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    (NPG 2017-04-21)


     

    Sir 1,1-10;Mc 9,14-29

    Mentre leggevo questo passaggio del Vangelo non riuscivo a non vedere in quel genitore il volto e la sofferenza della madre di Giò, il sedicenne suicidatosi al Lavagna qualche giorno fa. E anche nella domanda quasi imbarazzata dei discepoli (“Perché non siamo riusciti a scacciarlo”) vedo il volto deluso e implorante, ma soprattutto il tormento della mamma di Giò. Chissà quante lacrime miste a impotenza avrà versato prima di chiedere aiuto! Chissà quante volte, lei – con un lungo percorso pedagogico alle spalle – si sarà chiesta “Perché non riesco a salvare Giò?”, prima di invocare un intervento dall’aria più pedagogica che giudiziaria!
    Il padre del ragazzo del Vangelo dice a Gesù: “Aiutaci e abbi compassione di noi” (Mc 9,22). Dove il “noi” si riferisce all’intero nucleo familiare chiamato a fare i conti con l’incapacità di comunicazione e col senso di una lacerante impotenza di fronte alle manifestazioni di malessere del figlio che mettevano a rischio la sua vita: “Spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo” (Mc 9,22). Il racconto del povero padre rivive la paura vissuta nei momenti in cui il figlio ha rischiato di annegare o di venire gravemente ustionato. E Gesù incontra dunque anche questa forma del dolore umano: il dolore del padre e della madre impotenti di fronte al figlio sofferente.

    Oggi accettare il compito educativo significa – anche – incontrare una fragilità che appare sempre più pervasiva, dilagante e angosciosa. Non vogliamo certo essere pessimisti e pensare l’educazione solo in termini drammatici; ma non vogliamo nemmeno essere ingenui e chiudere gli occhi sulle fatiche di crescere oggi. Trasformare la fragilità dei giovani in “luogo teologico” di annuncio della salvezza è forse la sfida più grande che abbiamo. Quante volte mi è capitato di sentire (anche quando ero parroco) le lamentele di chi avrebbe voluto incontrare solo ragazzi e giovani già formati, pienamente inseriti in una vita di fede. La più classica delle espressioni è quella di chi si lamenta così: “Non sanno fare nemmeno il segno della croce”.
    Una “chiesa in uscita” non è quella che nei confronti dei giovani va chissà dove, ma è quella che si rifiuta di creare isole di “duri e puri” che ce la fanno anche in mezzo a mille guai. “Chiesa in uscita” è quella che sa essere grembo accogliente, che rigenera proprio là dove la vita è già compromessa dal peccato, dalla stanchezza e dalla sfiducia.
    La prima preghiera che questa sera deve salire dal cuore di ciascuno di noi, dunque, è che il Signore ci doni di essere segno di ascolto profondo, di avere un cuore pieno di compassione per le fatiche a cui va incontro ogni figlio di questo mondo nello sforzo di crescere e diventare grande.

    Momento importante nell’incontro di Gesù con il padre del Vangelo è quello in cui Gesù chiede ragguagli sulla malattia del figlio. Il padre collabora con Gesù narrando forme e tempi della malattia. Gesù sa; ma chiede di narrare a coloro che sono a diretto contatto con il ragazzo e dunque hanno una competenza preziosa. Questo vuol dire coinvolgerli in un processo di guarigione.
    Certo, il papà deve armarsi di pazienza. L’incontro di Gesù è molto complesso e lungo: due volte il padre racconta le crisi del figlio (Mc 9,18), due volte Gesù dialoga con il padre (Mc 9,17-19 e 21-24), i suoi interventi terapeutici sono contro lo spirito impuro (Mc 9,25-26) e… poi per il ragazzo (Mc 9,26-27). E dal quadro d’insieme emerge la condizione veramente difficile di questo ragazzo: sempre passivo (agitato, scosso, gettato a terra, condotto a Gesù da altri), non ha capacità di movimento autonomo e di iniziativa propria, incapace di relazione perché sordo e muto, non padrone del proprio corpo. Ci si può chiedere cosa resti di umano in questo ragazzo. L’azione di Gesù condurrà il giovane a iniziare il recupero della voce e della parola (Mc 9,26) e consisterà nel ridargli la posizione eretta (“presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi”: Mc 9,27). Quell’alzarsi in piedi è la prima vera azione di cui il giovane è soggetto.
    Ma vorrei sottolineare che le condizioni penose del ragazzo hanno avuto un riflesso nella psiche e negli affetti dei genitori: è verosimile che sul figlio proiettassero attese facendolo depositario di investimenti profondi, affidandogli eredità e compiti; avrebbero voluto, come si dice, “dargli un futuro”. Ma quale futuro dare a un ragazzo impedito a crescere dalla malattia?
    Di fronte alla cautela del padre che si rivolge a Gesù dicendogli: “Se tu puoi qualcosa, aiutaci”, Gesù ribatte con veemenza ricordando la potenza della fede: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23). Il genitore è così chiamato a fare del calvario dell’accompagnamento di un figlio malato l’occasione di un cammino di fede. La madre di Giò, Mercoledì scorso, iniziò il suo drammatico intervento nella Chiesa di Santo Stefano, usando quasi le stesse parole: “Come fare per trasformare una tragedia straziante in una nuova e dolorosa ripartenza?”. E il padre del Vangelo compie questo cammino che trasforma con implorante umiltà: “Credo, vieni in aiuto alla mia mancanza di fede” (Mc 9,24).
    Questa fede è esperienza pasquale, esperienza di morte e resurrezione. I versetti finali del nostro racconto dicono: “Il ragazzo divenne come morto, così che molti dicevano: «È morto». Ma Gesù, presa la sua mano, lo fece alzare ed egli si levò” (Mc 9,26-27).
    Ritornano qui i quattro verbi del kerygma cristiano, dell’annuncio della morte e resurrezione di Gesù. A significare che il cammino di fede percorso dal padre di questo ragazzo malato è stato un cammino pasquale, un’esperienza di fede pasquale.

    Cari amici, questa sera io vorrei chiedervi proprio questo, a nome della Chiesa italiana: siate persone che vivono la cura nei confronti dei giovani come un’esperienza di fede pasquale. Soltanto se riuscirete a guardare al vostro compito con la speranza nella vita e con gli occhi del Risorto, ne sarete testimoni credibili; guardando ai vostri giovani con gli occhi di Gesù. Che il Signore vi doni – prima di ogni carisma educativo o di ogni capacità di intrattenimento – di avere questo sguardo di misericordia: è l’unico capace di pazienza, di ascolto e di attesa. È l’unico che, davvero, crede nella vita e la fa crescere nella storia. Vi accompagno con la preghiera in questi giorni, perché insieme possiamo vivere questo tempo di grazia e il cammino del Sinodo ormai aperto.

    * Segretario nazionale CEI


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