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    Sant’Apollinare, buon pastore per il suo gregge


    Giovanni Gardini *

    (NPG 2017-04-45)


     

    Sant’Apollinare, martire della fine del II secolo, è stato il primo vescovo di Ravenna. La sua festa liturgica, fin dall’epoca antica, è celebrata il 23 luglio. La più antica attestazione di culto risale a Pietro Crisologo, vescovo di Ravenna nella prima metà del V secolo; nel Sermone 128 egli lo ricorda come buon pastore: «Ecco, è vivo, ecco, come il buon pastore fa sorveglianza in mezzo al suo gregge»[1]. Un testo importantissimo per conoscere la sua figura è la Passio Sancti Apollinaris, datata tra VI e VII secolo. Secondo la tradizione Sant’Apollinare sarebbe originario di Antiochia, città che avrebbe lasciato, insieme all’apostolo Pietro, per recarsi a Roma. Da lì, l’Apostolo, lo avrebbe poi inviato a Ravenna ad annunciare il Vangelo tra i pagani: «Il beato Pietro disse al suo discepolo Sant’Apollinare: “Tu che siedi con noi, ecco che sei istruito su tutto quello che ha fatto Gesù. Alzati e ricevi lo Spirito Santo e nello stesso tempo il pontificato, e recati nella città che si chiama Ravenna. C’è là un popolo numeroso. Predica a essi il nome di Gesù e non aver paura. Infatti tu sai bene chi sia veramente il Figlio di Dio che restituì la vita ai morti e porse la medicina agli ammalati”. E dopo molte parole il beato apostolo Pietro, pronunciando una preghiera e ponendo la mano sul suo capo, disse: “Il Signore nostro Gesù Cristo mandi il suo angelo che prepari la tua strada e ti conceda quanto avrai chiesto”. E baciandolo lo congedò»[2].
    A Ravenna Sant’Apollinare guarisce i ciechi, gli infermi, i muti, sana i lebbrosi, scaccia i demoni, ridona la vita ad una fanciulla morta, la figlia di Rufo che aveva il comando di Ravenna, la sua parola distrugge le statue degli idoli. Questo genere di miracoli non è estraneo alle grandi narrazioni veterotestamentarie che attribuiscono queste opere al Messia e, nel Nuovo Testamento, è il Cristo che inaugura i tempi messianici con la sua parola e con i segni di salvezza, opere che dopo di lui saranno compiute, nel suo nome, dai suoi discepoli. La Passio, raccontandoci le grandi opere di Sant’Apollinare, intende mostrare come la sua vita sia conformata a quella di Cristo nell’obbedienza al Padre e nella fedeltà alla voce dello Spirito Santo.
    C’è un dettaglio che vale la pena rilevare: il racconto agiografico inaugura l’opera taumaturgica di Sant’Apollinare descrivendoci la guarigione dalla cecità del figlio del soldato Ireneo e termina con il racconto della guarigione del figlio del giudice Tauro, cieco dalla nascita, come se tutta la missione e predicazione di Sant’Apollinare fosse posta nell’opposizione Luce/tenebre, riconoscimento del vero Dio/idolatria. Eloquenti sono le parole con cui egli si rivolge a Dio Padre per chiedere la guarigione del figlio del soldato Ireneo, parole che confermano come tutta la predicazione di Sant’Apollinare vada compresa all’interno del dono della vista, dove la cecità non è cosa fisica, bensì del cuore, come quella brachicardia dei discepoli di Emmaus precedente l’incontro con il Risorto (cf. Lc 24, 25), come quella durezza di cuore di chi non ha fatto esperienza della misericordia sorgiva di Dio: «Dio che non da qualche parte, ma dappertutto sei, introduci in questa città la conoscenza del Figlio tuo, il Signore nostro Gesù Cristo, non solo per illuminare questi occhi del corpo, ma anche per aprire gli occhi interiori del popolo che abita in questo luogo, in modo che, riconoscendo essi subito che tuo Figlio Gesù Cristo è il loro Dio, a me sia concesso un luogo per la predicazione con grande risultato»[3].
    La Passio registra l’attività missionaria del Santo oltre la sua città di elezione, nell’Emilia, lungo le coste di Corinto, dove farà naufragio, lungo le rive del Danubio e infine in Tracia, presentando così la figura di Sant’Apollinare come quella di un instancabile e appassionato evangelizzatore itinerante. Il ritorno a Ravenna segna, nel racconto agiografico della Passio, l’ultima parte di vita del Santo: il testo riporta gli ultimi miracoli compiuti e il suo costante annuncio della Parola del Signore prima di subire il martirio per mano dei pagani, non lontano dalla città di Classe, luogo dove verrà sepolto «in un’arca di sasso», in un sarcofago. Sulla sua sepoltura, nella metà del VI secolo, sarà innalzata la grande Basilica in suo onore dove ancor oggi sono custodite le sue sante reliquie.
    Nel mosaico del catino absidale egli è raffigurato nella classica posa dell'orante con le braccia alzate e le mani rivolte al cielo; come sommo sacerdote intercede per il suo popolo. Egli celebra nell'Eucarestia il mistero della passione, morte e resurrezione di Cristo richiamato dall'iconografia della Trasfigurazione, evocato dalla croce gemmata, simbolo di Cristo, e dalle tre pecorelle, Pietro, Giacomo e Giovanni. Il nimbo gli cinge il capo e un’iscrizione latina, preceduta dalla croce, ne ricorda il nome e la santità: + SANCTUS APOLENARIS. La sua veste è decorata da numerose api d'oro, richiamo simbolico all'operosità e sapienza del vescovo e al suo compito di annunciatore della parola buona del Vangelo, dolce e nutriente più del miele.
    Sant’Apollinare è raffigurato al centro di un gregge, di cui - come Cristo - è custode amorevole; sulle spalle porta il pallio, simbolo del vescovo buon pastore (Lc 15, 4-7). Il pallio rappresenta - come ebbe a dire Benedetto XVI - la pecorella smarrita «quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa. L’umanità - noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi - Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l’un l’altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore»[4].
    Sant’Apollinare, come direbbe Papa Francesco, è pastore con «l’odore delle pecore», cura il suo gregge e lo educa; lo educa, perché lo ama di un amore immenso[5].

    * Direttore Ufficio per la Pastorale della Cultura, Diocesi di Ravenna-Cervia

    NOTE

    [1] Pietro Crisologo, Opere di San Pietro Crisologo, Sermoni/3, 125-179 e Lettera a Eutiche, Ed. bilingue, Milano, Biblioteca Ambrosiana; Roma, Città nuova, 1997, p. 35. Approfondimenti sulla figura di Sant’Apollinare e sui monumenti e simboli di Ravenna si trovano al seguente sito: https://giovannigardini.com
    [2] M. Pierpaoli, Storia di Ravenna. Dalle origini all’anno Mille, Longo Editore, Ravenna 2001, p. 250.
    [3] Pierpaoli 2001, p. 250.
    [4] Benedetto XVI, Omelia nella santa messa per l'inizio del ministero petrino, 24 aprile 2005.
    [5] Papa Francesco, Omelia per la Messa del Crisma, giovedì Santo, 28 marzo 2013.


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