio nel misterioso paradosso espresso nella Parola del Vangelo e declinato nel quotidiano. Esse costituiscono un programma di vita per ogni credente che ha scelto di seguire Cristo. Nella sua missione Gesù incarna pienamente il loro messaggio. Egli è il povero in spirito, l’afflitto, il mite, colui che brama la giustizia e vive la misericordia. Egli ha un cuore puro ed è artefice di pace. Egli è perseguitato per causa della giustizia. Tutto questo si compie nel nostro presente, quando rispondiamo alla sua chiamata nel cammino di santità mediante il dinamismo dello Spirito Santo[42]. L’attualità delle Beatitudini è sconvolgente e sembra ripeterci che è possibile cambiare gli altri, solo se scegliamo oggi di «cambiare dentro». La felicità di Cristo consiste nel rispondere a un progetto di vita «controcorrente».

     

    NOTE

    [1] Francesco, Gaudete et exultate. Esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19.03.2018), n. 63.
    [2] Cf. S. Grasso, Il Vangelo di Matteo. Commento esegetico e teologico, Città Nuova, Roma 2014, 139-140; H. B. Green, Matthew, Poet of the Beatitudes (JSNTSS 203) Sheffield Academic, Sheffield 2001.
    [3] Cf. R. Fabris, Matteo, Borla, Roma 1982, 110.
    [4] Sulla valenza etica e sul tema della felicità connesse con Mt 5,1-12, cf. S. Pinckaers. La via della felicità. Alla riscoperta del Discorso della montagna, Edizioni Ares, Milano 2011.
    [5] Per l’approfondimento del tema, rimandiamo ai lavori autorevoli di J. Dupont, Le Beatitudini. 1. Il problema letterario; 2. La buona novella, Paoline, Roma 31976; Id., Introduction aux Béatitudes, «Nouvelle Revue Théologique» 98 (1976) 97-108.
    [6] Cf. K. Stock, Discorso della montagna (Mt 5-7). Le Beatitudini, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1991, 3-5.
    [7] Cf. M. Dumais, Beatitudini, in R. Penna - G. Perego - G. Ravasi (edd.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, 122- 127.
    [8] Cf. Lc 7,23; 10,23; Mt 16,17; Gv 20,29.
    [9] Cf. Lc 1,45; 11,27-28; 14,15.
    [10] La posizione del sedersi ritorna sia nell’insegnamento (5,1; 13,2; 24,3), sia nel giudizio del Figlio dell’uomo (19,28; 25,31; 26,64; cf. 22,44) che nelle guarigioni (15,29).
    [11] «La parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine» (Francesco, Gaudete et exultate, n. 64).
    [12] Cf. Sal 12,6; 14,6; 37, 14; 86,1; 146, 7; Is 58,6-7; 61,1-2.
    [13] Papa Francesco parla di «santa indifferenza» e di libertà interiore (cf. Francesco, Gaudete et exultate, n. 69).
    [14] Cf. Grasso, Il Vangelo di Matteo, 147.
    [15] Francesco, Gaudete et exultate, n. 76.
    [16] Cf. Dt 1,8.21.39; 2,31; Is 57,13; 60,21; 65,9.
    [17] Cf. Francesco, Gaudete et exultate, n. 74.
    [18] Cf. G. De Virgilio, Il sogno di Dio. Giustizia e pace si baceranno, Paoline, Milano 2017, 97-100.
    [19] Cf. Sal 146,7; Is 61,11
    [20] Francesco, Gaudete et exultate, n. 79.
    [21] Cf. Es 33,19; 34,6; Sal 86,15; 103,8; 111,4; 145,8.
    [22] Cf. Mt 9,27; 15,22; 17,15; 20,30-31.
    [23] Annota papa Francesco: «Occorre pensare che tutti noi siamo un esercito di perdonati. Tutti noi siamo stati guardati con compassione divina» (Francesco, Gaudete et exultate, n. 82).
    [24] Cf. 2Sam 7,27; Pr 6,18; 4,23; 2Cor 9,7.
    [25] Cf. Dt 6,5; 8,2; Mt 5,8; Lc 16,15; Rm 10,9-10.
    [26] Cf. cf. Dt 10,16; Ger 4,4; Ez 11,19; 36,26; Gl 2,12; Sal 51,12.19.
    [27] Cf. Dt 8,2; Pr 4,23; 23,26; Lc 8,15; At 16,14.
    [28] Cf. Rm 8,27; 2Cor 1,22; Ef 3,16-17; 2Cor 3,3
    [29] Cf. Is 1,15-18; 29,13;35,8; 52,2; Os 6,6; Am 4,1-5; Ger 7, 21-23; Ez 36,25-26; Sof 3,9.
    [30] Cf Ger 31,33; Ez 11,19; 36,25-26.
    [31] Cf. Mt 12,33-34; 15,8-9.19; 23,25-28.
    [32] «Mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore, questo è santità» (Francesco, Gaudete et exultate, n. 86).
    [33] Cf. Col 1,15; 1Tm 1,17; Eb 11,27; Rm 1,20; Gv 6,46; 1Gv 4,12. Singolare è l’immagine di 1Cor 13,10 «vediamo come in uno specchio…vedremo Dio faccia a faccia».
    [34] Cf. Fabris, Matteo, 121.
    [35] Cf. Gs 9,15; 1Mac 6,49.58; 11,51; 13,37. Erano denominati eirēnopoioí i capi politici ellenisti che sapevano governare i conflitti e intervenire con l’abilità in situazioni di violenza.
    [36] Cf. Rm 12,17-21; 2Cor 13,11; 1Ts 5,13.
    [37] Cf, 2Sam 7,14; Sal 2,78; 89,27-28.
    [38] Francesco, Gaudete et exultate, n. 89.
    [39] Cf. Grasso, Il Vangelo di Matteo, 151.
    [40] Cf. At 5,41; 7,55; 9,4-5; 22,4.7.8; 26,11.14.15; 1Cor 15,9; 2Cor 4,9; Gc 1,2.2.12; 1Pt 1,6; 2,12; 4,14.
    [41] Francesco, Gaudete et exultate, n. 94.
    [42] Cf. Francesco, Gaudete et exultate, n. 65.


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