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    Pastorale giovanile e Social Network. Prima l’incontro, poi il racconto


    MEDIA E ANIMAZIONE PASTORALE /3

    Fabio Pasqualetti

    (NPG 2017-07-48)

    Se ci domandiamo quali sono i media più utilizzati dai giovani oggi, la riposta è una sola: la rete. La rete, però, più che un medium è una tecnologia capace di veicolare tutti gli altri media e i loro linguaggi, rendendoli disponibili su scala globale ovunque ci sia un accesso a internet. Possiamo allora dire che i giovani continuano ad ascoltare musica, a vedere film, in particolare le fiction televisive, a leggere, cercare informazioni, giocare, ecc., ma tutto viene fatto attraverso la rete, dove certamente l’attività più intensa e continua da loro praticata è quella della socializzazione mediata dai Social Network (SN). Anche se la rete è molto di più – grazie alla rivoluzione digitale e al World Wide Web, oggi è possibile accedere e interagire in rete con persone e prodotti di ogni genere – per molti giovanissimi essa finisce per coincidere con i SN.

    Social Network

    In questa sede ci occuperemo solo dei SN, riflettendo sul ruolo che svolgono nella vita dei giovani e, più in generale, nella società contemporanea. La riflessione che propongo spero possa servire sia a coloro che, impegnati nella pastorale giovanile, desiderano operare nei SN, sia a quanti già vi operano, in questo caso offrendo loro un’occasione di confronto.
    I SN sono una realtà presente nella vita di miliardi di persone. Se inizialmente venivano considerati come una vita parallela o virtuale rispetto a quella “reale”, oggi tutti sono propensi a pensarli come uno spazio di interazione sociale che si compenetra alle varie forme di socializzazione praticate ogni giorno nella vita reale: a scuola, a casa, al lavoro, in pratica in ogni luogo, dove è possibile un collegamento alla rete. I SN rispondono al bisogno di sentirsi connessi, per esprimere se stessi, coltivare amicizie, creare nuovi legami, scoprire cose nuove, esplorare e fare esperienze.
    Lo specifico dei SN, tuttavia, è che rimangono una comunicazione mediata e controllata: chi usa un profilo pubblica ciò che vuole (scritti, immagini, video, musiche e quant’altro è possibile fare sulla piattaforma) e lo fa in vista del tipo di relazione o impatto che desidera stabilire o suscitare nel pubblico della rete. Anche se le persone sono convinte di rimanere se stesse in quello che proiettano di sé, è importante tenere conto che – a livello conscio o inconscio – agisce sempre una sorta di narcisistica compiacenza nel sapere che tutto ciò che viene postato ha un potenziale pubblico planetario: la metafora della piazza rimane sempre valida. Per quanto uno possa far finta di niente, sa di esibirsi in piazza. Con una grande differenza (spesso dimenticata): mentre nella piazza reale la distanza fisica riduce la possibilità di curiosare e di ascoltare gli altri (non si è tutti contemporaneamente sul palco!), la piazza virtuale porta tutto in primo piano, a volte con un sconcertante effetto di prossimità.
    Parlare di SN, per la maggior parte delle persone, vuol dire riferirsi a Facebook, dal momento che è il più diffuso e il più usato; ma non si deve sottovalutare il fatto che ci sono altri SN, che non solo rispondono ad esigenze specifiche – ad esempio LinkedIn, pensato per il mondo del lavoro – ma sono calibrati su diverse sensibilità e percezioni che le nuove generazioni hanno nei confronti di SN. Basta parlarne con un preadolescente: vi descriverà Facebook come qualcosa di vecchio, usato dai suoi genitori; probabilmente avrà anche lui un account, ma perché glielo hanno imposto i genitori, ma non sarà certo il SN che frequenta. Molto probabilmente vi dirà che ha un account con Snapchat, un SN che offre servizio di messaggistica per smartphone e tablet, nato nel 2011 da Bobby Murphy ed Evan Spiegel a Los Angeles. Questa l’originalità del servizio: ciò che viene postato (testo, foto, video) è visibile solo alle persone selezionate dall’utente e, una volta ascoltato o visualizzato, si autodistrugge. Snapchat offre anche il servizio Mystory che, come dice il nome, permette di creare attraverso le foto piccole storie, che restano disponibili per 24 ore. Come tutti gli altri SN, Snapchat offre anche servizi di messaggeria e videochiamate. L’istantaneità, la cerchia confidenziale degli amici, l’autodistruzione dei contenuti rende questo SN molto appetibile per i giovanissimi, che affermano di sentirsi così più liberi di essere se stessi.
    L’autodistruzione dei contenuti può spingere l’utente a fare un uso ardito e azzardato di questo SN; ed è questo, credo, l’aspetto più intrigante per i giovanissimi, che rischiano così di esporsi a situazioni che possono sfociare in tragedie, proprio perché – nonostante l’autodistruzione del contenuto – c’è sempre tempo, per chi riceve il messaggio, di salvarlo e di rilanciarlo. Il mondo dei SN è quindi molto variegato: potremmo continuare ad elencare e spiegare altri SN, come Twitter, Istagram, WhatsApp, LinkedIn, GroupMe, Tumblr, Yik Yak, ecc. con il rischio di fare un articolo di tipo prevalentemente tecnico, comunque insufficiente a fornire quell’informazione specifica sui singoli SN che ognuno può recuperare dalla rete.

    Per mettersi in gioco

    Affrontando ora il tema di un possibile rapporto tra pastorale giovanile e SN, il primo passo da compiere è una scelta accurata del SN da utilizzare: non si tratta soltanto di conoscere bene le funzioni e i servizi che offre; dobbiamo essere consapevoli che è indispensabile un costante monitoraggio delle attività avviate e che il tipo di legame costruito dai SN rimane, comunque, debole. Al riguardo va ricordato il cosiddetto numero di Dunbar, la teoria che ha studiato quanti siano i legami che una persona riesce a mantenere a livello sociale: se possono arrivare a 150 le persone con cui riusciamo a mantenere una qualche forma di relazione, quelle con cui stabiliamo dei rapporti veramente significativi non superano le dita di una mano. Indubbiamente i SN sono strumenti aggregativi, organizzativi, di narrazione e di condivisione; va comunque posta, però, la domanda di quanta energia convenga investire in legami che sono assai numerosi, ma che restano deboli e, per lo più, poco significativi.
    Ma non è questo il punto su cui mi vorrei soffermare. Propongo un percorso diverso, forse anche un po’ ostico, per riflettere sull’idea che nella cultura contemporanea, sempre più orientata verso una comunicazione mediata, è necessario offrire ai giovani esperienze e modalità dello stare insieme che permettano ad ognuno di loro di mettersi in gioco in prima persona.
    Organizzo dunque la riflessione alla luce di due articoli recenti, significativi e stimolanti: il primo ci fa incontrare il lato oscuro dei SN e svela chi sta manipolando i nostri dati per trarne profitto; il secondo – sul filo del paradosso a cui alludeva il paragrafo precedente – parla di esperienze che restituiscono la bellezza della complessità umana.

    Il lato oscuro dei Social Network

    Il primo articolo si intitola La politica ai tempi di Facebook ed è stato scritto da Hannes Grassegger e Michael Krogerus per il quotidiano Das Magazin (Svizzera); in italiano è stato pubblicato dalla rivista Internazionale (n. 1186 – 2017). Il secondo, di Orazio La Rocca, è apparso su Repubblica.it (08.01.2017) e ha come titolo Preghiera e dibattiti: niente discoteca, a Modena la 'febbre del sabato sera' è in parrocchia. Letti i due titoli, il lettore potrebbe domandare non solo quale relazione ci possa essere tra i due articoli, ma anche come possano essere collegabili al tema oggetto di questo articolo. Con la speranza che non abbandoni la lettura proprio adesso, assicuro che sono davvero molti gli spunti di riflessione interessanti.
    I protagonisti del primo articolo sono Michal Kosinski, Alexander James Ashburner Nix e Donald Trump. Kosinski è un esperto di psicometria[1], Nix è l’amministratore delegato della Cambridge Analytica e Trump è il 45mo presidente degli Stati Uniti. La storia ha al centro la combinazione delle analisi psicometriche, i Big data[2] e le campagne elettorali. L’importanza dei big data è legata al fatto che tutto ciò che facciamo in rete lascia delle tracce e queste sono registrate e conservate dalle società che “offrono” i vari servizi. Per molto tempo l’utilità di questa enorme quantità di dati era incerta: non si capiva bene fino a che punto fossero un’opportunità o un pericolo. Ora le cose si stanno chiarendo ed emerge uno scenario problematico e inquietante. Lo scorso 9 novembre, il giorno della vittoria di Trump negli USA, si è scoperto che la sua campagna elettorale era stata curata dalla stessa agenzia impegnata in Inghilterra per la Brexit, la Cambridge Analytica, una delle più grandi agenzie di raccolta, studio e analisi dei big data.
    Ma facciamo un passo indietro. Kosinski era un brillante studente dell’Università di Varsavia; nel 2008 ebbe l’opportunità di fare il dottorato a Cambridge nel centro di Analisi Psicometrica. Durante questo periodo di studi collaborò con un altro dottorando, David Stillwell, che aveva creato un programma per smartphone con il nome di MyPersonality. Questa app permetteva agli utenti di Facebook di costruire un proprio profilo psicologico compilando dei questionari che includevano anche dei quesiti psicologici basati sui big five, le macro-categorie usate dalla psicometria per descrivere la diversità tra gli individui. I big five sono solitamente riconducibili a queste caratteristiche: openness (apertura mentale), conscientiousness (coscienziosità), extraversion (estroversione), agreableness (amicabilità), neuroticism (emotività). Kosinski e Stillwell elaborarono un metodo che combinava i risultati ottenuti con i questionari basati sui big five con quelli che gli stessi utenti fornivano tramite l’interazione su Facebook, per esempio i like, le foto, i preferiti, ecc. Nel giro di pochi anni Kosinski e la sua equipe arrivarono ad affinare il metodo di ricerca e di analisi, riuscendo ad ottenere una precisione superiore all’85%. In concreto riuscivano ad identificare molti parametri degli utenti, come sesso, etnia, religione, orientamento politico e sessuale, uso di droghe o di alcool, condizioni di vita (singolo, convivente, sposato) ecc. In pratica avevano in mano uno strumento capace di tracciare un identikit altamente preciso e mirato degli utilizzatori della rete.

    Il prezzo siamo noi

    Prima di proseguire la storia, diamo spazio ad una riflessione che possiamo fare già da adesso. I servizi offerti “gratuitamente” dai SN in realtà hanno un prezzo e quel prezzo siamo noi stessi, che forniamo i dati: diventiamo merce di scambio per le grandi agenzie di marketing e non solo, come vedremo tra proco. Già il 10 marzo 2011 il programma di Rai3 Report trasmetteva una puntata dedicata a questo tema. Aveva come titolo Il Prodotto sei tu (rivedibile al link: https://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-47f24a67-0008-4a89-a6b3-ddab3eff9d5e.html) e documentava in modo attento e approfondito come Facebook e Google usino i nostri dati per fare soldi. Eli Pariser nel suo libro Il filtro. Quello che Internet ci nasconde (2011) ricorda l’inizio di questa attività di personalizzazione dei dati, quando Google, il motore di ricerca più usato dalla popolazione della rete, nel 2009 postava un comunicato con il seguente titolo: “Ricerche personalizzate per tutti”. Di fatto però sono pochi a sapere che Google usa circa sessanta indicatori (tra i quali: dove siamo, quale browser stiamo usando, quali ricerche facciamo e abbiamo fatto, quali aree dello schermo usiamo di più, ecc.) per tracciare il nostro profilo e prevedere ciò che ci interessa. È esperienza comune di cercare un prodotto in internet e nei giorni successivi ritrovarci sullo schermo continue offerte relative a quanto ci interessava. Da notare che sono offerte molto personalizzate: infatti basta usare il computer di un amico e Google non da gli stessi risultati della ricerca fatta sul nostro. Google dunque non fornisce le informazioni oggettivamente disponibili, ma quelle che – in base ai dati acquisiti su di noi – ritiene siano di nostro interesse.
    Ritorniamo alla nostra storia. Man mano che Kosinski affinava i suoi strumenti di analisi, si rendeva conto di come le persone, usando computer, tablet, smartphone e app, compilino – di continuo e senza saperlo – dei veri e propri questionari psicologici, dal momento che tutte queste attività lasciano traccia e queste tracce sono dati disponibili ad elaborazioni specifiche. La cosa sorprendente è che l’analisi dei dati funziona anche al contrario: non solo si può creare il nostro profilo a partire dai dati che abbiamo fornito, ma i dati raccolti possono servire per cercare categorie di persone specifiche, come per esempio madri ansiose, padri singoli disoccupati, elettori di destra o di sinistra. Kosinski si rendeva sempre più conto di avere tra le mani una vera e propria bomba.
    Fu all’inizio del 2014 che Kosinski ricevette da parte di Aleksandr Kogan una richiesta di collaborazione per una azienda di cui inizialmente non voleva dire il nome: solo per l’insistenza di Kosinski Kogan disse che si trattava della Strategic Communication Laboratories (SCL). Immediatamente Kosinski fece un’indagine e rimase turbato quando scoprì che la SCL si presentava come una azienda di marketing che basava la sua attività su modelli psicometrici e che tra i suoi servizi offriva la possibilità di influenzare le campagne elettorali. Allora Kosinski ignorava che dietro al SCL si celasse un gruppo di aziende con attività e finalità non del tutto chiare e che tra queste ci fosse anche la Cambridge Analytica, un gigante dei big data, proprio l’azienda che avrebbe lavorato per la Brexit e per la campagna elettorale di Trump. Kosinski, pur non avendo del tutto chiaro il quadro della situazione, si insospettì: tramite Kogan – con il quale ruppe immediatamente ogni rapporto – la SCL doveva essere al corrente dei risultati delle sue ricerche; di più, era probabile che il suo metodo fosse stato copiato e passato alla Cambridge Analytica. Kogan si trasferì in Singapore e Kosinski, finito il suo dottorato, si traferì negli USA.
    I sospetti di Kosinski si concretizzarono quando durante la campagna per la Brexit Niegel Farge, il leader del partito euroscettico, annunciò di aver affidato la campagna elettorale alla Cambridge Analytica; divennero certezza quando nel mese di giugno 2016, in piena campagna elettorale americana, Trump annunciò di aver ingaggiato la Cambridge Analytica. È difficile spiegare in poche righe il processo con cui queste aziende lavorano, ma le truppe digitali di Farge e di Trump, fornite di una app studiata apposta per la campagna elettorale, hanno preso di mira la popolazione inglese e americana, articolando la loro offensiva non in messaggi generici, ma misurati su specifici gruppi di elettori, e non sui media tradizionali, quanto piuttosto attraverso i SN.
    Non entro in merito all’esito delle elezioni inglesi o americane e nemmeno alla questione se il ruolo della Cambridge Analytica sia stato determinante: al riguardo c’è un ampio dibattito in atto. C’è però un dato di fatto che emerge con tutta evidenza: le aziende, che promuovono i SN, sono presenti nella rete per un preciso scopo, il forte guadagno che ne possono ricavare. Non sono enti assistenziali, anche se si presentano con il volto gentile e giovanile, all’insegna dell’innovazione e della socialità. I dati offerti dall’utenza vengono sfruttati in tutte le direzioni possibili: nella migliore delle ipotesi subiamo pubblicità mirata, nella peggiore, come abbiamo visto, diventiamo target di informazioni e di propaganda mirate. Non solo. Credo che dopo il caso Esward Snowden e le rivelazioni di Wikileaks non si possa più avere un atteggiamento naive nei confronti della rete.
    La riflessione va ulteriormente approfondita anche in merito alla semplificazione comunicativa che i SN promuovono. Per loro natura danno più spazio all’emotivo, ad una comunicazione ridotta a dei like o a delle frasi assai brevi. Molto di quanto postato è un rilancio di qualcosa già pubblicato, senza che ci sia lo sforzo di una vera rielaborazione personale. Spesso c’è molta accondiscendenza, oppure, all’estremo opposto, un’aggressività virulenta. Assai ridotto è lo spazio per la dialettica e il dibattito.

    Esperienze positive

    Prendiamo ora in considerazione il secondo articolo annunciato: Preghiera e dibattiti: niente discoteca, a Modena la 'febbre del sabato sera' è in parrocchia. In modo provocatorio Orazio La Rocca (il ‘vaticanista’ del quotidiano La Repubblica) fa un parallelo tra le immagini delle code di giovani che si accalcavano all’entrata delle discoteche nel film La febbre del sabato sera, con l’inaspettata e, per certi aspetti, sorprendente fila di giovani che ogni sabato sera si raduna a Modena nella parrocchia di San Giovanni Bosco, guidata da don Stefano Violi (responsabile diocesano della pastorale giovanile e direttore della Città dei ragazzi). La differenza radicale è che la febbre non è per il ballo, ma per l’ascolto di letture bibliche, per il silenzio, la meditazione, le testimonianze e il dialogo. I primi a rimanere sorpresi per l’adesione, circa duecento giovani, sono stati il parroco e il vescovo mons. Erio Castellucci. Queste serate insolite, nate sull’onda dell’esperienza vissuta alla giornata mondiale della gioventù a Cracovia, sembrano rispondere ad una fame di ricerca di senso, di incontro, di dialogo, di preghiera, di verità. Gli stessi giovani riconoscono che stanno scoprendo qualcosa che li fa crescere dentro; anche l’amicizia sembra più feconda, se fatta in compagnia con Gesù. Certo questa è una storia più semplice, meno intricata, ma ugualmente feconda di spunti di riflessione.

    Alcune conclusioni, ovvie e meno

    Cosa concludere, dopo aver contrapposto due articoli così distanti tra loro per contenuto e forma, e aver promesso una riflessione in merito alla pastorale giovanile e i SN?
    Procediamo dall’ovvio. La rete si sta diffondendo sempre di più a livello planetario come parte integrante della vita di miliardi di persone. In particolare i SN, modalità comunicativa che favorisce il contatto sociale, saranno soggetti ad evoluzione: è probabile che tra meno di dieci anni non siano nemmeno più come li conosciamo oggi. Quello che non verrà meno è la voglia delle persone di conoscersi e di incontrarsi. Abbiamo però evidenziato un aspetto specifico, l’ambivalenza dei SN: le aziende che li gestiscono sono presenti per fare soldi e lo fanno vendendo i nostri dati. Questo deve essere chiaro a tutti coloro che usano la rete: non si può più essere ingenui. Non solo. Abbiamo visto che queste aziende hanno come loro criterio strategico quello di compiacere i nostri gusti e così non ci aiutano ad ampliare la nostra mente e le nostre vedute; al contrario assecondano il nostro narcisismo. Se della comunicazione abbiamo un’idea forte, come strumento di relazione e occasione di approfondimento culturale, non possiamo non avvertire la superficialità, l’emotività, la rapidità con cui i SN consumano eventi, notizie, immagini, insomma tutto quanto viene pubblicato. Infine, e questa è stata la ragione per cui ho scelto di raccontare in sintesi l’articolo su La politica ai tempi di Facebook, dobbiamo essere consapevoli che a rischio oggi è proprio la democrazia come l’abbiamo immaginata e sognata, intesa come possibilità di compiere scelte che siano espressione di atti coscienti e liberi. Sempre di più, invece, stiamo muovendo verso una società che subisce forme di controllo attraverso gli immaginari collettivi, di selezione in classi costruite sulla base dei dati raccolti, di manipolazione dell’organizzazione sociale. Dobbiamo essere consapevoli che ci possono essere aziende che, oltre ai dati che forniamo noi attraverso i SN, dispongono di dati clinici, assicurativi, relativi a transazioni bancarie, ad acquisti fatti online con carta di credito, a viaggi, ecc. Ci avviamo verso forme di controllo che superano quelle immaginate da George Orwell nel romanzo 1984.
    Qualcuno potrebbe obiettare che la rete è parte integrante del nostro mondo e non possiamo farne a meno. Questo però non esclude, anzi conferma, la necessità di un surplus di conoscenza, di consapevolezza, persino di lotta per garantire e tutelare il diritto alla privacy. Ma con questo non è ancora definita del tutto la situazione problematica in cui viviamo, perché c’è un altro aspetto che agisce a livello più inconscio e vale la pena tenere presente.
    I sistemi di comunicazione si affidano ogni giorno di più a procedure artificiali “intelligenti”. Chiunque di noi ha fatto l’esperienza di dover chiamare un servizio aziendale, trovandosi poi ad affrontare un percorso ad ostacoli scandito da una voce sintetica a cui obbedire, con tasti ogni volta diversi da premere per accedere al servizio che, si spera, risponderà al nostro bisogno. La logica di questi come di tanti altri sistemi è la massima semplificazione, che risulta paragonabile a quella richiesta sui SN, dove per esprimere una tua opinione basta un “mi piace” o un “non mi piace”. È vero che ci si può anche fermare per esprimere il proprio parere, ma il dato di fatto è che la maggioranza adotta la scelta minimalista. Il filosofo francese Jean Michel Besnier, nella sua opera L’uomo semplificato (2013) riflette su questa caratteristica della cultura contemporanea, che propone come ideale una vita priva di complicazioni e, per questo, si affida alla linearità dei processi delle macchine, quasi che l’efficienza sia l’equivalente della felicità. Senza rendercene conto ci stiamo inserendo in un mondo di procedure standardizzate, e non potrebbe essere diversamente, perché le macchine funzionano in questo modo. Il messaggio che Besnier tenta di offrire alla nostra meditazione è che la scelta di affidare l’umano alla macchina comporta un prezzo molto alto, ed è appunto il livellamento, la standardizzazione, la riduzione della vita ad algoritmo (una sequenza di operazioni standardizzate). Siamo posti di fronte ad un nuovo uomo che Besnier definisce “scannerizzato” secondo i criteri di un neuromarketing che decide i vari profili e così orienta e manipola i consumi e non solo. È paradossale che nella storia dell’uomo ci siano stati secoli in cui non si è fatto altro che mettere in evidenza la complessità della vita e l’insondabile mistero dell’esistenza, mentre ora sembra che tutto debba essere ridotto ad un pacchetto di dati da organizzare in un algoritmo per ottenere una vita semplice, felice, tutto all’insegna del facile da usare, come se l’uomo, appunto, fosse un ulteriore prodotto tra i prodotti. Besnier si augura una presa di coscienza e la capacità di prendere le dovute distanze da certi automatismi nei quali facilmente scivoliamo.
    A questo punto diventa davvero interessante l’esperienza che a Modena stanno facendo i giovani della parrocchia San Giovanni Bosco. Consapevolmente o inconsapevolmente (non lo so) stanno facendo pratica di complessità, perché lo stare insieme attraverso l’ascolto della Parola, la riflessione, il silenzio, la condivisione e il dialogo crea un ambiente relazionale dove tutta la persona entra in gioco e si relaziona con l’altro, senza mediazioni e semplificazioni. Sono tutte azioni che richiedono tempo: un tempo dilatato, il tempo della gratuità che è all’opposto della pretesa di efficienza.
    Qualcuno potrebbe obiettare che questa è un’esperienza appena iniziata; non si sa quanto durerà, potrebbe essere una delle tante mode passeggere, un ritorno dello spiritualismo, mentre l’attività sui SN va avanti ormai da più di quindici anni e aggrega sempre più persone. Non hanno però come scopo far crescere le persone, né tanto meno sviluppare una coscienza critica; sono dispositivi simpatici, piacevoli, persino utili, a volte preziosi, come nei momenti di emergenza per catastrofi naturali; ma nella normalità sono il brusio della piazza virtuale, gli eredi della distrazione di massa dei media tradizionali. È comunque paradossale che ci sia chi continua a guardare a tutto questo da utilizzatore entusiasta e insieme ingenuo e sprovveduto, mentre c’è chi gestisce enormi database con i nostri dati, che opportunamente assemblati, sono in grado di definire chi siamo, che scelte economiche e politiche facciamo e/o siamo disposti a fare. Ha ragione Besnier: si è adottato la modalità di pensiero delle macchine, la semplificazione acritica.

    Osare in alternativa

    Di fronte a questo panorama emerge una certezza: oggi chi vuole condurre un’azione pastorale efficace per i giovani deve sapere osare, facendo proposte alternative; deve inventare spazi dove le persone si incontrino in modo autentico tra loro e con Gesù, dove si riscopra il fascino della complessità e del mistero che appartengono all’uomo. Non è necessario escludere i SN, perché faranno da cassa di risonanza delle esperienze vissute: sono sicuro che i giovani di Modena avranno postato foto, condiviso e descritto le loro esperienze, perché tutto questo fa parte del bisogno umano di lasciare traccia di sé e di interagire con le persone che si conoscono. Ma, per voler usare un termine che appartiene ad una saga cinematografica, c’è un grande bisogno di pensiero divergente, quello che immagina proposte e soluzioni al di fuori della visione standardizzata, imposta dal pensiero dominante, il quale non ha certo la preoccupazione di educare i giovani all’impegno per il bene comune, alla solidarietà, al sacrificio di sé, alla donazione o all’accoglienza. Ha invece bisogno di persone tanto centrate su se stesse da essere incapaci di capire che cosa stia capitando attorno a loro.
    La proposta di Gesù – “perdere la propria vita per ritrovarla” – è decisamente paradossale e non è certo sufficientemente un like. Vivere Cristo nelle sfide della società contemporanea, come ci ricorda anche papa Francesco nell’enciclica Evangelii Gaudium (secondo capitolo dedicato alla crisi dell’impegno comunitario, nn. 52-75), vuol dire essere capaci di dire: No ad una economia dell’esclusione (nn. 53-54), perché consapevoli che “questa economia uccide.”; No alla nuova idolatria del denaro (nn. 55-56), perché si è capito che il denaro impone una dittatura senza volto e senza uno scopo umano; No ad un denaro che governa invece di servire (nn. 57-58), perché il potere manipolativo e corruttivo del denaro finisce per servire solo i più forti; No all’iniquità che genera violenza (nn. 59-60), perché sono l’iniquità e la disuguaglianza sociale a nutrire la violenza e poi è facile accusare i poveri di essere violenti, quando la prima violenza è nel sistema che non permette una equa distribuzione dei beni. A queste sfide sociali seguono quelle culturali. Una delle principali è quella descritta al numero 62:
    Nella cultura dominante, il primo posto è occupato da ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede il posto all’apparenza. In molti Paesi, la globalizzazione ha comportato un accelerato deterioramento delle radici culturali con l’invasione di tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma eticamente indebolite.
    Nei paragrafi che seguono il Papa esprime la preoccupazione per i fondamentalismi spesso nati in reazione ad una società e cultura materialista. Il processo di secolarizzazione ha ridotto la fede ad una questione personale e intima, privandola della sua dimensione sociale. La negazione del trascendente ha prodotto un progressivo aumento del relativismo, un indebolimento dell’etica e un disorientamento generalizzato sui valori. Tutto questo ha un forte impatto sul vissuto dei più giovani.
    Non serve qui continuare in questo esame: vale la pena invece leggere l’enciclica insieme ai giovani, approfondirla, impegnandoci a viverla. È una sfida da cogliere, se la creatività pastorale vuole promuovere percorsi di crescita e di maturazione nell’esperienza della fede.
    Infine, per proporre una sintesi di quanto si è detto, la scelta da compiere è proporre percorsi di esperienza di vita, narrabili poi anche nella rete. Prima l’incontro, poi il racconto.

    NOTE 

    [1] Scienza e tecnica che individua e misura le caratteristiche di una persona sulla base di elementi concreti raccolti dal suo comportamento
    [2] L’enorme raccolta dei dati relativi al comportamento degli utilizzatori della rete


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