Marco Uriati *
(NPG 2017-03-33)
Terzo piano
Il primo passo, una decina di anni fa, è stato fatto al terzo piano, l’ultimo del fabbricato che si affaccia sul cortile della parrocchia. La comunità ha dato l’ok ad accogliere e collaborare alla vita di “Samarcanda”: un centro interculturale per pre-adolescenti gestito da una cooperativa sociale. La collocazione non era tra le più prossime alla vita ordinaria del centro parrocchiale, ma quando le relazioni sono care non c’è distanza che tenga, e l’andirivieni, il su-e-giù, con scale e ascensore hanno reso presto variegati i volti e gli accenti presenti in oratorio. Ricordo con precisione le prime chiacchiere fatte a tavolino, al bar del circolo ANSPI, con gli educatori appena arrivati, anch’essi ben differenti per tinte e lingua: lei italiana, bionda, minuta e con gli occhi chiari; lui alto e grosso, scurissimo di pelle, con lingua e usanze del Burkina Faso e una profonda anima da poeta. “Crocevia delle differenze”, così recita uno degli obiettivi di “Samarcanda”, e così sono via via sempre più diventati i cortili dell’oratorio, il saloncino, il campetto da gioco e… tutto il resto.
Piano terra
Poi il contatto con la vita del quartiere, per dare una mano a bimbi e bimbe in difficoltà nell’apprendimento e a famiglie segnate dalla perdita del lavoro o dal dramma dello sfratto. Dopo aver fatto qualche errore (della serie “arriviamo noi e sistemiamo tutto”) si è aperto il sentiero sul quale stiamo camminando. Bussando alla scuola del quartiere e agli uffici dei servizi sociali abbiamo messo a disposizione la passione di alcuni volontari e i locali dell’oratorio. Ciò di cui ci sapevamo non capaci – e oggi ancor di più – era la regia complessiva dei progetti sulle singole persone e sui nuclei familiari. Sono nate alleanze importanti: con i referenti della scuola e dei servizi, con i genitori delle famiglie bisognose e con bimbi e bimbe segnalati per l’accompagnamento. In canonica e nelle stanze a piano terra dell’oratorio – le stesse in cui continuano catechismo e incontri vari – si alternano a tutt’oggi ore di sostegno scolastico, dialoghi con i genitori, consegna mirata di materiali (cibo, vestiti, pannolini, ecc.). Accomunati dalle stesse urgenze e dal medesimo desiderio di bene, uomini e donne varcano le porte dell’oratorio con familiarità, qualsiasi sia la loro appartenenza religiosa e la tradizione culturale di provenienza. C’è chi costruisce muri, a noi – con gioia – è capitato che nei nostri si siano aperti dei varchi.
Estate
Dura quattro settimane, appena dopo la conclusione dell’anno scolastico; l’inizio è segnalato da musica a volume sempre troppo alto, gioiosa confusione e un brulichìo di gente dentro e fuori i confini dell’oratorio. Quando il Gr.Est. è alle porte non occorre pubblicità: il passaparola funziona meglio del web e – senza rendertene ben conto – ti ritrovi seduto in cerchio con più di cento bimbi e bimbe, insieme a decine di adolescenti nel ruolo di animatori, gli uni e gli altri con magliette della medesima tinta – indossate a mo’ di uniforme – dalle quali sbucano braccia e visi con sorrisi multicolore. Va avanti da parecchi anni questo rito collettivo senza il quale la parrocchia e il quartiere ormai si sentirebbero orfani. La sua realizzazione mette in moto una poderosa macchina di gente qualunque: gli anziani della segreteria, le mamme-merenda, gli educatori esperti, i baristi del circolo ANSPI, i genitori addetti al riordino, ecc. Quasi nessuno ha competenze specifiche, tutti però desiderosi di condivisione e fattisi esperti dei riti del mangiare insieme, attenti alle differenti tradizioni alimentari, e del pregare insieme, nella consegna di ciascuno all’unico Padre di tutti. Mensa condivisa e preghiera comune, due perle incastonatesi piano piano nell’esperienza dell’oratorio, con delicatezza, anno dopo anno.
Abitare insieme
Da due o tre anni entrando in canonica sei avvolto da odori che non ti aspetti: non solo di incensi o di candele accese, ma anche di spezie e di cibi africani. Stessa cosa per ciò che ti può capitare di udire: non solo il rincorrersi delle “avemaria” di un rosario recitato in cappella, ma anche la nenia di una ninna nanna o un pianto di bimba. Dal terrazzo e dalle finestre della palazzina, aperte sul cortile dell’oratorio, a sorvegliare le partite di calcetto o le gare a saltelli dei giochi disegnati sull’asfalto non sono più solo il parroco o le suore, ma anche volti di donne e bimbi e bimbe giunti qui dopo aver varcato confini e solcato mari. Abitare insieme, porta a porta, ci ha cambiato la vita. Anche i ragazzi che arrivano in oratorio o – come ogni settimana – condividono un pranzo cucinando una pasta nella cucina della canonica, percepiscono la cosa: la parrocchia non è più solo il luogo nel quale anche chi viene da lontano può passare il pomeriggio, è anche la casa nella quale abita chi ha le sue origini in Nigeria, in Tunisia, nelle Filippine, in Brasile… La vita è concreta e, quando è condivisa, conduce dentro legami prima impensabili; gli aromi si mischiano, le voci si intrecciano, le esperienze si illuminano reciprocamente. Scopri che i bimbi generati da altri sono anche tuoi, ti si affezionano come a un parente caro e può persino accadere di voler fare le vacanze insieme. Quando ci si avvicina con affetto si producono alchimie nuove, non scritte, sperimentali, che profumano l’aria e colorano gli animi della voglia di stare insieme; ti spiegano il Vangelo meglio di tante parole.
Cuore aperto
E poi un bel giorno, sull’onda del “mese della pace” proposto dall’Azione Cattolica dei Ragazzi, ci è venuta voglia di pregare insieme, di ritrovarci per fare proprio solo quello: riunirci per invocare da Dio – il Padre di tutti - il dono della pace. Ragazzi e ragazze di catechismo e dell’oratorio sono entrati nelle movenze di una danza ebraica, hanno ascoltato la testimonianza del Direttore del centro islamico della città e poi, varcata la soglia della chiesa, hanno percorso l’aula dell’assemblea domenicale ascoltando le parole del Vangelo di Gesù e godendo delle immagini di un abbraccio: quello di papa Francesco con il patriarca di Mosca Kirill. Per ora l’abbiamo fatto una volta sola, ma la seconda occasione è alle porte e i contatti sono già scattati, come fosse già una piccola tradizione. Altre realtà presenti in oratorio hanno già detto che desiderano esserci: i “lupetti” del gruppo scout, bimbi e bimbe della scuola russa che si ritrovano ogni sabato per riscoprire la loro lingua e le loro usanze e altri ancora. Condividere le parole e gli spazi della preghiera è un po’ come consegnarsi “a cuore aperto”, mostrarsi in ciò che di più intimo abbiamo, confessare gli uni agli altri il dono di Grazia ricevuto. Mentre risuonano nel grande edificio della nostra chiesa parole e canti, non si può non ricordare che tra le persone che lo tengono in ordine c’è anche un papà che al venerdì partecipa fedelmente alla preghiera comune della comunità islamica e una mamma – credente di quella religione – che ci ha chiesto di ospitare i suoi bimbi nei percorsi di iniziazione cristiana affinchè possano conoscere meglio quel Gesù che lei non conosce bene.
Porte spalancate
Appena la stagione lo consente teniamo spalancate le porte della nostra chiesa, dal mattino presto fino a notte. È un segno che tutti colgono, gli adulti che vanno al lavoro o a far spesa, bambini e ragazzi che vanno a scuola o passano per andare in oratorio. Da pochi mesi all’ingresso è collocata una statua, arrivata in dono: è una “Madonna della misericordia”, con le braccia allargate e il mantello aperto ad accogliere tutti. Intorno a lei una piccola folla di uomini e donne in atteggiamenti molteplici e con i vestiti variopinti. L’avevamo collocata da poco e sul piazzale della chiesa stavamo attendendo l’arrivo della nuova famiglia di rifugiati con la quale condivideremo come comunità un tratto importante di vita. Li intravvediamo da lontano: accompagnati da un amico una mamma si sta avvicinando spingendo una carrozzina a due posti. Arriva sul piazzale e, prima ancora che ci salutiamo, dal seggiolino davanti sguscia giù una bimba; è piccola, un anno e mezzo circa. Ha i capelli ricci sistemati a treccine. Mai ci siamo visti prima, ci guarda un po’, dal basso verso l’alto, si avvicina a uno di noi, allungando le braccia chiede di essere sollevata e poi lo stringe forte con un abbraccio difficile da dimenticare. Poco dopo, mentre procedono saluti e presentazioni – con la sua mamma, con il suo fratellino di pochi mesi, con chi ci ha messi in contatto – la bimba vede il portone della chiesa aperto, sale i pochi gradini, varca la soglia e compie gesti nei quali la vedremo impegnata molte altre volte. Si avvicina alla statua della Madonna della misericordia e saluta una ad una le piccole statue che – come brandello di popolo – sono raccolte dal gesto accogliente di Maria e dal suo ampio mantello. Janet (così si chiama quella bimba) intesse con loro un dialogo fatto di parole misteriose e di carezze curiose. Quella statua fa da parola-dialogo tra Janet e noi, tra noi e tanti altri. Guardandola e toccandola ci diciamo in un attimo tante cose: lei, Maria, ci dice che il Padre del suo figlio Gesù ci accoglie tutti, Janet ci dice che anche lei (la sua mamma, il suo papà, il suo fratellino, le loro storie...) si sente a casa tra i personaggi raccolti dall’abbraccio di quel manto, noi – che ci scopriamo ogni domenica raccolti dalla Misericordia di Dio – siamo contenti che i gesti e i volti plasmati nella statua dicano a nome nostro ciò che, per grandezza e sproporzione, è indicibile e impossibile da contenere in qualsiasi parola del mondo: ti voglio bene, chiunque tu sia, ti voglio bene “da Dio”, ti voglio bene di quel bene che Dio vuole a noi, a me, a tutti. Chissà che il nostro oratorio possa essere sempre di più come un lembo di quel manto…
* Marco Uriati, parroco del Corpus Domini a Parma, collabora con il "Progetto Oratori" della Diocesi di Parma, in particolare seguendo la formazione degli animatori. Ha partecipato alla ricerca su oratorio, multiculturalità e cittadinanza.