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    Gli abiti del male. Come educare (contro) i peccati capitali


    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2017-01-9)


    Peccatori si diventa. Non c’è teoria della predestinazione che possa convincerci che un bambino che sta dormendo placidamente nella sua culla abbia da qualche parte un marchio di un peccato individuale, di uno dei sette peccati capitali. Può anche essere che la condizione umana alberghi in sé il potenziale di ognuno dei sette peccati: che la difficoltà a guadagnarsi il pane sia la base dell’avarizia, che il naturale egocentrismo nutra la superbia, che l’ira affondi le radici in una sana aggressività tipicamente animale. Ma quello che ci sembra chiaro è che quando un singolo individuo si sente abitato da uno dei sette peccati capitali occorre capire dove e quando è iniziata l’invasione, e quale processo ha portato questa persona alla situazione attuale: che è poi l’unica possibilità per attuare un reale processo di conversione.
    Il peccato abita la persona, la colonizza dall’interno, occupa spazi vitali dentro di essa, come un esercito invasore: il peccato nasce da una aggressione, spesso lenta e difficilmente visibile, spesso immediata e quasi folgorante. In questo dossier cercheremo di capire come il peccato, ogni peccato, possa conquistare lentamente la persona a partire dai giovani e dai giovanissimi. Nella nostra analisi dei sette peccati non ci muoveremo dunque in una prospettiva morale ma in una dimensione pedagogica: cercheremo di ricostruire la antropogenesi del peccatore, cercheremo di leggere nei processi educativi quotidiani le perversioni che portano a indossare come una seconda pelle gli abiti del male (l’espressione è di Aristotele).
    I nostri capitoli si intitoleranno provocatoriamente “come si educa…” al peccato, mettendoci per una volta dalla parte del male, per capirlo ovviamente e non certo per giustificarlo. Ci chiederemo dunque come nasce il superbo, il goloso, l’iracondo? Cosa rende un uomo lussurioso o invidioso? Come un bambino può crescere accidioso o avaro? E a fianco a queste domande ne porremo altre,complementari e decisive: come, da ognuna di queste figure, può iniziare il processo di conversione? Perché se il peccato è un abito, il rischio più grosso è considerarlo una pelle naturale: si allea segretamente con il peccato chi da fuori considera il peccatore come una figura definita, come una sorta di monolito ormai condannato. Con ciò non intendiamo affatto suggerire che il peccato non sia anche responsabilità del singolo che non vi sia una adesione voluta del peccatore; ma vogliamo indagare il processo a monte di questa adesione, per comprendere come ogni soggetto possa diventare peccatore se sottoposto a un determinato processo educativo e se rispetto sa questo processo non mete in campo uno spirito critico. Se il peccato sa educare, se il percorso verso il peccato è un percorso pedagogico, allora ogni suo risultato (e occorre abituarsi a chiamarlo “la persona che ha peccato” piuttosto che “il peccatore”) è sempre provvisorio e lascia sempre la possibilità di un intervento pedagogico. Se quella del peccato è una pedagogia efficace, quella della conversione è una – più efficace  pedagogia della resistenza.


    1. Come si educa alla superbia

    Da quando in alcune scuole è stato abolito il grembiule e soprattutto non esiste più qualcosa di simile a una divisa scolastica, apparentemente è il trionfo della libertà e della democrazia: ognuno veste come vuole, e non c’è più l’uniformità (garantita dalle uniformi) che tanto disturbava. In realtà quello che spesso accade è che si assiste al trionfo del mercato e dell’apparenza esteriore: bambini ancora molto piccoli sfoggiano capi firmasti, astucci e cartelle da centinaia di euro, e lo fanno soprattutto davanti a compagni o compagne che vestono in maniera più dimessa (o forse semplicemente più adatta a un bambino) o possiedono accessori scolastici non “griffati”. Lo stesso atteggiamento si ritrova a volte, soprattutto tra i genitori, a proposito dei voti. Un otto in matematica non viene presentato al bambino come un indizio di una buona strada intrapresa ma come un elemento di superiorità sui compagni, anzi di superiorità della “nostra famiglia” sulla “loro”. Se mio figlio ha preso otto e il figlio della signora Rossi sei, significa anzitutto che mio figlio è superiore all’altro bambino ma soprattutto che io sono migliore dalla signora Rossi e farò di tutto per farglielo capire e pesare. Non parliamo poi dell’ambito sportivo, nel quale il sano confronto agonistico che dovrebbe essere sempre prima di tutto un confronto con se stessi e con i propri limiti diventa una specie di gara al massacro per dimostrare che “mio figlio” è il migliore.
    Sottoposti a questo tirocinio fin dalla più tenera età, c’è da stupirsi che i bambini assumano l’atteggiamento proprio della superbia, che potremmo sintetizzare con il bisogno di abbassare gli altri per poter emergere? In una società nella quale l’imperativo categorico è vincere sempre e comunque, farsi strada con tutti i mezzi, non mostrare mai segni di debolezza, come possiamo pensare che il peccato della superbia non entri sottopelle ai bambini e ai ragazzi?
    Ovviamente la superbia è il peccato dei deboli e dei fragili, di coloro che hanno continuamente bisogno di conferme e di riconoscimenti, veri o falsi non importa, perché non sono affatto sicuri di se stessi come vorrebbero mostrare. Pecca di superbia colui che ha sempre bisogno di confrontarsi con l’altro non per migliorare a per cristallizzare se stesso in un ruolo “superiore”; e quando questo ruolo non è credibile, allora la colpa è dell’altro e occorre svalutarlo. Una delle dinamiche psicologiche che portò i nazisti a ritenersi rappresentanti del popolo eletto sta in questa fragilità quasi patologica che ha bisogno di schiacciare gli altri per poter emergere.
    Un carisma, una capacità, una competenza così non diventano più un dono gratuito da condividere e da far fruttare, un talento in senso evangelico, ma un merito a priori: se so disegnare bene non penso che questo sia un dono quasi casuale da coltivare insieme agli altri, ma si tratta invece di un mio merito (magari legato alla genetica, così anche i genitori sono contenti) di cui vantarmi. Se so disegnare bene dunque è perché sono migliore degli altri, non perché sono semplicemente diverso e posso far fruttare questo talento insieme a chi sa danzare, a chi sa scrivere e a chi sa cucinare. Al contrario, mi iscriverò a una scuola di élite e cercherò di primeggiare sempre e a tutti i costi.
    Un’altra dimensione della superbia con la quale i ragazzi entrano in contatto molto presto ha a che fare con la questione del potere, soprattutto in un’epoca che ha trasformato il potere da servizio a privilegio, fino a teorizzare e praticare il potere per il potere. Non si pensa più al potere come a uno strumento ma come a una sorta di caratteristica personale, come il segno di una superiorità: se ho il potere non è per servire ma perché sono il migliore, se mi hanno eletto sindaco non è perché io porti avanti con tenacia e umiltà il mio programma ma perché sono meglio degli altri. È del tutto ovvio che in questo senso la superbia si presenta soprattutto come arroganza che potremmo definire come il tentativo, purtroppo spesso vincente, di scavalcare la necessità di argomentare le proprie scelte e le proprie opinioni affidandosi invece alla violenza: sia questa verbale, fisica, sia anche la violenza del ruolo (“sono io il capo: deciso io”) o del carisma (forse quest’ultima è la forma di arroganza oggi più pericolosa e più vicina all’idea classica di superbia).
    Le istanze di potere con le quali i ragazzi entrano in contatto al di fuori della famiglia sono ovviamente gli insegnanti e gli educatori: sono costoro i primi a dover mostrare che il potere, l’asimmetria necessaria a qualsiasi relazione educativa, non è mai un merito ma un servizio. Un bambino che sente un insegnante o un educatore pronunciare frasi quali “si fa così perché lo dico io” fino al “qui comando io” che è fratello del notissimo “Lei non sa chi sono io” non fa altro che assorbire l’idea che quando una persona è arrivata a gestire un potere, ha raggiunto quel posto perché è la migliore di tutte le altre, non si mette in discussione e soprattutto non deve più rendere conto a nessuno del suo operato. Una certa immagine di politica associata a una gestione sciagurata dei massmedia ha portato il connubio tra l’arroganza del potere e l’esaltazione dell’esteriorità a livello di guardia: così i ragazzi imparano che occorre essere superiori agli altri e che questa superiorità non passa attraverso caratteristiche interiori o competenze (e sia chiaro che anche così la superbia sarebbe vellicata) ma unicamente attraverso caratteri esteriori, spesso i più scontati e volgari. Così l’opinionista tuttologo urlatore o il calciatore miliardario che vengono interpellati a proposito di qualunque tema e snocciolano le loro cosiddette opinioni massacrando la lingua italiana hanno un seguito eccezionale perché mostrano il volto della superbia: l’esibizione di una superiorità che non si limita al proprio settore (anche se non sappiamo bene in quale settore un “opinionista” dovrebbe essere superiore a qualunque altro essere umano) ma invade qualunque ambito dello scibile umano.
    Così dunque nasce l’educazione alla superbia, alla idea pervertita di elezione su tutti e su tutto, alla necessità di schernire gli altri per poter emergere: una delle letture possibili del cosiddetto bullismo (che è per noi una patologia sociale e non psichica!) è anche questa. Così nascono le premesse per le manifestazioni adulte della superbia: che vanno dal “Lei non sa chi sono io” del cafone di turno all’idea di appartenere a un popolo eletto e alla ricerca di esseri inferiori ai quali negare il diritto alla vita.

    Qualche testo

    Spesso la superbia alberga anche all’interno del mondo religioso, in coloro che dovrebbero guidare i fedeli all’atteggiamento opposto. Il brano dello scrittore musulmano Yashar Kemal che presentiamo mostra anche fisiognomicamente questo atteggiamento:

    Facce peste di uomini truci, astuti, come usciti dalla moschea dopo una lotta furibonda con Allah, dopo avere lasciato là dentro la luce dei loro volti, sarebbero questi i credenti, i loro piedi, schiantano la terra che calpestano, sono credenti questi? Si pestano i piedi a vicenda in piazza Taksin, scagliano sonori sputi in terra tra la gente, si soffiano il naso spalmando il muco sui tronchi degli alberi, cere molli, volti malati, ostili, che non conoscono il sorriso, che ti osservano come nemici,come volessero mangiarti, cavarti gli occhi, scavarti la fossa,per incutere timore, studiandoti da lontano, questi spauracchi che non fanno che dire io, io, io, costoro? (Yashar Kemal, Gli uccelli tornano a volare, Milano, Tranchida, 1994, pag. 60)

    La superbia degli uomini di religione porta a quello che potremmo definire “anomismo”, ovvero all’idea che al religioso (al capo religioso) tutto sia lecito. Così la religione diventa una copertura per i propri desideri, e la propria superiorità morale e spirituale si concretizza in un “faccio quello che voglio”. Nel Libro dei Gradi, opera monastica del V secolo, si presenta efficacemente questa figura arrogante

    Se a noi viene voglia di gettarci sul cibo argomentiamo che “non rende impuro l’uomo ciò che entra nel ventre” (Mt. 15,11); se vogliamo essere indolenti nella preghiera argomentiamo che è con il nostro cuore che siamo graditi a Dio; se non vogliamo darci pena per la Chiesa argomentiamo che è il nostro cuore la Chiesa: se vogliamo imbellettarci diciamo che è nell’intimo che noi piangiamo e che Dio non vuole queste cose visibili; se non ci vada dare sollievo ad alcuno, sia ignudo che povero, diciamo che è nella nostra anima che facciamo elemosine e ci diamo cura della nostra propria infermità. (…) Inoltre, quando vogliamo possedere ed edificare diciamo: “possediamo senza possedere: il nostro spirito non è attaccato a quello che abbiamo” (Cfr. 1 Cor., 7,30). Ebbene. Ti chieda qualcuno quel tuo possedimento e io vedrò se tu glielo darai senza esserne attaccato; o se te lo strappa e tu non te ne affliggi o non entri in giudizio con lui, ti adiri e gli diventi nemico (Il libro dei gradi, X, 7;8)

    La superbia è anche hybris, volontà di porsi al di là di ogni limite, desiderio di effettuare il “folle volo” dell’Ulisse dantesco; questo breve racconto di fantascienza mostra un esempio estremo di questo atteggiamento proiettandolo nel futuro.

    Con gesti lenti e solenni, Dwar Ev procedette alla saldatura, in oro, degli ultimi due fili. Gli occhi di venti telecamere erano fissi su di lui e le onde subeteriche portarono da un angolo all'altro dell'universo venti diverse immagini della cerimonia.
    Si rialzò, con un cenno del capo a Dwar Reyn, e s'accostò alla leva dell'interruttore generale: la leva che avrebbe collegato, in un colpo solo, tutti i giganteschi computer elettronici di tutti i pianeti abitati dell'universo - 96 miliardi di pianeti - formando il supercircuito da cui sarebbe uscito il SuperComputer, un'unica macchina cibernetica capace di racchiudere tutto il sapere di tutte le galassie.
    Dwar Reyn rivolse un breve discorso agli innumerevoli miliardi di spettatori. Poi, dopo un attimo di silenzio, disse: "tutto è pronto, Dwar Ev".
    Dwar Ev abbassò la leva. Si udì un fortissimo ronzio che concentrava tutta la potenza, tutta l'energia di 96 miliardi di pianeti.
    Grappoli di luci multicolori lampeggiarono sull'immenso quadro.
    Dwar Ev fece un passo indietro e trasse un profondo respiro. "L'onore di porre la prima domanda spetta a te, Dwar Reyn". "Grazie", disse Dwar Reyn. "Sarà una domanda cui nessuna macchina
    cibernetica ha potuto, da sola, rispondere".
    Si voltò verso la macchina. "C'è, Dio?"
    L'immensa voce della macchina rispose senza esitare, subito, senza assolutamente provocare rumori o aspettare 1 secondo. "Sì: adesso, Dio c'è."
    Il terrore sconvolse la faccia di Dwar Ev, che si slanciò verso il quadro di comando della macchina.
    Un fulmine sceso dal cielo senza nubi lo incenerì, e fuse la leva inchiodandola per sempre nella sua posizione.
    (Fredric Brown, La risposta, in Antologia personale, Milano, Mondadori 1971)

    Una esperienza

    È possibile chiedere a un gruppo di ragazzi di riflettere sui propri talenti, in senso evangelico, cercando di sottrarre tale riflessione alla dialettica per cui occorre sempre essere migliori di qualcun altro. Si chieda a ogni ragazzo di scrivere su un foglio il proprio talento più spiccato, in qualsiasi ambito (sportivo, musicale, scolastico ecc.). Poi si chieda a ciascuno di indicare nel resto del foglio la provenienza di quel talento: l’ho imparato, me lo ha trasmesso il papà, è tipico della mia famiglia, è legato a una determinata figura educativa ecc.. Leggendo le risposte si guidi la riflessione sull’idea che i talenti sono sempre sociali, hanno sempre una dimensione relazionale, che non sono mai innati. Infine si chieda ad ogni ragazzo di scrivere quale potrebbe essere una conseguenza negativa dell’applicazione di quel talento (es.: so giocare bene a calcio ma potrei concentrarmi solo su quello e a 40 anni essere senza lavoro; so leggere tanti libri ma potrei isolarmi dagli altri ecc.) per mostrare come ogni qualità abbia in se stessa la possibilità di trasformarsi in hybris soprattutto se isolata e assolutizzata.


    2. Come si educa all’avarizia

    “Tieni la merendina. Non tenerla vicino ai libri se no li ungi. E mangiala tutta tu, non darla ai compagni. Niente ai compagni”. In una scena dell’episodio Educazione sentimentale dello straordinario film I mostri Ugo Tognazzi dà questo consiglio al figlioletto di 8 anni prima di lasciarlo entrare a scuola (peraltro nel film il piccolo è proprio il figlio dell’attore, Ricky). L’episodio presenta un piccolo capolavoro di educazione alla grettezza e all’egoismo, e il risultato finale è che il ragazzo, una volta cresciuto, ucciderà il padre dopo averlo derubato. Vera e propria hybris di una educazione all’avarizia.
    L’avaro dunque è colui che non vede gli altri, colui che ha eliminato dal suo orizzonte il concetto stesso di scambio con l’altra persona: scambio in tutti i sensi, economico, simbolico, comunicativo. Una declinazione attuale del peccato di avarizia secondo noi riguarda l’idea di desolidarizzazione; l’avaro non è tanto colui che non spende per se stesso ma soprattutto colui che vede solamente se stesso, e che si sottrae ad ogni obbligo di solidarietà sociale.
    “Nessuno fa niente per niente”. Quante volte i nostri bambini e i nostri ragazzi si sentono ripetere questa frase apodittica, che è una traduzione rozza del’homo homini lupus hobbesiano trasferito nel campo economico. Il problema è che la frase non è vera, e anche se lo fosse, si limiterebbe a descrivere l’uomo nella sua declinazione attuale, e non certo l’essenza umana. Quando Hobbes afferma che gli uomini allo stato di natura si sbranerebbero a vicenda, sta in realtà proiettando nel passato ipotetico la forma e l’immagine dell’uomo della sua epoca; niente impedisce di pensare che una diversa evoluzione socioeconomica passata (o futura) avrebbe portato o potrebbe portare a una immagine di uomo completamente differenze.
    Ma purtroppo oggi i ragazzi e le ragazze si sentono dire che ognuno ha un prezzo, o, come diceva Nietzsche, ognuno ha un’esca, nel senso che nessuno fa nulla gratuitamente anche se non sono necessariamente i soldi il movente; dietro ogni azione c’è sempre l’egoismo, c’è sempre una motivazione basata su se stessi e sul proprio piacere. In questo modo si mette sullo stesso piano chi sacrifica la sua vita per aiutare un altro e chi passa le giornate a sfruttare il prossimo: anche il primo avrà certamente avuto il suo tornaconto, si dice che il martire in realtà è un masochista e si fa dell’egoismo – e dunque dell’avarizia che ne costituisce la declinazione per così dire economica - l’unico movente delle azioni e l’unico principio regolatore degli scambi umani, O meglio dei non-scambi, perché l’avaro vuole una società statica, ghiacciata e pietrificata nella immobilità in cui ciascuno custodisce i propri beni e non li mette mai in gioco.
    Ma oggi l’avaro non si accontenta di questa immobilità: non vuole solamente ciò che è suo ma brama ciò che è degli altri. L’avaro è vittima dell’abbaglio della totalità: il suo possedere non gli basta mai, vuole sempre di più, è vittima dell’illusione paranoide di un capitalismo senza limiti, di quell’idea di miglioramento continuo dei profitti che nasce in Giappone con il post-fordismo o toyotismo e che è entrata anche nelle dinamiche educative. Secondo una antica pseudo-etimologia ebraica il nome Caino deriverebbe dal verbo “tenere tutto per sé”: ha voluto tutto, non ha lasciato al fratello lo spazio per godersi la lode di YHWH, e alla fine ha ucciso.
    Così i ragazzi che svolgono attività di volontariato si sentono rimproverare dai genitori perché “è ora di portare a casa qualche soldo”: diversa e giustificata è ovviamente la necessaria denuncia del volontariato quando questo diventa sfruttamento, quando da sussidiarietà diventa alibi per non assumere i giovani; ma spesso è proprio l’idea del “fare qualcosa per niente” a non essere tollerata, in un ambito sociale che prevede la privatizzazione del sapere, del piacere, di tutte le attività sociali. A tutto si dà un prezzo: alla cura, all’amore, alla sollecitudine, in una logica della capitalizzazione che va oltre l’idea di “giusta mercede”. Quello che faccio non solo non deve mai essere gratis ma deve rendermi di più, è un investimento che deve cresce reca dismisura.
    A rimanere fuori da questo ragionamento è ovviamente tutto quel terzo di mondo umano che non può crescere perché è strangolato proprio dall’avarizia del nostro sistema di vita; quei poveri che in base a un malthusianesimo sociale che ha le sue radici nelle politiche reaganiane e thatcheriane, meritano di essere poveri perché non si sono impegnati abbastanza. Dunque occorre capitalizzare al massimo, riempire di dobloni e di marenghi i depositi ancora più sicuri di quelli di zio Paperone (che in inglese si chiama Uncle Scrooge: Zio Avaro) e non dare mai niente agli altri, nemmeno una merendina all’intervallo tra le lezioni. È vero che Zio Paperone è un avaro sui generis, perché darebbe tutto il suo denaro per salvare la “Numero Uno” che è un centesimo e per lo più fuori corso; e questo lo rende qualcosa di diverso da un capitalista, amico naturale dei bambini contro la Banda Bassotti che non vede nei soldi altro che ricchezza e non scorge le differenze qualitative tra le monete.
    Quali le contromisure per questa educazione all’avarizia? La mamma che dice al bambino “Mangia la minestra, pensa ai bambini che muoiono di fame” e si sente rispondere “Ma non è che se io mangio la minestra poi i bambini non muoiono più di fame”.Il bambino non ha torto ma la mamma ha ragione: perché è proprio il nostro modello di sviluppo avaro ed egoista, a permettere e causare la morte per fame di milioni di bambini. Certo, cambierà ben poco se quel piatto di minestra sarà finito, ma qualcosa inizierà a cambiare se quel bambino inizierà a condividere la merendina al cioccolato, al contrario del piccolo protagonista dell’episodio dei Mostri.
    Da anni gli economisti ci raccontano la favola bella dell’effetto farfalla: il battito di un’ala di una farfalla nel Borneo causa un ciclone in Sudamerica. Purtroppo milioni di farfalle che ogni anno, sotto forma di bambini, si spengono nel mondo per fame non causano nessun tremito a Wall Street. Quando un bambino che muore in Burkina peserà almeno quanto una merendina schiacciata a Milano, allora l’educazione all’egoismo inizierà finalmente ad essere smantellata.

    Qualche testo

    L’avaro si circonda di oggetti e di ricchezze sottratte alla circolazione sociale e in questo modo fa perdere il loro vero valore. Il breve brano che segue porta alle estreme conseguenze questo atteggiamento:

    Il quarto pianeta era abitato da un uomo d'affari.
    Questo uomo era cosi' occupato che non alzo' neppure la testa all'arrivo del piccolo principe.
    "Buon giorno", gli disse questi. "La vostra sigaretta si è spenta".
    "Tre più due fa cinque. Cinque piu' sette: dodici. Dodici più tre: quindici. Buon giorno. Quindici più sette fa ventidue. Ventidue più sei: ventotto. Non ho tempo per riaccenderla. Ventisei più cinque trentuno. Ouf! Dunque fa cinquecento e un milione seicento ventiduemila settecento trentuno".
    "Cinquecento e un milione di che?"
    "Hem! Sei sempre li'? Cinquecento e un milione di ... non lo so più. Ho talmente da fare!
    Sono un uomo serio, io, non mi diverto con delle frottole!
    Due più cinque: sette..."
    "Cinquecento e un milione di che?" ripete' il piccolo principe che mai aveva rinunciato a una domanda una volta che l'aveva espressa.
    L'uomo d'affari alzo' la testa:
    "(…) Dicevo dunque cinquecento e un milione".
    "Milione di che?"
    (…)
    “ Di stelle".
    "E che ne fai di cinquecento milioni di stelle?"
    "Cinquecento e un milione seicentoventiduemilasettecentotrentuno. Sono un uomo serio io, sono un uomo preciso."
    "E che te ne fai di queste stelle?"
    "Che cosa me ne faccio?"
    "Si".
    "Niente. Le possiedo io".
    "Tu possiedi le stelle?"
    "Si".
    "Ma ho già veduto un re che..."
    "I re non possiedono. Ci regnano sopra. È molto diverso".
    "E a che ti serve possedere le stelle?"
    "MI serve ad essere ricco".
    "E a che ti serve essere ricco?"
    "A comperare delle altre stelle, se qualcuno ne trova".
    Questo qui, si disse il piccolo principe, ragiona un po' come il mio ubriacone.
    Ma pure domando' ancora:
    "Come si può possedere le stelle?"
    "Di chi sono?" rispose facendo stridere i denti l'uomo d'affari.
    "Non lo so, di nessuno".
    "Allora sono mie che vi ho pensato per il primo".
    "E questo basta?"
    "Certo. (…) Che te ne fai?"
    "Le amministro. Le conto e le riconto", disse l'uomo d'affari. "È una cosa difficile, ma io sono un uomo serio!"
    Il piccolo principe non era ancora soddisfatto.
    "Io, se possiedo un fazzoletto di seta, posso metterlo intorno al collo e portarmelo via. Se possiedo un fiore, posso cogliere il mio fiore e portarlo con me. Ma tu non puoi cogliere le stelle".
    "No, ma posso depositarle alla banca".
    "Che cosa vuol dire?"
    "Vuol dire che scrivo su un pezzetto di carta il numero delle mie stelle e poi chiudo a chiave questo pezzetto di carta in un cassetto".
    "Tutto qui?"
    "È sufficiente".
    (Antoine de Saint-Exupery, Il Piccolo principe, Milano, Bompiani)

    È vero che nel mondo animale l’egoismo è la regola, come vorrebbe una cattiva lettura di Darwin? I passi sotto riportati sembrano testimoniare il contrario:

    “le gru stringono vere amicizie con le specie affini e in prigionia non c’è alcun uccello (…) che nutra una così reale amicizia con l’uomo (…) sappiamo di uccelli che si riuniscono semplicemente per godersi la vita in comune e per passare il tempo in giuochi e distrazioni, dopo aver dato qualche ora ogni giorno alla ricerca del cibo (…) la socievolezza, l’azione in comune, la reciproca protezione e un grande svolgimento dei sentimenti caratterizzano la maggior parte delle specie delle scimmie (…) lasciando da parte i fatti veramente commoventi di affetto reciproco e di compassione che sono stati riferiti di animali domestici e di animali in prigionia, abbiamo un gran numero di esempi verificati di compassione fra gli animali selvaggi in libertà. (…) I pappagalli (…) dimorano fedelmente uniti gli uni agli altri e dividono in comune la buona e la cattiva sorte. Si riuniscono tutti, il mattino, in un campo, in un giardino o su un albero per nutrirsi di frutta. (…) In caso di pericolo tutti fuggono aiutandosi gli uni con gli altri, e tutti insieme ritornano alle loro dimore In una parola, essi sono sempre strettamente uniti”
    (Piotr Kropotkin, Il mutuo appoggio, Salerno editore pagg. 62-126)

    Una esperienza

    Quali sono gli oggetti ai quali non rinunceremmo mai? E come ci sentiremmo se fossimo costretti ad abbandonarli? Si può chiedere a un gruppo di ragazzi di immaginare una situazione di alluvione totale e disastrosa che avviene mentre ognuno di loro è da solo in casa; ognuno dei ragazzi può fuggire su una zattera, da solo, e portare con sé soltanto 4 oggetti; si chieda a ciascuno di scrivere su un foglietto quali oggetti salverebbero. Poi li si riunisca in gruppi di 4 e si dica che devono unire le loro zattere ma che sulle nuove zattere c’è posto soltanto per 4 oggetti (dei sedici totali); si faccia poi la stessa cosa unendo più gruppi finché tutti i ragazzi partecipanti finiranno su una sola zattera dove ci sia posto solamente per 4 oggetti (crediamo che si possa svolgere questo gioco anche con gruppi molto ampi, fino a 40 ragazzi). Naturalmente qui c’è in gioco il conflitto tra l’attaccamento ai propri oggetti e le condizioni di limitatezza della zattera, dunque ognuno deve anzitutto rinunciare a parte di sé (3 dei 4 oggetti, nel primo passaggio) e poi essere disponibile a rinunciare anche al quarto in nome di principi comuni.


    3. Come si educa alla lussuria

    Primo Levi, in un brano dal libro “L’altrui mestiere”, racconta di un gioco che insieme ai suoi compagni liceali 15enni faceva a danno di un insegnante miope: i ragazzi dell’ultimo banco si spogliavano e rimanevano senza vestiti perché l’insegnante non era in grado di vedere fino a quel punto dell’aula. Alcuni si toglievano solo le scarpe, altri i pantaloni; un ragazzo arrivò fino a spogliarsi completamente e salire in piedi sul banco. Ma perché un gruppo di ragazzini di 15 anni fa una cosa dl genere? C’è certamente di più rispetto a una riappropriazione del corpo e alla sfida all’insegnante e all’istituzione; in fondo sfidare gli adulti significa sfidare i loro corpi con i propri corpi (si leggano in questo modo le varie pratiche di bullismo e di vandalismo: non certo per giustificarle, a scanso di equivoci, ma per capirle e per rispondervi in modo pedagogico. A nostro parere in questa storia si tratta di una ingenua rivincita dei corpi troppo spesso taciuti o ridotti a involucri, soprattutto nella scuola. Eppure gli adulti dovrebbero sapere che tutto il sapere è sapere corporeo, che nulla arriva all’intelletto che prima non sia passato per i sensi.
    La necessità di esibire il proprio corpo non è certamente di per sé segno di lussuria: semmai la lussuria é l’esibizione impudica del corpo e il mancato rispetto del pudore altrui. Ma la cosa interessante è che poggi la vera educazione alla lussuria avviene nell’ambiente apparentemente meno corporeo e fisico di tutti: le Nuove tecnologie e la Rete. Non è vero infatti che il corpo sia assente nelle nuove tecnologie; come possiamo parlare di corpo assente quando uomini adulti si fanno disintossicare perché restano tutta la notte connessi con siti pornografici cercando un piacere fisico e autoerotico?
    Le Nuove tecnologie e la rete portano al parossismo il processo di mercificazione del corpo che perdura da tempo e che ci sembra il marchio più proprio dell’educazione alla lussuria. Il corpo si dà un prezzo per esibire la propria impudicizia: e insieme al corpo, come trascinati da esso, a darsi un prezzo e ad esibirsi impudicamente sono i sentimenti, in ignobili trasmissioni televisive che provvedono ricongiungimenti di presunti orfani davanti a un pubblico che applaude automaticamente. Ma la lussuria nelle nuove tecnologie va oltre, perché offre un corpo fittizio (o meglio una assenza di corpo, in questo caso) a nascondere i limiti del proprio corpo reale. L’ingombro de mio corpo trova in rete la possibilità di un nascondimento: se a tredici anni sono alto 1.40, peso 80 kg e ho i brufoli, ma ritiro la pagella on line, seguo le lezioni on line, ho amici su “Facebook”, sono sottoposto al vero e proprio delirio di un corpo dimenticato e abbandonato sulla sedia davanti allo schermo. Il tutto trova il proprio apogeo nel fenomeno degli hikikomori, i ragazzi giapponesi (ma non solo) che chiudendosi per mesi e mesi nelle loro stanze connessi alla rete sono molto più nel mondo e del mondo di quanto potrebbe apparire ma perdono la dimensione sociale del corpo, ripiegandosi in un narcisismo patologico.
    Lussurioso oggi paradossalmente è chi viene educato a non curare il proprio corpo e a non rispettare il corpo altrui: pornografica non è l’esibizione del corpo ma la sua proposizione in piena luce, senza misteri, senza ombre, senza veli. È il corpo come portatore di mistero ad essere eliminato, cancellato, rimosso: tutto deve essere esposto, tutto è chiaro, non ci sono più misteri: e chi non rispetta il mistero del corpo dell’altro lo percepisce come cosa, oggetto, disponibile per il mio (e solo mio) piacere.
    La prossemica, scienza psicologica fondata da Edward Hall, ci ha mostrato come la distanza tra i corpi socialmente significa rispetto e accettazione del corpo dell’altro come inviolabile: Hall ha mostrato come le scrivanie degli uffici sono costruite per mantenere il corpo dell’addetto e del cliente alla distanza che non permetterebbe alle loro mani di toccarsi se stendessero il braccio; il mio corpo in un ufficio disegna un cerchio inviolabile che diventa architettura di interni. Nella comunità di vicinanza forzata attraverso la lontananza provvista da Internet il mio corpo e i miei sentimenti sono alla mercè di tutti, non ho controllo su chi mi guarda, mi spia, entra nelle mie gioie e nei miei dolori.
    Uno dei modi per educare contro la lussuria è insistere sul valore corporeo e fisico della conoscenza: Il testo biblico usa a proposito della conoscenza il termine ebraico jada in due casi: in Genesi, per “Adamo conobbe Eva” e in Esodo quando YHWH conosce il dolore del suo popolo e decide di intervenire per liberarlo. Questa forma di conoscenza emotiva, vissuta nel rispetto dell’altro e dei suo bisogno di liberazione e di amore, è un modo per restituire al corpo la sua capacità di conoscere e di godere solamente nella conoscenza. Il problema della lussuria non è ovviamente l’amore fisico, l’”amor che a nullo amato amar perdona”, ma il fatto che l’amore sia usato, comprato, venduto. E l’abbraccio eterno di Paolo e Francesca che fa perdere i sensi a Dante ci mostra la pietà del poeta di fronte a due corpi e due anime che perlomeno si amavano veramente, non per il denaro o per il potere.
    L’amore può anche sfidare le convenzioni sociali, le leggi, i costumi: forse è nella sua essenza fare tutto questo. Ma l’amore non può sfidare il rispetto per il proprio e l’altrui pudore. Questo, e non un calcolo quantitativo (il “quante volte figliolo?” delle barzellette sui preti) distingue l’amore e il sesso dalla lussuria; che è poi quella situazione a proposito della quale, come cantava Bennato, “si dice amore, però no: chiamarlo amore non si può”

    Qualche testo

    Il senso del pudore è uno dei contravveleni più efficaci contro l’attuale esibizione oscena dei corpi e dall’amore; la poesia Atavismo di Cesare Pavese ci mostra l’importanza del pudore in un adolescente che si confronta con il proprio corpo scoprendolo come scrigno di segreti e come mistero da non esibire impudicamente ma da conservare al riparo dagli sguardi del mondo.
    Il ragazzo respira più fresco, nascosto
    dalle imposte, fissando la strada. Si vedono i ciottoli
    per la chiara fessura, nel sole. Nessuno cammina
    per la strada. Il ragazzo vorrebbe uscir fuori
    così nudo – la strada è di tutti – e affogare nel sole.
    In città non si può. Si potrebbe in campagna,
    se non fosse, sul capo, il profondo del cielo
    che atterrisce e avvilisce. C’è l’erba che fredda
    fa il solletico ai piedi, ma le piante che guardano
    ferme, e i tronchi e i cespugli son occhi severi
    per un debole corpo slavato, che trema.
    Fino l’erba è diversa e ripugna al contatto.
    Ma la strada è deserta. Passasse qualcuno
    il ragazzo dal buio oserebbe fissarlo
    e pensare che tutti nascondono un corpo.
    Passa invece un cavallo dai muscoli grossi
    e rintronano i ciottoli. Da tempo il cavallo
    se ne va, nudo e senza ritegno, nel sole:
    tantoché marcia in mezzo alla strada. Il ragazzo
    che vorrebbe esser forte a quel modo e annerito
    e magari tirare quel carro, oserebbe mostrarsi
    anche sotto le strisce del cielo. Le case, che guardano,
    avviliscono meno che il prato deserto.
    Se si ha un corpo, bisogna vederlo. Il ragazzo non sa
    se ciascuno abbia un corpo. Il vecchiotto rugoso
    che passava al mattino, non può avere un corpo
    cosí pallido e triste, non può avere nulla
    che atterrisca a quel modo. E nemmeno gli adulti
    o le spose che danno la poppa al bambino
    sono nudi. Hanno un corpo soltanto i ragazzi.
    Il ragazzo non osa guardarsi nel buio,
    ma sa bene che deve affogarsi nel sole
    e abituarsi agli sguardi del cielo, per crescere un uomo.

    Anche I ragazzi che si amano di Jacques Prevert mostra la delicatezza e la forza di un amore adolescente che non accetta i facili giudizi e il voyeurismo del mondo e si chiude in un pudore rispettoso che lo rende qualcosa di forte e di pudico.

    I ragazzi che si amano si baciano in piedi
    Contro le porte della notte
    E i passanti che passano li segnano a dito
    Ma i ragazzi che si amano
    Non ci sono per nessuno
    Ed è la loro ombra soltanto
    Che trema nella notte
    Stimolando la rabbia dei passanti
    La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
    I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
    Essi sono altrove molto più lontano della notte
    Molto più in alto del giorno
    Nell'abbagliante splendore del loro primo amore

    Nella tradizione della mistica cristiana spesso si rivolge a Dio un discorso amoroso come se ci si rivolgesse a uno sposo o a una sposa. Un amore che senza smettere di essere intenso e anche fisico è però ben lontano dalla volgarità e dalla lussuria

    Egli chiede più di quello che possiamo dargli. Ha una fame immensa e vuole assolutamente divorarci. Penetra fino alle midolla delle nostre ossa, e più gli permettiamo di penetrarci, più grandemente lo gustiamo. Ma egli ci divora senza satollarsi. Ha una immensa fame, una fame insaziabile; sebbene sappia che siamo poveri non vuole tenerne in alcun conto e in nulla transige. (…) giunge con il rostro spalancato, come un avvoltoio, per divorare ogni cosa. (…) se i nostri occhi fossero aperti per vedere quest’avida fame di Cristo, che ha fame della nostra salvezza, tutti i nostri sforzi non potrebbero impedirci di entrare nella sua bocca spalancata. (Giovanni di Ruuscbroec, La vita divina, Leonardo edizioni)

    È molto esser sposo, ancor più godere la sposa
    Baciarne la dolce bocca con vero amore!
    Amo però ben più le nozze in cui lo sposa
    A Dio mio sposo sono profondamente unita.
    (Nuntius Silesius, Il pellegrino cherubico, ed. San Paolo)

    Anche questo testo di una splendida canzone di Franco Battiato, spesso frainteso come testo d’amore rivolto a una donna, è in realtà riferito a Dio:

    E ti vengo a cercare
    anche solo per vederti o parlare
    perché ho bisogno della tua presenza
    per capire meglio la mia essenza.
    Questo sentimento popolare
    nasce da meccaniche divine
    un rapimento mistico e sensuale
    mi imprigiona a te.
    Dovrei cambiare l'oggetto dei miei desideri
    non accontentarmi di piccole gioie quotidiane
    fare come un eremita
    che rinuncia a sé.
    E ti vengo a cercare
    con la scusa di doverti parlare
    perché mi piace ciò che pensi e che dici
    perché in te vedo le mie radici.
    Questo secolo ormai alla fine
    saturo di parassiti senza dignità
    mi spinge solo ad essere migliore
    con più volontà.
    Emanciparmi dall'incubo delle passioni
    cercare l'Uno al di sopra del Bene e del Male
    essere un'immagine divina
    di questa realtà.
    E ti vengo a cercare
    perché sto bene con te
    perché ho bisogno della tua presenza.

    Una esperienza

    Proponiamo un’attività estremamente delicata che può essere proposta a gruppi di ragazzi molto affiatati e composti da ragazzi/e che siano abituati a lavorare seriamente e a rispettare le consegne. Si chieda a ogni ragazzo di scrivere su un foglio i suoi più intimi desideri, segreti, sogni promettendo che nessuno mai leggerà quanto viene scritto. Ogni ragazzi mette poi il foglio in una busta sigillata e la consegna a un altro ragazzo; alla fine tutte le buste chiuse vengono bruciate in un falò. Successivamente ogni ragazzo consegna a colui/colei che gli ha affidato la busta un messaggio con un pensiero, una poesia, una canzone, un disegno appositamente pensato per il destinatario. Questa attività necessita di un presidio costante e competente da parte di un educatore o una educatrice di provata esperienza.


    4. Come si educa all’invidia

    Una fila di decine e decine di persone si è formata fin dal tramonto davanti a un edificio nel centro di una città: le persone dormiranno lì, sulla piazzetta, si sono portate le coperte, i cuscini e un thermos di tè caldo. Qualcuno ha l’idea di scrivere una lista per ordine di arrivo in modo che la mattina dopo non scoppino litigi. Siamo di fronte alla sede dell’Asl e le persone devono prenotare un esame molto importante? Oppure siamo davanti a una scuola dell’infanzia per l’iscrizione dei bambini? No: siamo alle porte di un supermercato nel quale il giorno dopo verrà messo in vendita il nuovo modello di I-phone. Il trionfo del futile, ma soprattutto il trionfo dell’invidia di coloro che arriveranno tardi o che non potranno permettersi l’oggetto: che poi questo sia del tutto identico al modello precedente se non per una “app” (per usare il disgustoso linguaggio dei new media) che non sarà mai usata, fa capire come oggi l’invidia non sia solo un peccato ma anche un sintomo di abissale stupidità.
    L’invidia sembra essere il cemento della nostra attuale società, quella che spinge a comperare e a desiderare sempre di più. Non possiamo certamente definire invidia il sentimento dei poveri e dei diseredati di fronte all’esibizione impudica di ricchezza che spesso la società opulenta mette loro di fronte: in questo caso il peccato non è certo l’invidia del povero ma la miserabile superbia del ricco.
    Si invidiano soprattutto gli oggetti, l’invidia sembra soprattutto dire “Voglio avere quello che ha l’altro”; ma non tanto per la qualità dell’oggetto, quanto per la quantità o per lo status symbol. L’impressione è che se il Briatore o la Ventura di turno iniziassero a indossare un colapasta d’oro in testa susciterebbero invidia in milioni di persone che cercherebbero di procurarselo. L’abitudine alla clonazione degli oggetti rende difficile la scelta della sobrietà, che è uno dei contravveleni rispetto all’invidia. Sobrietà che però non è povertà, ma consapevole limitazione, e che può essere presentata ai giovani come reale esperienza dell’oggetto mio, ovvero percezione di quell’unicità dell’oggetto che ci consente l’investimento affettivo ed emotivo sulle cose nel mondo materiale e per così dire l’umanizzazione dell’oggettualità. L’oggetto mio è unico e non riproducibile, perché è la riscoperta del mio senso nell’oggetto; un senso che è il rispecchiamento di ciò che io ci ho fatto, che io ci ho trovato, che io ho subito dall’oggetto. Per questo nelle nostre scuole ci sono troppe cose, si studiano troppe cose, si spreca troppo. Una sobrietà pedagogica passa attraverso la riscoperta di quei pochi oggetti (in senso sia materiale sia spirituale: la IX di Beethoven è un oggetto) che permettono di scrivere la ma autobiografia oggettuale. Al potere decisionale dell’oggetto, che decide su di me, si affianca così il potere sull’oggetto, che non è un potere annichilente ma un potere di scelta. I giovani devono essere guidati alla critica nei confronti degli oggetti, a una loro classificazione, a scegliere l’oggetto migliore non solo perché funzionale ma perché mio e solo mio, nostro e solo nostro in quello specifico momento.
    Ma l’invidia è soprattutto incapacità di stare bene con se stessi: chi invidia l’altro dimostra una scarsa attenzione a sé, una scarsa stima, non conosce veramente e profondamente le ricchezze che albergano nel suo animo e per questo motivo invidia le ricchezze materiali o il potere dell’altro . “L’inferno è la dannazione di coloro che non sono capaci di amare” diceva Dostoevskji; l’invidia è la dannazione di amarsi realmente, di amare se stessi e i propri limiti; e l’invidia è assenza di limiti, voler avere tutto quello che ha l’altro e anche, in un certo senso, volere essere l’altro, inglobarlo in sé, copiarlo, sovrapporsi a lui.
    L’antidoto all’invidia è allora l’educazione all’equilibrio con se stessi, all’accettazione dei propri limiti e al tentativo di superarli facendo però affidamento su se stessi e sull’aiuto degli altri, e non volendo essere come gli altri avendo ciò che essi hanno. Certo questo sarà possibile solamente se si spezzerà quella relazione tra avere ed essere che già Fromm aveva studiato, secondo la quale si è in funzione di ciò che si ha. E in questo occorre allora una critica profonda a una struttura sociale che per poter perpetuarsi ha bisogno di spargere invidia come veleno, preparandosi a produrre il prossimo inutile modello di un inutile iphone.

    Qualche testo

    Una bella narrazione che ci fa riflettere sulla nascita dell’invidia nella prima infanzia è in un vangelo apocrifo dell’infanzia di Gesù. Praticando quello che doveva essere un gioco molto in voga tra i bambini di Nazareth, ovvero il modellare il fango, Gesù costruisce alcune piscine di fango, insieme ad alcuni amichetti. Ma:

    Uno di quei bambini, un figlio del diavolo, con animo invidioso, chiuse gli sbocchi che portavano acqua nei laghetti e mandò all’aria tutto quanto aveva fatto Gesù. Allora Gesù gli disse: Guai a te, figlio di morte, figlio di Satana. Osi tu distruggere quanto io ho compiuto? Colui che aveva agito così, subito morì.
    (Vangelo dello Pseudo Matteo 26,1)

    La reazione del piccolo Gesù potrebbe essere rubricata nel capitolo dedicato all’ira, tanto gli Apocrifi restituiscono al fanciullo di Nazareth sentimenti umani al di qua del bene e del male. Lo studio degli Apocrifi è interessante proprio per queste caratteristiche.

    Giorgio Gaber, ne “L’ingranaggio” ci presenta una divertentissima situazione nella quale un personaggio viene trascinato nell’ingranaggio dell’invidia fino a perdere quasi del tutto la sua dignità:

    Ricordo, che tanti tanti anni fa, io dicevo: ” Sono un uomo felice. Forse la felicità non esiste. Diciamo che sono un uomo sereno: mi basta veramente così poco! Pensate: io non ho niente!”
    - Io non ho niente
    - io non ho niente
    - io non ho niente
    - io ho un pelo!
    Eh già, lui ha un pelo. Chissà cosa se ne fa poi di un pelo. Lui ha un pelo... e io non ho niente. Devo ammettere che un pelo, è un pelo, ce chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Io per esempio, non ce l’ho, che a pensarci bene, un pelo mi sarebbe anche utile. Bisogna che me lo procuri... Io devo avere un pelo! Iaaaahhhh! Io ho un pelo.
    - io ho un pelo
    - io ho un pelo
    - io ho un pelo
    - io ho dieci peli!
    Beato lui che ha dieci peli, no per carità, io non mi lamento. Io il mio pelo ce l'ho! Certo che uno che ha dieci
    peli... é già in un'altra posizione eh. Uno con dieci peli ha praticamente risolto. Dieci peli... sono già una peluria! Bisogna che me li procuri. Io devo avere dieci peli! Iaaaahhhh! Io ho dieci peli
    - io ho dieci peli
    - io ho dieci peli
    - io ho dieci peli
    - io ho cento peli
    Maledizione! Lui ha cento peli. E io sono stanco, distrutto, non ce la faccio più. Ma resta il fatto che lui ha cento peli e io ne ho dieci. E dieci peli oggi cosa sono... non sono più niente... sono una miseria...
    - noi abbiamo cento peli - noi abbiamo mille peli - noi abbiamo centomila peli - noi abbiamo un milione di peli
    Devo farcela, devo reagire. Anch'io devo avere tanti peli. Per me, per i miei figli. Anch'io avrò tanti peli, anch'io! Anch'io! Anch’io! Devo andare sempre avanti senza smettere un momento, devo andare sempre avanti. E lavorare lavorare lavorare e continuare a lavorare lavorare lavorare e non fermarmi mai.
    E non fermarmi mai e avere dentro il senso che non sei più vivo e faticare tanto, trovarsi con un vecchio amico e non saper che dire; sentire che non hai più tempo per il riso e il pianto, saperlo e non avere più la forza di ricominciare.
    Non è che mi manchi la voglia o mi manchi il coraggio: è che ormai so dentro nell’ingranaggio.

    Nel romanzo di Frantisek Langer I fanciulli e il pugnale si descrive l’arrivo in una scuola tedesca di un nazista che dovrà fare da maestro nella piccola scuola locale; per stimolare i ragazzi all’invidia e all’odio reciproci egli li inizia i alla collezione di francobolli. Si tratta di un eccellente esempio di educazione all’invidia:

    Prima di allora i loro giocattoli semplici, poco costosi, erano, almeno per i maschietti (…) destinati ai giochi comuni. La palla o il volano nelle mani di uno solo erano una cosa morta: prendevano vita soltanto quando il loro possessore trovava dei compagni e il divertimento era tanto più divertente e significativo quanti più partecipanti riusciva a radunare. La trottola, l’arco,l’aquilone o simili, anche un libro erano divertimenti fatti per uno solo,ma poiché potevano essere prestati e usati a lungo prima di logorarsi, ne veniva che ogni gioco nuovo accresceva soltanto il numero di quelli di cui tutti potevano disporre. Anima del gioco era allora la collettività tutta intera, non le cose, e la proprietà di ogni singolo membro della combriccola non faceva che aumentare il numero delle gioie comuni. Né gelosia, né rivalità avvilivano la comunità. Tu sei meglio in un gioco e io in un altro, uno corre meglio e l’altro colpisce meglio un bersaglio con un sasso, una volta riesco meglio io in un gioco e l’altra volta tu, in genere ognuno sa fare qualcosa di apprezzato che un astro non compie altrettanto bene. Fosse anche solo il riuscire a sputare più lontano degli altri. Ogni abilità singola completa la gloria comune dell’intera compagnia. Ma i francobolli? Il maggior piacere che se ne trae è quello di possederli; la soddisfazione sta proprio solo nell’averli; scopo del gioco è di averne sempre in maggior numero e di avere i più rari. Il possederne genera gradevoli sensazioni, l’esserne privi desta una rabbiosa invidia. Il farne parte agli altri è prova di stupidità, il darla a intendere a un altro, l’ingannarlo in qualche modo cessa di colpo di essere una viltà. Così tutti i difetti, tutte le bassezze del senso non infantile della proprietà corrosero in tre giorni lo spirito della comunità primitiva. Si destarono in ogni ragazzo occulti appetiti malvagi che non si sarebbero forse mai svegliati se fossero rimasti sopiti negli anni dell’infanzia. Divenne indifferente tutto ciò che prima aveva per loro fascino e valore, e soltanto la brama di aver molto, di avere più degli altri, di avere il maggior numero possibile di quei rettangoli di carta dominava i loro pensieri al punto che ne erano come storditi
    (Frantisek Langer, I fanciulli e il pugnale, Garzanti 2001 pagg. 78-9)

    Una esperienza

    Si proponga questa esperienza a un gruppo di ragazzi affiatati e che si conoscono da molto tempo. In cerchio ciascuno deve pensare a una caratteristica (fisica, caratteriale ecc.) del compagno alla propria destra che vorrebbe avere per sé e dirla ad alta voce; poi la stessa cosa deve accadere in senso opposto, per il compagno alla propria sinistra. Ognuno poi deve inventare una situazione della vita quotidiana nella quale ha acquisito le due caratteristiche che ha sottratto ai due compagni e ha perso quello che gli è stato sottratto da loro. Leggendo le storie si rifletta sul cambiamento (positivo o negativo) della vita avvenuto a causa di questa nuova identità.


    5. Come si educa alla gola

    Uno dei primi gesti che il bambino e la bambina compiono è quello di mettersi in bocca le cose; testimonianza forse di un desiderio di incorporare l’oggetto, di farlo scomparire e al tempo stesso di farlo diventare tutt’uno con se stessi. Questo gesto infantile, da adulti diverrà il gesto di assaggiare le cose, di sentirne il sapore; più invasivo del tatto, meno discreto e più aggressivo e anche più “caldo” della vista, il gusto però sa anche non spingersi all’eccesso; c’è differenza tra ingoiare e degustare, tra divorare e assaggiare; un esperto d’arte avrà buon gusto a proposito di quadri se saprà cogliere le differenze specifiche tra le diverse opere, preferendo una sola tela d’autore a cento croste; e avrà gusto nel vestire chi saprà accoppiare eleganza a piacere del portare determinati capi: soprattutto quelli, solo quelli e non altri; la qualità è ciò che dà piacere a chi sa usare il gusto: la quantità può addirittura dare la nausea. Ii fascino terribile e perturbante di film come La grande abbuffata di Marco Ferreri o Il fascino discreto della borghesia di Luis Bunuel risiede proprio nel sottolineare come la misura prevista dal gusto sia sempre pronta a tramutarsi nel suo opposto: e solo una sottile linea di demarcazione divide il “buono” dal “cattivo” gusto.
    La gola dunque paradossalmente ha poco a che fare con il gusto, anzi forse è una sua nemica; abbuffarsi significa non sapere cogliere le differenze qualitative, fare del cibo un pretesto per accumulare quantità e non discernere qualità.
    Per questo motivo il peccato di gola si può prevenire attraverso una educazione al gusto: un percorso per esempio che parta dai sapori fondamentali (salato, piccante dolce, aspro, amaro al quale recentemente si è aggiunto l’umami, il sapore del glutammato). Insegnare ai bambini cosa e come si assapora, quali sono le sensazioni che il cibo offre al palato e all’anima, insegnare loro la cultura che c’è dietro ogni sapore prima ancora che dietro ogni ricetta, guidarli a sapere riferire un sapore a una esperienza della propria vita: tutto ciò toglie il cibo dal regno del “tanto/troppo” e lo restituisce alla dimensione del “buono”.
    Non è certo goloso del resto l’io narrante di Proust nella Recherche e proprio per questo, per avere solamente assaggiato la madeleine a casa della zia, ha una esperienza straordinaria e profondamente umana: “E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti, che appena immersi si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, casi, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e di quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.
    Ma anche in quella che Foucault definirebbe “microfisica” dell’educazione alimentare, nelle esperienze che tutti i giorni i nostri bambini provano a tavola è presente l’artiglio invisibile del mercato, che ha bisogno della gola per poter sopravvivere e continuare a produrre quantità enormi di cibo da gettare poi via. Pensiamo alle mense scolastiche, vero tempio dello spreco, nelle quali, soprattutto nei territori a maggior tasso di benessere del nostro Paese, vengono proposti assurdi menù con pietanze che cambiano ogni giorno, realizzando la logica rutilante dell’esibizione delle merci tipica della Grande distribuzione (quando ovviamente i bambini della scuola primaria non vedono l’ora di mangiare la pasta al burro o la Pizza Margherita e si trovano obbligati ad assaggiare improbabili penne alla siciliana, previste per il martedì della seconda settimana del mese –perché alla terza ci sono i bucatini all’amatriciana). Per non parlare delle tonnellate di cibo che viene gettato, anche grazie ad assurde norme che non ne prevedono il riutilizzo nemmeno per i canili. La formazione del consumatore che si lascia incantare dalla proliferazione della quantità e che non pensa minimamente a un comportamento solidale nasce dunque in mensa, già a sei anni.
    Ovviamente vi sono esperienze in controtendenza: la filiera corta, il commercio equo, lo slow food, sono tutti tentativi spessissimo riusciti di restituire all’alimentazione la dimensione del gusto insieme a quella etica. C’è una splendida parola ebraica che suona “tov” e che significa al contempo “giusto” “bello” e”buono”. Quando YHWH crea qualcosa vede che è “tov” perché non è solo bello e buono ma è anche eticamente giusto. Insegnare ai ragazzi questa associazione è fondamentale per combattere l’educazione alla gola. Capire ma soprattutto sentire in bocca il fatto che un cibo sottratto a chi ha fame, un cibo per la cui produzione vengono inquinati mari e fiumi, un cibo prodotto senza rispetto per le norme sanitarie e degli altri diritti dei lavoratori è “cattivo” è un inizio di percorso di uscita dall’accumulo cieco e insensato della gola. Alzarsi da tavola pieni da scoppiare non è “tov”: lo è intingere l’ultimo boccone nella zuppiera e condividerlo con un altro commensale: fosse pure il futuro traditore.

    Alcuni testi

    Ci sembra interessante a proposito di gola riportare queste cifre sugli sprechi alimentari:
    La FAO calcola che ogni anno si sprechino 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, pari a 1/3 della produzione totale destinata al consumo umano. Il solo spreco di cibo in Italia ha un valore economico che si aggira intorno ai 13 miliardi di euro all’anno. È possibile distinguere tra due tipologie di spreco di cibo.
    Food losses: ossia le perdite che si determinano a monte della filiera agroalimentare, principalmente in fase di semina, coltivazione, raccolta, trattamento, conservazione e prima trasformazione agricola.
    Food waste: ossia gli sprechi che avvengono durante la trasformazione industriale, la distribuzione e il consumo finale.
    Lo spreco alimentare è un fenomeno che pone interrogativi sugli squilibri di consumo nel mondo e sulla disparità sociale tra chi spreca e chi non ha da mangiare. La FAO indica che sono 222 milioni le tonnellate di cibo buttato nei Paesi industrializzati, una cifra pari alla produzione alimentare dell’Africa subsahariana (circa 230 milioni di tonnellate).
    A livello europeo si sprecano in media 180 kg di cibo pro-capite all’anno; il 42% di questo spreco avviene a livello domestico. Il Paese con maggiore spreco pro-capite è l’Olanda con i suoi 579 kg pro-capite all’anno; quello che spreca meno è la Grecia (44 kg pro-capite all’anno). L’Italia si trova all’incirca a metà strada tra questi due Paesi, con 149 kg di cibo sprecato annualmente per persona
    Ci sono però delle piccole azioni quotidiane che noi – cittadini e consumatori – possiamo mettere in atto per contribuire a ridurre il proprio spreco alimentare e di conseguenza la propria impronta ecologica come: fare la lista della spesa e comprare solo quanto necessario; comprare se possibile da produttori locali; scegliere prodotti di stagione; usare meno trasformati e più ingredienti; imparare a cucinare con quello che c’è, usando avanzi e scarti; non servire porzioni eccessive!
    (fonte: www.foodrightnow.it)

    Il menu di un ristorante è certamente stimolante e fa venire l’acquolina in bocca: ma che dire quando ci troviamo di fronte a un lunghissimo elenco di pietanze come in questa straordinaria pagina di Francois Rabelais? Ci sembra che qui l’aspetto quantitativo soffochi quello qualitativo, realizzando un esempio interessante del peccato di gola:

    Perlani, Astachi,
    Viole, Caprette,
    Ortiche di mare, Lasche,
    Crespioni, Argentini,
    Graziosi signori, Tinche,
    Imperatori, Ombrine,
    Angeli di mare, Merluzzi freschi,
    Lampredini, Anguillette,
    Storioncini, Tartarughe,
    Luccettini, Serpenti, id est anguille
    Carpioni, di bosco,
    Carpionetti, Orate,
    Salmoni, Pollastre di mare,
    Salmonetti, Seppie,
    Delfini, Pesce persico,
    Porcille, Reali,
    Rombi, Cavedini,
    Gradotti, Granchi,
    Carpioni, Lumache,
    Lucci, Rane.
    Palamite,
    Divorate queste vivande, se non beveva la morte lo attendeva subito a due passi. Vi provvedevano
    ampiamente.
    Poi gli sacrificavano:
    Merluzzi salati,
    Stoccafissi,
    Uova fritte, perdute, soffocate, sode, messe nella cenere, gettate pel camino, strapazzate, incatramate
    ecc.
    Baccalà,
    Farfalle,Totani,
    Storioncini marinati, per cuocere i quali e digerirli facilmente l'aceto era moltiplicato.
    Alla fine offrivano:
    Riso, Sisari,
    Miglio, Frumentata,
    Tritello, Prugnoli,
    Burro di mandorle, Datteri,
    Neve di burro, Noci,
    Pistacchi, Nocciole,
    Fistichi, Pastinaca,
    Fichi,
    Carciofi.
    Uva
    (François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, Torino, Einaudi, 1989, pag. 323)

    Quello sopra riportato un menu inventato. Ma cosa mangiarono gli ospiti della prima classe del Titanic la sera del naufragio? Ecco il loro menu, poco meno pantagruelico di quello immaginato da Rabelais

    Prima portata
    Ostriche

    Seconda portata
    Consomè Olga. Crema d’orzo

    Terza portata
    Filetti di salmone bolliti con salsa mousseline

    Quarta portata
    Filetto di pollo saltato alla lionese. Agnello alla menta. Anatroccolo brasato. Tagliata di manzo con patate chateau

    Quinta portata
    Riso bollito. Patate novelle del vapore

    Sesta portata
    Punch Romaine

    Settima portata
    Piccione arrosto con crescione saltato

    Ottava portata
    Asparagi vinaigrette

    Nona portata
    Terrina di Foie gras

    Decima portata
    Waldorf pudding. Pesche sciroppate in gelatina di Chartreuse. Profiteroles. Gelato alla vaniglia francese

    La poesia di Gianni Rodari “Il fornaio” (solo apparentemente destinata esclusivamente ai bambini ma invece utilissima per una riflessione per preadolescenti) ci porta alla speranza di un mondo senza fame (e dunque senza peccati di gola, la segreta alleata della fame):

    Se io facessi il fornaio
    vorrei cuocere un pane
    cosi grande da sfamare
    tutta, tutta la gente
    che non ha da mangiare.
    Un pane piu grande del sole,
    dorato, profumato,
    come le viole.
    Un pane cosi
    verrebbero a mangiarlo
    dall’India e dal Chili
    i poveri, i bambini;
    i vecchietti e gli uccellini.
    Sarà una data
    da studiare a memoria:
    un giorno senza fame!
    Il più bel giorno di tutta
    la storia.

    Invece questo breve brano tratto dal romanzo di un autore contemporaneo ci fa capire come la sensazione che noi definiamo “fame” abbia in realtà tutto un altro significato:

    Quando sento qualcuno dire “Ho fame. Su andiamo a mangiare”, ho una gran voglia di prenderlo a schiaffi. E unicamente per motivi semantici. Dovrebbe dire piuttosto: “Ho appetito”. La fame è tutt’altra faccenda. È une delle cose che abbiamo perso quasi completamente, noi, viziati figli della civiltà e della cultura, che comprammo l’istruzione con borse di studio o attingendo alle tasche dei genitori. La fame è rara, ai giorni nostri, nella nostra società. La si legge sui giornali – Bangladesh, Etiopia, India. Dagli ultimi anni del secolo scorso, è il titolo di un libro a lieto fine. E anche allora era soprattutto prerogativa degli artisti
    (Benjamin Tammuz, Londra, Roma, e/o, 1999, pag. 14)

    Una esperienza

    Tracce di una autobiografia gustativa. Abbiamo detto sopra che educare il gusto è forse la principale arma per combattere il peccato di gola. È possibile aiutare i ragazzi a scrivere la propria autobiografia anche a partire dai sapori incontrati nella propria vita, con l’aiuto di qualche (apparentemente) semplice domanda. Qual è un sapore che mi riporta alla mia infanzia? qual è il primo ricordo associato ai seguenti sapori: salato, dolce, piccante, aspro, amaro. Qual è il sapore che associo alle seguenti persone: mio padre,mia madre, mia sorella/fratello, il mio migliore amico, il mio nemico, la mia maestra/maestro ecc.. Qual e’il sapore che associo alle seguenti situazioni: primo amore, prima esperienza lavorativa, scuola dell’infanzia o elementare, la mia prima lite, un risultato positivo ottenuto, una delusione ecc.


    6. Come si educa all’ira

    Sembra essere ovunque, l’ira. Alla coda del supermercato, allo stadio, al casello autostradale. Gli americani hanno addirittura inventato una espressione “road rage” rabbia stradale per definire l’atteggiamento medio degli automobilisti al volante. L’educazione all’ira sembra una caratteristica così fondante della nostra società che si fa fatica a pensare a un mondo civile nel quale non si sia qualcuno che inizi a sbraitare, offendere, insultare. Una icona dell’inutile come Vittorio Sgarbi ha educato una generazione allo sputo delle offese e degli insulti come unica modalità di relazione tra esseri umani. Ogni epoca evidentemente ha il suo Baldassarre Castiglione o il suo Della Casa: il nostro Galateo ha questi patetici involucri di nulla catodici che insegnano ad aggredire e a impedire ogni possibile confronto attraverso la rabbia sputata addosso a tutti e a tutti.
    Occorre però distinguere: esiste un’ira direzionata e precisa, un’ira che si scatena di fronte alle ingiustizie e ai soprusi e che porta spesso a impegnarsi perché queste situazioni siano eliminate, e questa non è l’ira della quale stiamo parlando. Del resto anche l'Antico Testamento di parla dell’ira di YHWH che si scatena guarda caso quando c’è qualche debole da proteggere o qualche mancanza grave del popolo da correggere (di solito l’idolatria). L’ira come peccato, l’ira alla quale la nostra società addestra i ragazzi e le ragazze, è il contrario: è l’ira che proprio perché scatenata e direzionata verso il nulla, l’effimero o lo sciocco ottunde la sana capacità di indignarsi. Ed è inoltre l’ira che rimane ira, che non cambia mai il suo verso in progetto di cambiamento, che si sfoga nel gesto di violenza e di vandalismo non essendo così agente di cambiamento.
    Perché l‘ira in realtà è uno stato d’animo conservatore: lascia tutto com’è, obbedendo in fin dei conti al detto “chi picchia per primo picchia più forte” che è la legge principale di questa nostra jungla sociale. La bella poesia di Bertolt Brecht “A coloro che verranno” contiene il noto verso: “Eppure lo sappiamo:/anche l'odio contro la bassezza/stravolge il viso./Anche l'ira per l'ingiustizia/fa roca la voce. Oh, noi/che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,/noi non si potè essere gentili.”. Ora, considerando queste parole nell’ambiente storico e sociale nel quale sono state scritte (l’occupazione nazista) si può anche condividerle: ma oggi esse non possono costituire oggi un programma pedagogico per il semplice fatto che perpetuano, cambiandola di segno, la violenza che denunciano e che vorrebbero superare. Questa è la grande verità del movimento nonviolento e della sua insistenza sulla giusta relazione tra mezzi e fini: l’ira è l’arma del nemico, ed è un’arma straordinaria perché non uccide ma fa vivere, rende tutti uguali a lei, si perpetua attraverso gli esseri umani.
    Un esempio è la volgarità gratuita nella politica. Prendere in giro un ministro perché è basso o insultare una parlamentare per i suoi presunti rapporti sessuali con più uomini significa perpetuare proprio quel razzismo contro i diversi e quel maschilismo antifemminista che dovrebbero invece essere sottoposti a critica: e significa soprattutto non dire che sono le scelte politiche di quel ministro e di quella parlamentare a non piacerci. Il fatto che l’atteggiamento aggressivo, l’insulto personale, la rabbia che diventa offesa siano ormai trasversali a tutte le parti politiche rappresenta la vittoria di un modello, al di là del partito politico o del personaggio al quale questo modello poteva fare riferimento.
    Tutto questo significa che l’educatore non si arrabbia mai? Anzitutto l’educatore deve sapere che prima o poi sarà oggetto della rabbia degli educandi. Accettare la rabbia dell’educando significa però accettare anche le proprie rabbie nei confronti dell’educando e saperle trattare, saperle sottoporre a una specie di travestimento pedagogico. Dopo avere sgridato fortemente una classe per un compito mal riuscito una professoressa si sentì chiedere da un ragazzo “Ma Lei è davvero arrabbiata con noi o fa finta?”. Una domanda azzeccata: è assolutamente ovvio che la professoressa provava veramente un sentimento di rabbia o di delusione ma tanto più poteva comunicare rabbia quanto più lasciava la rabbia “vera” fuori dalla porta o meglio la transustanziava in quella rabbia fittizia che è rabbia recitata, rabbia pedagogica. La cosa importante è da un lato che la finzione non scada in affettazione, dall’altro che il sentimento provato in capo educativo non sfondi sulla vita reale. In un suo noto libro Gianni Rodari sognava un mondo nel quale coloro che sentivano montare la rabbia potevano accedere al Palazzo Rompitutto nel quale sfogarsi senza essere puniti o rimproverati. Forse questa può essere una soluzione non solo simbolica e provocatoria per contenere le legittime e salutari rabbie dei nostri ragazzi: non nel senso di far loro rompere le sedie (anche se una bella festa annuale del rompitutto in una I media offrirebbe uno spettacolo di tutto rilievo) ma nel senso di strutturare la relazione educativa in modo che essa non si sottragga alla critica, alla contestazione, all’iconoclastia che sono il volto pedagogicamente corretto dell’espressione della rabbia.
    La rabbia non diventa ira, dunque, se non la criminalizziamo patologizziamo o non le diamo una risposta moralistica; ma la riconosciamo, le diamo una via d’uscita, la trasformiamo in gesto simbolico le offriamo la possibilità di cambiare le cose: in modo da eliminare se stessa, annullare la sua forza, proiettarci verso il sogno di un mondo non irato – ma prima di tutto di un mondo giusto.

    Qualche testo

    In questa poesia intitolata “Dateci” Primo Levi ci presenta il ruolo dell’ira nella costruzione del neonazista o del neofascista: un’ira senza oggetto, alla disperata ricerca di qualcosa da distruggere, violentare, sfregiare

    Dateci qualche cosa da distruggere,
    Una corolla, un angolo di silenzio,
    Un compagno di fede, un magistrato,
    Una cabina telefonica,
    Un giornalista, un rinnegato,
    Un tifoso dell'altra squadra,
    Un lampione, un tombino, una panchina.
    Dateci qualche cosa da sfregiare,
    Un intonaco, la Gioconda,
    Un parafango, una pietra tombale.
    Dateci qualche cosa da stuprare,
    Una ragazza timida,
    Un'aiuola, noi stessi.
    Non disprezzateci: siamo araldi e profeti.
    Dateci qualche cosa che bruci, offenda, tagli, sfondi, sporchi
    Che ci faccia sentire che esistiamo.
    Dateci un manganello o una Nagant,
    dateci una siringa o una Suzuki.
    Commiserateci.

    L’ira è un sentimento che spesso leghiamo strettamente alle situazioni affettive. Come reagire a un addio per esempio? La canzone “T’innamorerai” di Marco Masini è un esempio di una sorta di ira dolce, un ex-fidanzato che non augura proprio un gran bel futuro alla donna che lo ha lasciato

    T'innamorerai forse non di me
    starai ferma lì e succederà da sé ... da sé
    Della libertà degli amici tuoi
    te ne fregherai quando t'innamorerai ... vedrai
    Sarà bello da guardare come un poster di James Dean
    sarà dolce la paura sganciandosi i blue jeans
    Sarà grande come il mare sarà forte come un Dio
    sarà il primo vero amore quello che non sono io
    T'innamorerai di un bastardo che
    ti dirà bugie per portarti via da me ...
    Chi ti difenderà dal buio della notte
    da questa vita che non dà quel che promette
    T'innamorerai lo so certo non di me
    in profondità che non sai di avere in te ... in te
    Sarai sola contro tutti perché io non ci sarò
    quando piangi e lavi i piatti e la vita dice no
    Un ritardo di sei giorni che non sai se dirlo a lui
    avrai voglia di pensarmi tu che adesso non mi vuoi
    T'innamorerai ... di me
    ma non sarò io ... con te
    T'innamorerai quando sarà tardi ormai
    E il cielo piangerà gli mancherà una stella
    vai con la tua felicità sei troppo bella
    T'innamorerai
    T'innamorerai
    T'innamorerai
    non di me ma t'innamorerai.

    Vendicarsi, lasciar fare alla rabbia, cedere all’ira. È sempre la soluzione migliore? Per poter dare una risposta, proviamo a leggere questa novella di Dino Buzzati

    Era all'estero, lontano, ricevette tre telegrammi. Aprì il primo telegramma: gli avevano distrutta la casa. Aprì il secondo telegramma: gli avevano uccisa la moglie. Aprì il terzo telegramma: gli avevano trucidato i bambini. Stramazzò. Lentamente si stava rialzando. Senza un soldo, a piedi si incamminò. Il suo passo accelerava. D'ora in ora pedalava più forte. La lancetta del tachimetro oscillava tra i 180 e i 190. Il rombo dell'esercito corazzato ch'egli guidava riempiva le campagne e le valli In quella limpida giornata di sole la pianura in fiore fu oscurata dall'ombra della immensa flotta di esamotori a reazione carichi di morte da lui pilotata. Vide laggiù il nemico. Fermò la bicicletta, mise giù un piede, si asciugò il sudore della fronte. Un albero faceva ombra, un uccello cantava. Siede sul bordo della via, i piedi stanchi. Guarda dinanzi a sè i prati, i campi, i boschi, le montagne, le misteriose montagne. Vendetta, che inutile cosa.

    Ogni tanto l’ira diventa anche qualcosa di legittimo: è l’idea della pena di morte, del diritto dello Stato di dare la morte a chi si è macchiato di determinati crimini. Ma la morte data dallo Stato rimane morte, qualcosa di orribile e di tremendo, e anche il boia più freddo e distaccato non può eliminare del tutto l’ira dal suo gesto. Umberto Eco, anni fa, consigliava i giovani di fare una vera e propria anti-festa della morte per far capire a coloro che volevano la pena capitale di che cosa in realtà si stesse parlando:

    Fate una grande sagra della morte nelle nostre città, date alla gente l'odore della morte, il sapore della morte, (...) fate sentire lo schifo della morte provocata ad arte in nome di una qualsiasi giustizia (...) Solo per un giorno, in modo che il paese si accorga che sta prendendo gusto alla morte e ricordi cos'è la morte e tutti si chiedano se stiamo diventando pazzi. Poi smettete anche voi, perché a giocare troppo con l'immagine della morte ci si prende gusto.
    (Umberto Eco, Non si scherza con la signora, in “Repubblica”, 14.2.1981)

    Forse l’ira come sentimento, come stato d’animo non è ancora la cosa peggiore. L’ira amministrata, creata ad arte e soprattutto la possibilità di uccidere e sterminare senza nemmeno bisogno dell’ira è certamente più efficace, perché lo sterminatore non è disturbato da alcun sentimento, nemmeno negativo. Il filosofo Gunther Anders sottolinea questo effetto di sterminio senza ira dovuto alla situazione atomica:

    All’epoca dei missili intercontinentali è probabile che non si vedrà più nulla affatto: non solo non si vedrà più il nemico; non solo non si vedrà più l’arma; non solo non si vedrà più il colpo; ma poiché la rovina piomberà sull’istante e ucciderà tutto, non si vedrà più neppure l’effetto del colpo (…) Oggi siamo privati di questa esperienza immediata di nessi e di queste connessioni vissute. Preparazione, atto ed effetto sono separati tra loro e non solo in senso spaziale. Ciò che percepiamo rimane sempre frammentario; è la preparazione oppure l’effetto. E questo vale proprio per le situazioni fondamentali, cioè per quelle in cui decidiamo dell’essere o non essere degli altri o in cui è in gioco il nostro essere o non essere A questa mutilazione percettiva corrisponde la sclerosi delle emozioni. Ciò che non so non turba i miei sonni. Ciò che prepariamo senza vedere l’effetto della preparazione o la vittima; o ciò che ci colpisce senza che si possa vedere il gesto preparatorio dell’atto, rimane inassimilabile al sentimento. (...) ed è per questo che le vittime non possono odiare (Günther Anders, Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Roma, Linea d’ombra, 1995 pagg. 119-120).

    Una esperienza

    Quali sono i colori dell’ira? Quali i suoi sapori? È possibile chiedere a un gruppo di ragazzi di immaginare una situazione nella quale si è provato un forte sentimento di rabbia e poi associarlo a un colore, a un sapore, a un suono, a una sensazione tattile, a una canzone. Poi si chieda ai ragazzi di affiancare al colore, sapore ecc. quello che si ritiene essere il suo opposto, e di scrivere il finale della situazione prendendo spunto dal colore. Ad esempio, se si è provata rabbia per il tradimento di un amico e la si è associata al sapore piccante del peperoncino, poi si potrà dire che il sapore opposto è il dolce dello zucchero filato; quale finale alternativo alla nostra storia con l’amico traditore ci fa venire in mente questo sapore?


    7. Come si educa all’accidia

    “Sono un tipo antisociale, non ho voglia di far niente, sulle scatole mi sta tutta la gente. In un’isola deserta voglio andare ad abitare e nessuno mi potrà più disturbare”. Questa vecchia canzone di Francesco Guccini, intitolata “L’Antisociale” collega l’accidia all’antisocialità, un collegamento che facciamo volentieri nostro. E la dimensione della socialità, propria dell’educazione democratica e soprattutto della scuola, a dover contribuire a crescere cittadini e cittadine che sanno mettere le loro competenze e i loro talenti a disposizione della collettività. La scuola è il luogo della socializzazione del sapere, della condivisione di quanto si apprende: non è un servizio a domanda individuale ma una occasione di socialità. Ma per poter ottenere questo risultato l’educazione e la scuola devono smuovere quella sorta di richiamo continuo all’immobilità e all’omeostasi, quella coazione a ripetere il nulla che Freud ha così efficacemente studiato nelle sue ultime opere e che sembra caratterizzare le persone soprattutto quando sono convinte che il loro contributo sia del tutto inutile.
    L’accidia è infatti un ritiro dalla prassi, lo sprofondare in un isolamento comodo e ovattato nel quale sembra che non ci sia nulla da fare perché nulla vale la pena di essere tentato e provato. L’accidia è il regno della nebbia che rende uguali tutte le possibilità, che cancella le differenze qualitative, che lascia il mondo così com’è perché non vede le differenze tra il passato, il presente e il futuro. “E allora ti viene la voglia di fare un’azione/ma ti sfugge di mano e si invischia ogni gesto che fai”: Giorgio Gaber descrive così, nella canzone “i reduci”, il senso di fatalismo che è padre dell’accidia, quel fatalismo che porta i gesti a invischiarsi in una specie di sostanza collosa che rende tutto uguale a tutto: a questo punto, parafrasando Sartre, ubriacarsi di solitudine e guidare popoli è esattamente la stessa cosa, e dunque tanto vale non fare niente. Il nichilismo e il cinismo sono le basi sicure dell’accidioso.
    La nostra epoca ci offre una icona differente e inedita dell’accidia: si tratta degli Hikikomori, gli adolescenti o giovani adulti che si chiudono nella loro stanza, non escono più e passano le giornate in rete. La sera lasciano i vestiti sporchi fuori dalla porta, a mezzogiorno e a cena le madri lasciano nello stesso posto i pasti. I genitori prima cercano dolcemente di convincere i figli a uscire, poi sempre più ansiosamente chiedono aiuto a uno psichiatra, ma i ragazzi restano tenacemente isolati dal mondo. Già il nome del fenomeno, hikikomori, ci fa capire che la patria elettiva di questi ragazzi è il Giappone: guarda caso, proprio la società ipercompetitiva dell’Estremo Oriente, proprio quel capitalismo quasi sacrale per il quale occorre fare di tutto per emergere lascia il campo al non fare niente come scelta estrema. Proprio laddove l’azione non è valutata per se stessa ma per il livello gerarchico che aiuta a scalare, l’azione stessa viene cancellata e le gerarchie irrisa in una solitudine scelta e disperatamente difesa. Se non posso fare un’azione per la sua bellezza intrinseca, se non posso sceglier cosa fare, tanto vale non fare niente e minare dall’interno il sistema. Ma in realtà la scelta degli hikikomori non mina proprio niente: patologizzata e “curata”, non fa altro che rafforzare il nichilismo del sistema competitivo, che lascia sussistere alla sua periferia l’accidioso come ingranaggio saltato, rotella impazzita, “pazzo”:
    L’accidia dunque uccide la speranza, o meglio la irride: l’accidioso colora le sue giornate di un tono grigio ovattato e uniforme, come nella straordinaria immagine dello Spleen che dobbiamo a Baudelaire: “Quando, come un coperchio, il cielo pesa greve /Sull'anima gemente in preda a lunghi affanni, /E in un unico cerchio stringendo l'orizzonte/Riversa un giorno nero più triste delle notti;/Quando la terra cambia in un'umida cella,/Entro cui la Speranza va, come un pipistrello,/Sbattendo la sua timida ala contro i muri/E picchiando la testa sul fradicio soffitto;/Quando la pioggia stende le sue immense strisce/Imitando le sbarre di una vasta prigione,/E, muto e ripugnante, un popolo di ragni/Tende le proprie reti dentro i nostri cervelli”. L’immagine della speranza che sbatte contro i muri è il segno dell’accidia: ormai non c’è più niente da fare.
    Anche se dal punto di vista “tecnico” non siamo tra gli accidiosi ma tra i negligenti, Dante ci offre con la figura di bel acqua nel Purgatorio una straordinaria icona dell’accidia: “E un di lor, che mi sembiava lasso,/sedeva e abbracciava le ginocchia,|tenendo ’l viso giù tra esse basso.”: Samuel Beckett, cantore dell’assenza di speranza, amava molto questa immagine fisica; il ripiegamento su di sé proprio di Belacqua, con il volto quasi incastrato tra le ginocchia, potrebbe corrispondere a ciò che vedremmo se spalancassimo di colpo la porta di un hikikomori, magari a computer spento. Il ragazzo sarebbe piegato su se stesso, nella posizione indifferente al mondo e anche ai suoi colpi, una specie di parodia depotenziata di quei deportati nei campi di sterminio che per il loro lasciarsi andare erano detti “musulmani” e che Giorgio Agamben ha tanto efficacemente studiato. Non si tratta di una opposizione fetale, perché il feto anela alla nascita; o forse si tratta di quel “feto adulto” di cui parlava Pasolini, un feto che non nascerà, che non attende nemmeno la liberazione della morte.
    Educare contro l’accidia significa restituire ai gesti delle persone una efficacia concreta e ciò è possibile solo sbloccando la posizione di Belacqua e alzando il suo volto in modo che possa vedere l’altro da sè; significa che la frase “aprire una ferita è lo stesso che curarla” può valere dal punto di vista del soggetto che osserva ma non dal punto di vista del ferito. Per chi attende di essere soccorso o di essere aiutato a rialzarsi il gesto non è indifferente, e un gesto di offesa è ben diverso da un gesto di cura o da un non-gesto accidioso. Ai ragazzi e alle ragazze occorre l’esperienza dell’efficacia dei loro gesti, per piccoli che siano. In un mondo che tutti i giorni celebra la strapotenza del male occorre che essi vedano il carattere contagioso e contaminante del bene, del bene che parte da me, piccolo uomo o piccola donna. Usando un verso di Danilo Dolci, l’accidia si sconfigge sapendo che “ai giovani occorre l’esperienza/di un mondo diverso davvero”.

    Qualche testo

    A volte l’accidia sembra provocata anche dal tempo meteorologico, dalla natura che ci circonda: ovviamente stiamo proiettando un nostro sentimento sulla natura, che ne è del tutto priva; ma in certe giornate d’autunno è davvero difficile non provare accidia, come ci ricorda questa canzone di Francesco Guccini, intitolata appunto “Autunno”:

    Un'oca che guazza nel fango, un cane che abbaia a comando,
    la pioggia che cade e non cade le nebbie striscianti che svelano e velano strade...
    Profilo degli alberi secchi, spezzarsi scrosciante di stecchi,
    sul monte, ogni tanto, gli spari e cadono urlando di morte gli animali ignari...
    L'autunno ti fa sonnolento, la luce del giorno è un momento
    che irrompe e veloce è svanita: metafora lucida di quello che è la nostra vita...
    L'autunno che sfuma i contorni consuma in un giorno più giorni,
    ti sembra sia un gioco indolente, ma rapido brucia giornate che appaiono lente...
    Odori di fumo e foschia, fanghiglia di periferia,
    distese di foglia marcita che cade in silenzio lasciando per sempre la vita...
    Rinchiudersi in casa a aspettare qualcuno o qualcosa da fare,
    qualcosa che mai si farà, qualcuno che sai non esiste e che non suonerà...
    Rinchiudersi in casa a contare le ore che fai scivolare
    pensando confuso al mistero dei tanti "io sarò" diventati per dempre "io ero"...
    Rinchiudersi in casa a guardare un libro, una foto, un giornale
    e ignorando quel rodere sordo che cambia "io faccio" e lo fa diventare "io ricordo"...
    La notte è di colpo calata, c'è un'oscurità perforata
    da un'auto che passa veloce lasciando soltanto al silenzio la buia sua voce...
    Rumore che appare e scompare, immagine crepuscolare
    del correre tuo senza scopo, del tempo che gioca con te come il gatto col topo...
    Le storie credute importanti si sbriciolano in pochi istanti:
    figure e impressioni passate si fanno lontane e lontana così è la tua estate...
    E vesti la notte incombente
    lasciando vagare la mente
    al niente temuto e aspettato
    sapendo che questo è il tuo autunno...
    che adesso è arrivato...

    Torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene, pigrizia, indolenza, infingardaggine, svogliatezza, abulia. Queste alcune possibili declinazioni del termine “accidia”; proviamo a vederle esemplificate in questa poesia relativa alla fine (o alla non-fine) di una storia d’amore (o di non-amore). Si tratta di “Colazione del mattino” di Jacques Prevert:

    Lui ha messo
    Il caffè nella tazza
    Lui ha messo
    Il latte nel caffè
    Lui ha messo
    Lo zucchero nel caffellatte
    Ha girato
    Il cucchiaino
    Ha bevuto il caffellatte
    Ha posato la tazza
    Senza parlarmi
    S’è acceso
    Una sigaretta
    Ha fatto
    Dei cerchi di fumo
    Ha messo la cenere
    Nel portacenere
    Senza parlarmi
    Senza guardarmi
    S’è alzato
    S’è messo
    Sulla testa il cappello
    S’è messo
    L’impermeabile
    Perché pioveva
    E se n’è andato
    Sotto la pioggia
    Senza parlare
    Senza guardarmi,
    E io mi son presa
    La testa fra le mani
    E ho pianto.

    L’accidia è complicità. Non esiste nessuna posizione neutrale nei confronti di ciò che accade tutti i giorni nel mondo, e ogni nostra scelta in realtà ha una ricaduta sul resto del mondo. La poesia di Stefano Benni che proponiamo qui sotto sottolinea gli effetti di una posizione accidiosa, pigra, che non cerca di approfondire ciò che accade e che così facendo crea effetti devastanti.

    Ho venduto un pezzo di cannone
    poi le ruote e un altro pezzo di cannone
    la culatta e l'otturatore
    il mirino e un altro pezzo di cannone
    e altri tre pezzi di cannone
    e adesso c'è uno in televisione
    che dice che mi spara col mio cannone
    chi lo sapeva che coi pezzi di cannone
    avrebbe fatto un cannone?
    Se lo avessi saputo
    mica avrei accettato l'ordinazione.

    Ho venduto cento elicotteri
    con relativo armamento
    e un sistema puntamento missili
    e un sistema anti-sistema di puntamento
    adesso l'elicottero è lì che spia
    come un falco sopra casa mia.
    Se lo avessi saputo cosa voleva fare
    non gli avrei venduto la testata nucleare
    era così distinto, un vero signore
    chi poteva sapere che era un dittatore?

    Se avessi saputo che un cliente
    può diventare un nemico
    della mia patria
    dell'Occidente
    vi giuro gente
    lo giuro sui figli
    lo giuro su Gesù
    gli avrei fatto pagare
    il cinquanta per cento in più.
    Da qui si vede
    la mia buona fede.

    All’accidia però si può rispondere, si può e si deve reagire. La splendida canzone “Domani è un altro giorno” (è nota la straordinaria interpretazione di Ornella Vanoni) parte da una situazione esistenziale che molti di noi avranno senz’altro provato per poi trovare un riscatto nella voglia di azione e nel dare nuovo ossigeno alla speranza:

    È uno di quei giorni che ti prende la malinconia
    fino a sera non ti lascia più
    la mia fede è troppo scossa ormai ma prego e penso fra di me
    proviamo anche con dio non si sa mai
    e non c'è niente di più triste in giornate come queste
    che ricordare la felicità sapendo già che è inutile ripetere:
    chissà ? Domani è un altro giorno si vedrà
    è uno di quei giorni in cui rivedo tutta la mia vita
    bilancio che non ho quadrato mai
    posso dire d'ogni cosa che ho fatto a modo mio
    ma con che risultati non saprei
    e non mi sono servite a niente esperienze e delusioni
    e se ho promesso non lo faccio più ho sempre detto in ultimo :
    ho perso ancora ma domani è un altro giorno, si vedrà
    è uno di quei giorni che tu non hai conosciuto mai
    beato te si beato te
    io di tutta un'esistenza spesa a dare,
    dare, dare .... non ho salvato niente, neanche te
    ma nonostante tutto io non rinuncio a credere
    che tu potresti ritornare qui e come tanto tempo fa ripeto :
    chi lo sa ? Domani è un altro giorno si vedrà
    e oggi non m'importa della stagione morta
    per cui rimpianti adesso non ho più
    e come tanto tempo fa ripeto :
    chi lo sa ? Domani è un altro giorno si vedrà
    domani è un altro giorno si vedrà

    Una esperienza

    Si proponga a un gruppo di ragazzi una valutazione della seguente situazione:
    Marco, 17 anni, è a casa da solo, la domenica mattina. Ha voglia di poltrire sul divano, non toglie nemmeno il pigiama e si sdraia davanti alla Tv. Improvvisamente suonano alla porta: è un signore che afferma di raccogliere denaro per la smilitarizzazione e il recupero psicologico dei bambini soldato nell’Africa centrale. Marco lo fa entrare, guarda le foto e i documenti che costui presenta e poi gli offre 50 €. L’uomo rilascia una ricevuta e se ne va. Il giorno successivo Marco legge sul giornale che quella persona in realtà è un truffatore, un emissario degli eserciti dei bambini soldato e che userà quei soldi esattamente per la ragione opposta a quella promessa, ovvero per finanziare il reclutamento dei piccoli combattenti.
    Domanda per il gruppo: l’azione di Marco è moralmente buona o moralmente cattiva? E Marco è moralmente colpevole o innocente?


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


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    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
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    Per una
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    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


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    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


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