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    Quando la fede dei giovani rimbalza sugli adulti

    Paolo Arienti *

    (NPG 2017-01-67)

    Le risonanze che la ricerca pone in rilevo rispetto al difficile binomio fede-giovani, sono “abbastanza” risapute. Ma forse solo “abbastanza” perché pur dentro la grande vitalità della Pastorale giovanile delle questioni di fondo (e quale è più di fondo se non la versione giovane del de fide?) si parla troppo poco. Che i giovani continuamente riposizionino la propria fluida concezione della vita, è cosa risaputa; che siano operative semplificazioni che appropriano la fede alla morale (di un tempo?), alla socializzazione (degli adulti e degli anziani?), agli affetti (emotivamente declinati?)… anche questo è risaputo. E l’esperienza quotidiana, palpabile anche in Chiese in cui strutture, percorsi e proposte hanno il sapore dell’istituzione condivisa, conferma quanto i dati esprimono con accenti di giusta profondità e sincera crudezza.

    Utile fare il punto…

    Negli ultimi decenni anche il glorioso e oratoriano Nord ha dovuto fare i conti con una esigenza complessa che sta reclamando una profonda conversione dei paradigmi pastorali e delle loro prassi: ci si accorge non senza fastidio, ansia e senso di spiazzamento, che i numeri sono quelli che sono (e in calo) e che il mondo giovanile assomiglia sempre più ad una galassia che si percepisce più giovane (adolescenziale) di quanto non sia anagraficamente, esposta alla ridda delle offerte, delle dislocazioni e dei ripensamenti. Si intuisce che lo schema della convocazione, foss’anche dell’incontro formativo classico, un po’ monocorde, un po’ unidirezionale, non interessa più, forse perché scarso interesse, scarsa passione suscitano anche le questioni più di fondo. Le medesime su cui qualche anno fa si sarebbe ingaggiata una fervente battaglia, non importa su quale fronte. Si intuisce che la trasmissione della fede – espressione orribilmente meccanica, ma tutto sommato efficace – richiede una cura dispendiosa: qualcuno sta ormai immaginandola come un “lusso” che questa o quella comunità non può più permettersi.
    Si chiude con grande rammarico sul saldo negativissimo della Pastorale vocazionale, mentre i seminari vengono accorpati e i corsi fidanzati o si assottigliano o si riempiono di coppie conviventi, magari accompagnate da qualche bebè.
    Ci si accorge di segnali belli, di storie profonde, soprattutto legate alle “cose” della vita: esperienze che raccontano di biografie accolte, accompagnate e sostenute da una cura significativa e di qualità, in un ventaglio che assomiglia davvero alla vita reale e va quindi dai giovani sottratti alla devianza a quanti sperimentano un cammino di fede più esplicito e maturante.
    Ci si immerge nella vitalità dei giovani, spesso scomposta, a volte molto seria, ed emergono ancora ragioni sufficienti per ringraziare del compito educativo, dell’amore sincero che l’altro nella sua più bella primavera suscita.
    Si avverte l’urgenza di rendere più consapevole e strutturata proprio quella Pastorale giovanile che anni fa era  almeno nel Nord – assegnata con naturalezza (e delega) all’Oratorio e alla sua “catena educativa”: proprio quando le forze calano, la mobilità dei ragazzi raggiunge punte mai viste, cresce il privatismo, ma soprattutto la matrice della secolarizzazione intacca davvero tutto, anche la socializzazione religiosa primaria che sinora qualche garanzia di tenuta aveva favorito.

    I fattori in gioco

    E vanno così mescolandosi i fattori che rendono assolutamente condivisibili e riscontrabili nella prassi ordinaria le asserzioni della ricerca: fattori più psicologici, legati alla percezione delle età della vita (la loro reale consistenza, il loro “stacco generazionale”), e fattori più sociologici che interpellano la fatica educativa e con difficoltà si riposizionano dinanzi e dentro la complessità delle relazioni.
    Ma nel bel mezzo di questa “pasta” vive la Chiesa, sollecitata anche dal recente convegno di Firenze a far propri alcuni verbi, azioni positive, concrete, responsabilità per il mondo, e al tempo stesso motivi di conversione, doni ricevuti per grazia. Mentre si sfoglia la ricerca e si leggono gli agili e non banali contributi, sorge la domanda che qualcuno si è fatto secoli fa davanti alla forza scomoda del profeta Giovanni, con le caviglie già immerse nelle acque evocative del Giordano: “e noi che cosa dobbiamo fare?”. A ben pensarci è la domanda ecclesiale per eccellenza, l’unica che prende sul serio la concretezza dell’incarnazione e la sua esistenza come norma fondamentale e come forma di esistenza, non ritrattabile. Dentro quel “fare” sta tutta la complessità dell’essere, con la sua passione e il suo desiderio di amare, lo stesso che anima una Pastorale giovanile che non si limita solo a scrivere e a discettare, ma immagina, realizza e sostiene percorsi concreti, dove i volti, le storie, gli animi fanno la differenza.
    Non è un caso che, delineando il complesso mondo degli oratori, la Nota CEI del 2013 individuasse nella prossimità la categoria sintetica di una storia secolare, tanto antica quanto attuale. In diversi passaggi la ricerca intuisce una richiesta, anzi la esplicita a rango di domanda ecclesiale: quale comunità cristiana i giovani possono incontrare? Quale volto concreto, ovvero quale esperienza di Chiesa e di Vangelo? La questione è pertinente non solo in termini teologici, dato che non può sussistere approccio al Vangelo senza Chiesa, ma anche in termini esistenziali: oggi la Pastorale giovanile si interroga proprio sulla sua reale consistenza, fatta di prossimità vera, fiducia vera, fede vera.

    La profondità della questione

    Non si tratta di inanellare strutture o percorsi, ma di cogliere un’efficacia d’altra natura, esprimibile nei termini della qualità di presenza e di significato. Cosa che quasi automaticamente rimbalza su due dimensioni nient’affatto secondarie: quella della qualità testimoniale della fede e quella  ancora più profonda e decisiva – della consistenza stessa della fede.
    La prima dimensione attiene più direttamente al metodo educativo e domanda se la prossimità, oltre che dichiarata (a volte con qualche puntiglio di blasone), è anche onorata, abitata, patita, amata, ovvero se la comunità cristiana “spende” energie e risorse sul fatto educativo e sulle sue dinamiche, a volte spiazzanti e bisognose di guizzi di fantasia e senso di responsabilità; chiede ad esempio ai preti di andare oltre il modello sacerdotale meramente autoreferenziale (e oggi ancora abbondantemente di moda!) e cogliere la bellezza della sinodalità e della collaborazione operativa; chiede agli educatori di scendere dal cavallo eroico che li porta a singolar tenzone, per giocare la stessa partita, ma di squadra; chiede che l’emergenza educativa sia veramente tale non solo nelle denunce, ma anche nelle scelte: soprattutto laddove queste vanno centellinate e assumono un valore strategico; sollecita infine a non propinare ai giovani soluzioni apologeticamente semplici (perché più chiare e sicure) rispetto alla complessità del reale in cui loro dovranno vivere, lo si voglia o no.
    La seconda – la classica domanda de fide – interpella sui contenuti della fede e ancor di più sul contenuto: la pretesa cristologica, lo spazio riconosciuto a Dio, il valore e la forma della preghiera in un mondo – soprattutto giovanile – che con Bonhoeffer si deve senza vergogna dichiarare “divenuto adulto”. Avvicinare oggi un giovane, proporgli un cammino, approcciarne un evento biografico o mantenere con lui un’amicizia capace di dialogo, rimanda alla fede che si desidera “trasmettere”, nella forma alta e difficile del suo significato per quel giovane, delle sue forme di esperienza, del suo posto nella sua vita. E ci si deve chiedere allora se può sussistere una espressione solo ‘celeste’ e disincarnata, devozionale della fede, anche di quella celebrata; se i linguaggi non possano mai davvero venir riplasmati ridando alle parole la loro dignità di servizio alla intelligenza della fede (che è un fatto anche comunicativo); se la comunità cristiana tanto invocata si stia ponendo – su se stessa – la domanda della fede e del suo posto nel mondo secolare. Insomma: se per la comunità cristiana (e quasi fatalmente la sua fanteria operativa: i suoi preti, i suoi genitori, i suoi educatori!) la fede è quella bellezza che gli intervistatori della ricerca hanno provocatoriamente domandato ai giovani, (forse manca qualcosa?)suscitano sorpresa e imbarazzo. Perché forse certe semplificazioni, morali, giuridiche, tradizionali e poco… umanistiche sono operative innanzitutto negli adulti. Mentre la stagione giovanile, presa tra viaggi all’estero e divano, evasioni e pericolose domande sul limite e la sua sostenibilità fisica e mentale, chiede spessore, sincerità, passione. E se non la trova, semplicemente si rivolge altrove: dove ci saranno altri amori (quali?), altre passioni (quali?), altre vocazioni (quali?). Beninteso: è del giovane prendere, assumere, al limite anche “portar via” con quella disinvoltura che pare agli adulti in bilico tra l’avventura ammirata e l’ingratitudine. Ma la prossimità, quella veramente intelligente e libera, ha i suoi costi.
    E li paga, soprattutto nella costruzione di un mondo adulto capace di generare.

    L’antico compito: generare

    E generare è accudire, desiderare, ma anche lasciar andare, mentre si sono abitati con coerenza e passione gli spazi della testimonianza: quella dei genitori, degli insegnanti, delle proposte culturali, della comunicazione profetica, dell’amore per il futuro, del rischio di offerta di spazi e di protagonismi.
    Dall’incontro tra i dati della ricerca e una limitata, ma spassionata lettura di vissuti giovanili, nasce forse un’“agenda pastorale” che non può attendere.

    * Responsabile Pastorale giovanile - Diocesi di Cremona


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