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    La grazia della fede /1. La fede e i suoi rapporti


    Roberto Carelli

    (NPG 2016-08-8)


    LA FEDE E LE RELIGIONI

    Poniamo il primo confronto nell’ambito dei molti modi con cui l’uomo cerca Dio, intendendolo quantomeno come il significato primo e ultimo del vivere, o riconoscendolo in forma personale come il responsabile della bellezza del mondo e il referente ultimo del suo riscatto dal male. Insomma, la domanda su Dio riguarda il senso e la verità, e Dio è pensato sotto il segno della totalità e dell’integrità, dell’onnipotenza e della provvidenza, come l’Architetto e il Giudice, la Causa prima e il Fine ultimo, il fondamento e la garanzia di ogni opera di giustizia e di ogni gesto d’amore.
    Di fronte a questa ricerca, la fede cristiana si pone in maniera originale, in quanto si fonda sulla rivelazione personale di Dio, la sua auto-comunicazione in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo per rendere gli uomini figli di Dio. E da lì si confronta con coloro che cercano Dio nella religione o lontano dalla religione. La fede ha a cuore gli uni e gli altri, e rispetta i percorsi fatti con cuore sincero da ogni autentico cercatore di Dio[1], ma al tempo stesso contesta tutte le forme di negazione irreligiosa di Dio e tutte le forme religiose della sua manipolazione: tanto che il primo comandamento, col suo richiamo al culto dell’unico e vero Dio, pone un argine assoluto sia ai tentativi di costruire o strumentalizzare l’immagine di Dio (come la superstizione, l’idolatria, la divinazione e la magia), quanto ai tentativi di pensare e vivere come se Dio non ci fosse (come nel secolarismo, nell’agnosticismo e nell’ateismo teorico o pratico) (cf. CCC 2110-2132).
    Le cose si complicano, e raddoppiano le buone ragioni della fede, perché le forme dell’irreligione non sono più sostenute da un pensiero forte, ma da un pensiero debole, e le forme della religione tendono a diluirsi in generico spiritualismo e sincretismo. Entrambe, poi, sembrano coalizzate nel contestare la pretesa cristiana circa l’esistenza di una verità assoluta, di un fondamento personale e universale di tutte le cose. Il fatto è che, rinunciando a un profilo alto del sapere e del credere, la conseguenza è che sia l’irreligione che la religione diventano riduttive e settarie.

    1. È un fatto che le forme dell’irreligione, prevalentemente occidentali, ma che assumono portata mondiale per via dei processi di globalizzazione, tendono a squalificare la fede a pura credenza soggettiva, priva di evidenza e di oggettività, incapace di sostenere il dialogo tra le persone e inadatta a suscitare consenso civile. L’ovvietà che viene attribuita a questa opinione ha di che sorprendere: è l’esatto contrario del modo con cui la fede si è sempre auto-compresa, e cioè come punto di riferimento comune e affidabile per ogni uomo, e questo per il fatto che la sua fonte e il suo oggetto non hanno dimensioni umane, ma sono la rivelazione storica di Dio, e a questo titolo rappresentano l’argine più efficace all’irrazionalità e all’arbitrio, al sequestro fazioso della verità e al potere dispotico sulla libertà.[2] Spia linguistica di tutto questo è il termine “cattolico”, oggi usato come indice di parte, ma in origine attribuito alla fede cristiana proprio per il suo carattere di universalità, e dunque non discriminante ma inclusivo[3].
    Certo, non si può semplicemente dimenticare che le religioni, in quanto rinviano a Dio come a un fondamento assoluto, hanno spesso legittimato forme di violenza fisica e morale, ma questo è semplicemente il caso massimo del mistero del male, che in ogni caso è perversione del bene. Non è peraltro difficile constatare che dove il bene è più grande, tanto più grande è il male che si sprigiona dal suo capovolgimento: se già un vaso di marmo può essere un oggetto decorativo o distruttivo, tanto più bello e terribile può essere a seconda dei casi l’appello al “nome di Dio”: perché altro è invocarlo riconoscendone la signoria, altro è evocarlo per impadronirsene. Nel primo caso si accosta il mistero di Dio, nell’altro resta solo un idolo, opera delle mani dell’uomo[4]. Ovvio che qui non possiamo soffermarci su un tema così impegnativo come i rapporti fra il sacro e la violenza. Ci limitiamo unicamente a ricordare che la fede cristiana si fonda su un Dio che è tutto amore, che è assolutamente incapace di violenza, ed è così poco interessato a difendere il proprio buon diritto a mano armata, o a mortificare l’uomo con la sua onnipotenza, da non richiedere nessun spargimento di sangue se non quello del proprio Figlio amorosamente consenziente. In breve, l’Assoluto cristiano non ha niente a che vedere con l’ostinata affermazione di sé, ma si identifica unicamente con l’incondizionata dedizione per gli altri[5].
    Il decreto di irrilevanza della fede promulgato dalle società secolari, malgrado le molte ragioni storiche che ne stanno all’origine, stupisce davvero. E pensare che la fede, così come i cristiani la comprendono, è davvero una realtà meravigliosa. Già solo come fiducia di fondo nella bontà delle cose, o come capacità di affidarsi ad altri ed essere affidabili per altri, la fede è il modo giusto di stare al mondo, l’unico modo per rapportarsi a ciò che nella vita è davvero importante[6]. Poiché l’uomo non è istintivo come un animale, né intuitivo come un angelo, egli è irriducibile a ciò che è semplicemente visibile o semplicemente sottratto alla visibilità: non vive mai nell’ordine dei puri fatti o dei puri ragionamenti, ma sempre e solo nell’ordine dei doni che gli vengono offerti e della libertà di riconoscerli e di corrispondervi, nell’ordine delle promesse e nella libertà di accordare o non accordare credito al loro possibile adempimento. Certo, ci sono cose che si possono constatare, e altre su cui si può ragionare: ma nell’ordine della verità, come in quello degli affetti, dove si trovano le cose più care, dove ci sono meno cose che relazioni, non è mai solo questione di evidenza, ma di credenza, mai solo di ragionamento, ma di affidamento. In questo senso, l’uomo è radicalmente un essere credente: la fede non si aggiunge alla sua natura in maniera esteriore, ma la qualifica intimamente. Egli nasce affidato a qualcuno e a qualcuno sempre si affida, in bene e in male. Non vi è perciò alternativa al credere: da vedere è solo a chi credere, cosa credere, e con quanta radicalità.
    Se poi si viene direttamente alla visione cristiana, allora, diversamente dall’opinione sommaria che circola nella cultura pubblica, la quale riduce il credere al ritenere o meno che Dio esista e fa della fede una modalità del sentire piuttosto che del conoscere, la fede dischiude una ricchezza di significati che lascia senza parole! Chi crede fa esperienza di Dio: «chi crede in me crede in colui che mi ha mandato» (Gv 12,44); il credente supera il giudizio: «chi crede in lui non è condannato» (Gv 3,18), «riceve il perdono dei peccati» (At 10,43), «è giustificato in tutte le cose» (At 13,49); chi crede vince inoltre la morte: «chi crede in me, anche se muore vivrà» (Gv 11,27); egli entra nella vita: «il giusto vivrà per la sua fede» (Gal 3,11); ed entra precisamente nella vita di Dio: «chi crede in me ha la vita eterna» (Gv 6,43); di conseguenza trova solidità e felicità, sazietà e fecondità: «chi confida nel Signore è come un albero piantato lungo l’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nell’anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti» (Ger 17,7-8), «sarà saziato» (Prv 28,25) e farà anch’egli le opere di Gesù «e ne farà di maggiori» (Gv 14,12).

    2. Anche di fronte al mondo delle religioni il Vangelo è una buona notizia, perché la fede onora, riscatta e porta a compimento tutto quanto vi è di buono in ogni religione: «la Chiesa riconosce nelle altre religioni la ricerca, ancora nelle ombre e nelle immagini, di un Dio ignoto ma vicino, poiché è lui che dà a tutti vita e respiro ad ogni cosa, e vuole che tutti gli uomini siano salvi. Pertanto la Chiesa considera tutto ciò che di buono e di vero si trova nelle religioni come preparazione al Vangelo» (CCC 843). La forma cattolica della fede è infatti per sua natura universale e inclusiva, non esclusiva o escludente. Lo è per molte buone ragioni. Anzitutto perché riconosce che l’uomo è in quanto tale un essere religioso, radicalmente orientato a Dio e intimamente desideroso di conoscerlo. Tutti i grandi teologi lo hanno espresso, pur con formule diverse: Tommaso dice che il fine dell’uomo è la «visione di Dio», Rahner fa dell’uomo «l’uditore della Parola», Guardini lo definisce come l’«essere al cospetto di Dio». Non è un caso che il primo capitolo del Catechismo della Chiesa Cattolica esordisca proprio con queste parole: «il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, poiché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio» (CCC 27). In altre parole, l’uomo “desidera” Dio perché viene da Dio: davvero l’uomo “de-sidera”, cerca il cielo perché viene dal cielo! Ne ha una “notizia” più radicale di ogni conoscenza, una “memoria” senza memorie, un desiderio più grande di ogni promessa.
    Certo, le religioni presentano in se stesse molti lati oscuri e molte incongruenze fra di loro, ed è anche vero che l’intimo e originario legame con Dio «può essere dimenticato, misconosciuto e perfino esplicitamente rifiutato». Eppure, «malgrado le ambiguità che possono presentare, le loro forme d’espressione sono così universali che l’uomo può essere definito un essere religioso» (CCC 29.28). L’universalità del fatto religioso è una certezza talmente radicata nella fede, che la Chiesa non ha mai smesso di affermare che l’uomo è capace di conoscere validamente Dio già con le forze naturali, e questo perché la sua natura è originariamente creata dalla grazia e chiamata alla grazia, è misteriosamente configurata ad immagine di Dio e destinata a una piena partecipazione alla vita divina: e dunque Dio, in quanto principio e fine di tutte le cose, «può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione umana partendo dalle cose create» (DV 6). Come si diceva, vi è nell’uomo una nozione di Dio tanto misteriosa quanto reale, che, prima ancora della rivelazione e come preparazione ad essa, gli proviene dalla bellezza della creazione e dalla profondità del cuore, particolarmente dalla voce della coscienza che indica il bene morale, che aspira all’infinito e cerca la felicità, che non sa fermarsi ai beni finiti, ma anela a ciò che è incondizionato (Cf. CCC 31-35).
    Sulla base del desiderio religioso presente in ogni uomo e sulla sua capacità naturale di averne conoscenza, la fede onora e riscatta il patrimonio delle religioni anche per il fatto di non esser loro estranea. È elementare osservare che la fede cristiana è essa stessa una religione, ma il motivo fondamentale di questa non estraneità è che Gesù, «con la sua incarnazione, si è unito in certo modo ad ogni uomo» (GS 22), e poi perché, di conseguenza, non vi è nessun uomo né alcuna religione che non sia ordinata alla Chiesa, la quale, a sua volta, assume in pienezza tutto quanto vi è di autentico in ogni uomo e in ogni cultura. La Chiesa, infatti, in quanto non appartiene al mondo ma a Dio, non entra in competizione con i regni di questo mondo, ed è perciò libera di «favorire e accogliere tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva» (LG 13). Da qui i diversi livelli di comunione che la Chiesa cattolica intrattiene con le altre forme di religiosità: ai cattolici viene rivolto il monito di guardarsi dal disprezzare e rinnegare la grazia speciale ricevuta senza alcun merito personale: ne va della loro salvezza eterna. Agli ortodossi e agli evangelici è richiamata l’unità fondata sulla comune fede battesimale. Gli ebrei vengono riconosciuti come il popolo eletto, il popolo della prima alleanza e della promessa, e i musulmani fanno unità con la Chiesa per la fede nel Dio creatore. La Chiesa non è infine estranea ad ogni uomo che cerca Dio con cuore sincero e rettitudine di vita, e assicura che la Provvidenza di Dio non fa mancare a nessuno gli aiuti necessari per giungere alla salvezza (LG 14.15.16). Insomma – come spiega papa Francesco nella sua prima Esortazione Apostolica – proprio perché la fede non si lega a nessuna cultura, può dialogare con tutte e incarnarsi in tutte: da una parte «non può chiudersi dentro i confini della comprensione e dell’espressione di una cultura particolare», ma d’altra parte, specialmente nella pietà popolare «si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una cultura e continua a trasmettersi» (Evangelii Gaudium (=EG), 118.123).
    Compresa l’idea che la Chiesa non è esteriore al mondo delle religioni, ma ne sta al cuore, come la lampada sul monte o il lievito nella pasta, è importante mostrare a tutti, specialmente ai giovani, quanto sia erronea e pericolosa la risoluzione relativistica e culturalistica del fatto religioso. Occorre cioè chiarire che non è vero, se non superficialmente, che si è cattolici perché nati in Italia, o musulmani perché nati in Arabia. Si è cattolici autentici se si è stati raggiunti dalla luce di Cristo e lo si è per annunciare a tutte le genti il volto di Dio paterno di Dio rivelato nel suo Figlio e in forza del suo espresso mandato, del suo potere e della sua indefettibile presenza: «mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18-20).
    Come dunque testimoniare agli uomini e alle donne che cercano Dio nella religione o fuori dalla religione la bellezza della fede, tenendosi lontani da ogni forma di acquiescenza (solitamente giustificata in nome del dialogo, ma a spese dell’identità!) e da ogni forma di intransigenza (spesso giustificata per amore della verità, ma a spese della verità dell’amore!), da ogni eccesso polemico o apologetico, da ogni affermazione della verità che nega la libertà e da ogni retorica della libertà che nega la verità? Ecco un paio di suggerimenti, uno di carattere culturale, l’altro testimoniale.

    1. Dovendo fronteggiare il doppio fuoco dell’irreligione e della religione, la strategia che ci pare più ragionevole, adatta sia al dialogo coi “lontani” che alla formazione dei “vicini” (senza pregiudizio su chi siano e dove si trovino), sembra essere quella di mostrare e argomentare le due cose: l’apertura religiosa della ragione e il carattere umanistico della religione. Perché una ragione che si chiude alla trascendenza diventa alla fin fine irragionevole. E perché una religione che favorisca l’umiliazione dell’uomo è in buona sostanza irreligiosa. Occorre far comprendere che da una parte l’uomo non sta in piedi senza Dio, non solo per ragioni di indigenza, ma di eccedenza, non solo per il riscatto dal male, ma per attingere a una pienezza di bene. E, d’altra parte, per far comprendere che non esiste un Dio che sia contro l’uomo. Insomma, il doppio messaggio che deve arrivare semplicemente a tutti è che l’uomo ha una dignità più grande di quello che si immagina, e che Dio non è davvero così poco dignitoso da voler mortificare la creatura a cui ha dato la vita. Più in breve: in Cristo, l’idea che un uomo che possa fare radicalmente a meno di Dio, o che Dio che non sia a favore dell’uomo non stanno letteralmente né in cielo né in terra: «Dio è Amore» (1Gv 4,16)!

    2. Su un piano più testimoniale, che è quello più immediatamente persuasivo e vincente, il contrassegno della fede autentica è quello della gioia! Chesterton diceva giustamente che «la gioia è il gigantesco segreto del cristiano». Similmente papa Francesco, col suo stile molto diretto e provocatorio: «la gioia è come il segno del cristiano. Un cristiano senza gioia o non è cristiano o è ammalato»[7]. Il nesso fra la fede e la gioia è molto stretto, ed è di solito convincente! La fede dà gioia, perché credere in Gesù è incontrare l’amore di Dio e diventare capaci di amare del suo stesso amore. Non è un caso che nella Scrittura la gioia, insieme alla pace di cui è il riverbero interiore ed esteriore, sia il primo dono del Risorto, il primo frutto dello Spirito, il distintivo di chi ha riconosciuto che Gesù è il Signore e ed è passato dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, dalla paura al coraggio, dal vuoto di senso alla pienezza.
    Certo, la gioia deve essere coltivata e custodita. E qui la prima indicazione è quella di coltivare ciò che dà gioia vera: non quella effimera ed euforica, illusoria e deludente, proveniente da tutte quelle esperienze che promettono soddisfazioni passeggere e paradisi artificiali che alla fine intorpidiscono il cuore, avviliscono l’animo, distruggono i sogni, rendono schiavi, allontanano dal gusto delle cose di Dio e minacciano la salvezza eterna; ma quella che mette radici, che perdura nel tempo, che regge alle prove, che accompagna anche nel dolore, che trova motivo nel fatto che Gesù c’è, che è presente e operante, che ci aspetta in Paradiso insieme a Maria e i santi. Perché la fede in Dio è stabilità, mentre la fiducia riposta in se stessi o nel mondo è fragilità. E la seconda indicazione è poi quella di custodire la gioia alimentando il legame strettissimo fra felicità e moralità, per realizzare quel connubio fra “santa allegria” ed “esatto adempimento del proprio dovere” che stava al cuore del sistema educativo di Don Bosco per la crescita della fede dei ragazzi. Questo perché la fede non è soltanto sapere, ma vivere, non è solo ritenere che Dio esista, ma vivere effettivamente di Lui, in Lui e per Lui.
    Indubbiamente può sorgere l’obiezione di tutte le cose che nella vita e nel mondo ci rattristano, ma anche qui papa Francesco, nella sua prima Esortazione Apostolica, si è espresso in maniera davvero incoraggiante: «capisco le persone che inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie» (EG 6).

    LA FEDE E LA RAGIONE

    Affrontiamo ora l’importantissimo tema del rapporto fra fede e ragione. È un fatto che appena si parla di religione si finisce sempre a discutere su ragione e religione o su scienza e fede, e passa immancabilmente l’idea che siano incompatibili o che il loro rapporto sia problematico. Evidente la pesante eredità della cultura moderna, che ci ha abituati a pensare fede e ragione come grandezze esteriori e alternative: esteriori, perché la ragione sarebbe il campo dell’evidenza e dell’oggettività, mentre la fede quello dell’inevidenza e della soggettività; alternative, perché dove c’è una non ci potrebbe stare l’altra. Si dà quasi per scontato che per ragionare non serve credere, e che credere è rinunciare a ragionare.
    È triste constatare che in questo conflitto non ci sono proprio vincitori, ma solo vinti: la ragione è ridotta a calcolo e la fede a salto nel buio, ed entrambe risultano incapaci di cogliere la verità. Il reciproco discredito ha impoverito entrambe, danneggiando sia i credenti che i non credenti: la ragione, limitandosi al campo del visibile, non sa comprendere il mondo degli affetti, e la fede, assegnata al campo dell’invisibile, non realizza una forma di conoscenza attendibile. Dice bene Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et Ratio: «la ragione, privata dell’apporto della rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua mèta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale» (FR 48).
    Di fatto, nel nostro tempo, alla crisi della fede fa riscontro il sonno della ragione. L’esaltazione della ragione e l’arroccamento della fede hanno indebolito l’una e l’altra, rendendole reciprocamente inservibili. La ragione, dimenticando il proprio limite creaturale, ha preteso di porsi come criterio di giudizio nei confronti della fede, e la fede, per difendere il proprio specifico, ossia il riferimento a Dio e alla Sua rivelazione, è diventata culturalmente irrilevante. Da qui quel «divorzio fra fede e cultura», che Paolo VI additava come il male principale del nostro tempo. Inoltre la ragione, concentrandosi sul conoscere piuttosto che sull’essere, invece di sottolineare la propria capacità di conoscere la verità, «ha preferito sottolineare i suoi limiti e i suoi condizionamenti», ma così «la legittima pluralità di posizioni ha ceduto il passo ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono», riducendo così ogni conoscenza a opinione. E così anche la religione, invece di essere riconosciuta come conoscenza accesa dall’esperienza di Dio, viene svalutata a grandezza culturale (FR 5).
    Fra le conseguenze più vistose di questi fenomeni vi è il capovolgimento del rapporto fra scienza e fede: la scienza, il cui sapere è per se stesso riduttivo, appare nell’opinione comune come senz’altro affidabile, mentre la religione, che invece riguarda il senso profondo delle cose, è ritenuta inevitabilmente inaffidabile. In realtà, come minimo, sarà bene ricordare che «la verità viene raggiunta non solo per via razionale, ma anche mediante l’abbandono fiducioso ad altre persone, che possono garantire la certezza e l’autenticità della verità stessa. La capacità e la scelta di affidare se stessi e la propria vita a un’altra persona costituiscono certamente uno degli atti antropologicamente più significativi ed espressivi» (FR 33). È poi il caso di ricordare, e oggi sembra essercene parecchio bisogno, che la scienza raggiunge al massimo un sapere rigoroso e limitato al proprio oggetto e al proprio punto di vista, mentre è proprio della religione abitare lo spazio della verità, ossia del senso e del compimento del tutto[8]. A fare da legittimo ponte ci sarebbe il sapere filosofico, ma quand’anche non rinunci ad un esercizio alto del pensiero, trova davanti a sé il muro di una comunicazione dei saperi egemonizzata dai media, che di certo non educa al sapere rigoroso.
    Ad ogni modo, ammonisce Giovanni Paolo II, una ragione e una fede deboli non fanno né il proprio gioco né il gioco dell’altra: «è illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Similmente, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere» (FR 5). Alla ragione e alla fede non fa bene una figura “debole”, ma una figura “umile”: la ragione ha interesse a tener conto che anch’essa, come ogni realtà creata, è finita e ferita, bisognosa di una pienezza e di una redenzione che da se stessa non può darsi; e la fede non deve mai dimenticare che la Rivelazione che la fonda si è attestata nella sapienza della croce e richiede la resa della conversione: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti… ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-28)[9]. Come suggeriva il grande teologo svizzero H.U. von Balthasar, non solo la fede, ma anche la ragione, devono rapportarsi alla realtà in maniera servizievole e responsoriale, capace di riconoscere non solo i miracoli di Dio, ma lo stesso carattere di miracolo che è proprio dell’essere come tale e che da sempre suscita quel senso di stupore che è il motore del pensiero filosofico[10].
    Tra l’altro la separazione di fede e ragione è globalmente responsabile di quella che Benedetto XVI ha chiamato “emergenza educativa”, per la quale «le giovani generazioni sono esposte alla sensazione di essere prive di autentici punti di riferimento» (FR 6), e che si evidenzia particolarmente nella scissione fra razionalità e affettività di cui soffrono i nostri ragazzi: colpiti da stimoli eccessivi, realizzano identità fragili, e invasi da troppe informazioni, stentano a raggiungere una visione unitaria del reale. Urge ritrovare, come si è espresso il Comitato della Conferenza Episcopale Italiana sul tema della sfida educativa, il duplice bene di “una razionalità affettiva e di un’affettività ragionevole”[11]. Del resto, tutti i grandi maestri spirituali hanno insegnato che la persona matura si manifesta nell’equilibrio di raziocinio e immaginazione, quando gli affetti alimentano pensieri buoni e i pensieri orientano affetti stabili.
    A ben vedere, la figura di una ragione separata dalla fede è implausibile, totalmente incapace di rendere conto dei modi con cui l’uomo si rapporta alla realtà e agli altri, dei modi con cui conosce e apprezza. È facile constatarlo: fidarsi di qualcuno senza controllare nulla, o pretendere di controllare tutto senza fidarsi di nessuno, sono modi semplicemente scadenti di stare al mondo. Quando in una relazione non si usa la ragione, facilmente si scade nella manipolazione e nel conflitto, e quando manca la fiducia si cade nel sospetto e nella paura. La vita dell’uomo intreccia sempre affidamenti e accertamenti: può farlo più o meno bene, ma sempre l’uomo tende ad affidarsi e sempre ci tiene ad accertarsi, che lo faccia in maniera rozza o raffinata. A riprova, difficilmente l’uomo si accontenta di sole promesse, e mai lo convincono i puri ragionamenti. Al contrario, a tutti piace incontrare persone ragionevoli e affidabili, che si fanno apprezzare per la coerenza fra il pensiero, la parola e la vita. Anche Dio è dello stesso parere: il libro dell’Apocalisse parla di Gesù come «l’Amen, il Testimone verace» (Ap 3,14), e nel documento del Concilio sulla Parola di Dio si dice infatti che «l’economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto» (DV 2). Insomma, la ragione non è estranea all’ambito della fede e la fede non è meno che una forma di conoscenza: «esiste una conoscenza che è peculiare della fede. Questa conoscenza esprime una verità che si fonda sul fatto stesso di Dio che si rivela, ed è verità certissima perché Dio non inganna né vuole ingannare» (FR 8).
    Dunque, la fede cristiana distingue ma non separa il credere e il sapere, non ammette una scissione fra presenza e mistero, fra visibile e invisibile, e il motivo è che a partire dall’Incarnazione del Verbo il visibile rimanda all’invisibile, e l’invisibile si offre nel visibile. Cristianamente si possono dire entrambe le cose: vedere per credere, perché «la vita si è fatta visibile» (1Gv 1,2) e credere per vedere, perché seguendo Gesù «vedrai cose più grandi» (Gv 1,58)[12].
    Il motivo di fondo per cui la fede ci tiene ad uno stretto rapporto con la ragione – tanto è vero che le università sono nate cristiane, in un intimo e doppio movimento di contemplazione e speculazione! – è poi ancora un altro, ed è sempre di ordine cristologico. Ed è il fatto che la fede cristiana trova il suo centro in Gesù, il Filius del Padre che si rivela come Il Logos del mondo. Egli è il «Verbo di Dio» (Gv 1,1; Ap 19,13) non meno che la «Luce del mondo» (Gv 1,4; Gv 8,12). Non è solo la vita, ma anche la verità, non illumina solo il cuore, ma rischiara anche la mente, è colui in cui trovano piena sintesi le ragioni del cuore e il cuore della ragione.
    Ora, chiarita l’appartenenza della ragione alla sfera del credere generalmente umano e del credere precisamente cristiano, la bella notizia del Vangelo è che la fede è insieme luce e forza, conoscenza e amore. Senz’altro al di là dell’alternativa fra il credere e il sapere! Certo, la fede è fiducia illimitata in Dio, ma Dio neanche si sogna di mortificare la ragione e la libertà dell’uomo. Al contrario, la fede in Dio rende intelligenti e liberi, partecipi della sapienza e della bontà di Dio! Infatti, quando Gesù chiama i discepoli a seguirlo, non chiede di rinunciare alla ragione e alla libertà, ma dicendo loro «venite e vedete» (Gv 1,39), le richiede espressamente! La fede non paralizza la ragione e la libertà, le mobilita. Nella fede, «intelletto e volontà esercitano al massimo la loro natura spirituale, affinché il soggetto possa compiere atti pienamente liberi e personali» (FR 13). Tanto che Gesù, quando chiede di credere in Lui, non lo dice a scapito del pensare e del decidere di sé – sono le cose che ci rendono uomini! – ma proprio a loro vantaggio: «conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,11). In pratica, per maturare nella fede, occorre guardarsi bene dall’opporre testa e cuore, studio e preghiera, riflessione e devozione! Detto altrimenti: no al secolarismo, no allo spiritualismo.
    La Chiesa, alla quale è affidata la «diaconia della verità» (GS 16), non smette di ripetere che sia la ragione che la fede sono capaci di verità e concorrono al suo ritrovamento: «beato l’uomo che medita sulla sapienza e ragiona con l’intelligenza, considera nel cuore le sue vie, ne penetra con la mente i segreti» (Sir 14,20). E garantisce che non solo la fede fa bene alla ragione, in quanto le impedisce di esaltarsi (razionalismo) e di limitarsi (irrazionalità), ma anche che la ragione fa bene alla fede, in quanto le evita di scadere in assenso cieco (fideismo) e in costrizione (fondamentalismo). Da qui le parole incoraggianti di papa Francesco: «La fede non ha paura della ragione; al contrario, la cerca e ha fiducia in essa, perché la luce della ragione e quella della fede provengono ambedue da Dio» (EG 242). Da qui anche la duplice formula classica del credo ut intellegam e intellego ut credam: il credere aiuta a capire e il capire aiuta a credere. Ciò si fonda sul fatto che la verità è una sola, che riguarda la mente e il cuore, e che Dio è l’unico termine della nostra ricerca di verità e del nostro desiderio di bene: «il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce l’intelligibilità e la ragionevolezza dell’ordine naturale delle cose, è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo» (FR 34).
    Con tutto ciò, non va taciuto che la fede, pur condividendo con la ragione il carattere di luce, è anche oscurità. Questa è dovuta a due motivi: in negativo alla deficienza della ragione e in positivo all’eccedenza di Dio, e per questo al carattere abissale del bene e del male, due abissi peraltro di segno contrario. Da qui le sapienti parole di papa Francesco: Ad ogni modo, non potremo mai rendere gli insegnamenti della Chiesa qualcosa di facilmente comprensibile e felicemente apprezzato da tutti. La fede conserva sempre un aspetto di croce, qualche oscurità che non toglie fermezza alla sua adesione. Vi sono cose che si comprendono e si apprezzano solo a partire da questa adesione che è sorella dell’amore, al di là della chiarezza con cui se ne possano cogliere le ragioni e gli argomenti. Per questo occorre ricordare che ogni insegnamento della dottrina deve situarsi nell’atteggiamento evangelizzatore che risvegli l’adesione del cuore con la vicinanza, l’amore e la testimonianza» (EG 42).
    Un paio di indicazioni pratiche per arginare le dittature del razionalismo e del relativismo, e riattivare la capacità metafisica che è propria della ragione e la capacità simbolica che è propria della fede, per riabilitare il pensiero a non sprofondare né a ristagnare nei fenomeni, ma a passare dai fenomeni al fondamento.

    1. A fronte di una generazione che ha vissuto le pratiche della fede, ma non ha saputo renderne ragione alle giovani generazioni, occorre tornare tutti ad appassionarci alla verità della fede e alla sua intima ragionevolezza, in modo tale da «essere sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. E questo con dolcezza e rispetto» (1Pt 3,15). Ciò significa formazione e buone letture, perché il desiderio di comprensione e il giusto spirito critico siano sempre accompagnati dall’obbedienza ai pastori e dal coraggio della testimonianza, dalle garanzie della retta dottrina e soprattutto della retta condotta: perché si capisce davvero soltanto ciò che davvero si vive.

    2. A fronte di una ragione ferita dal peccato – è un’ingenuità pensare che l’ordine del pensiero sopravviva al disordine morale! – e dunque una ragione che oscilla fra pretese smisurate e caduta di ogni pretesa, il secondo impegno è quello che Benedetto XVI ha felicemente espresso nell’invito ad «allargare gli spazi della ragione» in direzione di un modello di ragione che sappia integrare nei suoi stessi procedimenti l’esperienza e la trascendenza, il mondo degli affetti e il mondo di Dio. Questa è certamente un’impesa complessa, ma da parte del popolo di Dio è più che altro questione di preghiera e adorazione, immersione e contemplazione affettiva ed effettiva nelle cose di Dio, perché è anzitutto per questa via – la via della realtà! – che si può superare l’avvilimento della ragione e riscattare la ragionevolezza della fede.

    LA FEDE E LA CHIESA

    Dopo aver chiarito che la fede non è estranea al mondo della religione e della ragione, ma ha il potere, in forza del legame con Gesù, Figlio di Dio e Verità del mondo, di rendere ogni uomo più religioso e più ragionevole, cerchiamo di mettere in luce che la fede non è anzitutto un atto individuale, ma un atto essenzialmente ecclesiale. Di fronte al sentire comune, che riduce la fede a credenza soggettiva o a condizionamento culturale, è importante chiarire che la fede cristiana, fondata sull’affidabilità e la ragionevolezza della Parola di Dio, trova solide radici nella storia di un popolo radunato da Dio per essere luce di tutte le nazioni e riscatto di tutta la creazione.
    Raccogliendo i motivi per cui non si può credere senza la Chiesa, il primo è di ordine generale, e riguarda lo specifico modo di essere di Dio e dell’uomo, e cioè il paradosso dell’essere “persone”, cioè realtà sostanzialmente relazionali, essenzialmente costituite dalle loro relazioni. Certo, Dio lo è in regime di infinità, l’uomo in regime di finitezza, ma il “con-essere” che articola identità (=io), alterità (=tu) e comunione (=noi) è senz’altro comune. Poiché Dio è in se stesso comunione d’amore e l’uomo è creato a sua immagine e somiglianza, senza gli altri l’uomo non è nulla, non può né esistere, né conoscere, né amare. L’identità dell’uomo si costituisce e si sviluppa nei legami, quelli a cui è fin dall’inizio affidato e quelli a cui di volta in volta si affida, i legami familiari e i legami sociali. Tutto il modo di percepire di una persona, il suo bagaglio di conoscenze e di sentimenti, l’insieme dei suoi desideri e convinzioni, dei valori che professa e delle cose per cui darebbe la vita, sono anzitutto eredità familiari, culturali, civili e religiose. Per l’uomo, credere in altri e con altri è normale, e anomalo il contrario, e non è difficile constatare che sono senz’altro infinitamente di più le cose di cui ci si fida e a cui ci si affida che quelle di cui ci si accerta e se ne abbia coscienza riflessa e critica.
    Poiché l’uomo non esiste mai senza gli altri, ma sempre nell’ordine del dono e della fede – ecco qui un secondo motivo per cui la fede è non è mai un “io credo” senza essere anche un “noi crediamo” – la teologia cristiana ha sempre insegnato che esistono diversi modi di conoscere, tutti altrettanto legittimi. Si conosce per evidenza empirica (constatazione dei fatti) o per evidenza logica (rigore dei ragionamenti), ma, specialmente nelle cose più importanti della vita, quelle che riguardano l’ordine del cuore, si conosce anche per testimonianza, cioè sull’autorità competente e onesta di altri: come diceva il Card. Newman, «credere è in sostanza accettare una verità che la nostra ragione non può raggiungere, sulla base di una testimonianza». In questo senso la fede non è una forma di conoscenza debole, ma, come si è chiarito, la più appropriata a ciò che è veramente umano.
    Tanto è vero – terzo motivo che spiega il carattere sociale della fede – che la rivelazione di Dio che sta a fondamento della fede ha preso la forma dell’alleanza con un popolo, si è realizzata in una storia della salvezza attestata nella Scrittura, trasmessa dai Profeti e dagli Apostoli (cfr. Ef 2,20), e si è radicata, prima e dopo tutto, nella storia di Gesù, il «testimone fedele e verace», assolutamente autorevole perché eletto da Dio come principio della creazione, Primogenito dei risorti e Signore della storia (Ap 1,5 e 3,14). In altre parole, proprio perché Dio è Dio, mistero d’amore in sé inaccessibile, la sua rivelazione e la fede che vi corrisponde passano attraverso le molte mediazioni storiche, personali e collettive, della sua santità. Per questo riconosciamo Abramo come «padre di tutti i credenti» (Rm 4,11.18). E per questo Maria, avendo «creduto nell’adempimento della Parola di Dio» è dichiarata «beata» (Lc 1,45). Se la fede non può che essere ecclesiale, è perché la rivelazione di Dio è sempre oggetto di traditio, di trasmissione viva e personale: è affidata alla predicazione degli Apostoli, alla scrittura degli Evangelisti, alla testimonianza interiore dello Spirito, alla custodia autorevole del Magistero (CCC 74-87). Perciò la fede non è mai puramente soggettiva, ma è sempre “attestata”, nel duplice senso del termine di “messa in un testo” (Scrittura) e “testimoniata con la vita” (Tradizione): «la fede cristiana non è una religione del Libro. Il cristianesimo è la religione della Parola di Dio, non di una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente» (CCC 74-87).
    Come Benedetto XVI ha ripetuto con forza in un discorso ai Catechisti sul tema della nuova evangelizzazione – ecco la quarta considerazione sull’impossibilità di credere da soli – la fede è insieme un atto personale e un atto sociale: «la conversione è certo innanzitutto un atto personalissimo, è personalizzazione. Ma la vera personalizzazione è sempre anche una nuova e più profonda socializzazione. L’io si apre di nuovo al tu, in tutta la sua profondità, e così nasce un nuovo noi… Non si può evangelizzare con sole parole; il vangelo crea vita, crea comunità in cammino; una conversione puramente individuale non ha consistenza»[13]. E infatti il Catechismo, subito dopo l’articolo dedicato all’«io credo», dedica un articolo intero al «noi crediamo» (CCC 166-175). Lì si chiarisce molto bene che la fede, come libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio che si rivela, è senz’altro un atto personale, «ma non è un atto isolato. Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l’esistenza. Il credente ha ricevuto la fede da altri e ad altri la deve trasmettere» (CCC 166). Passaggio davvero splendido: l’analogia fra il venire alla fede e il venire all’esistenza rende perfettamente l’idea che la fede è una generazione di fede, una trasmissione di vita nuova, di conoscenza nuova, di amore nuovo. La fede coincide con l’atto battesimale che ci fa nascere a Dio e al tempo stesso ci rende membri della Chiesa: questa è la radice, il resto sono sviluppi.
    Da qui discendono un paio di implicazioni che aiutano a interiorizzare il carattere ecclesiale della fede e a distogliere i giovani dalla tentazione di risolvere la fede in una decisione arbitraria, frutto di emozioni momentanee o di ragionamenti frettolosi, di cattivi esempi o di conformismo. Giustamente il Papa ha puntualizzato che «è la Chiesa il primo soggetto della fede. Nella fede della Comunità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza» (Porta fidei, 10). In altre parole, ciò che Dio ha suscitato in Cristo è anzitutto la comunità credente della Chiesa, ed è in essa che ogni uomo può credere. Avere accesso alla fede è allora innestarsi nella fede della Chiesa, e credere è un atto personale ma non solitario, libero ma non arbitrario, intimo ma non privato. E se tutto ciò è vero, allora la Chiesa non solo è lo spazio della fede, ma è anche la Madre e l’educatrice della fede. Anche qui uno splendido passaggio del Catechismo che è impossibile non riportare: «è anzitutto la Chiesa che crede, e che così regge, nutre e sostiene la mia fede. È innanzitutto la Chiesa che confessa il Signore, e con essa e in essa, anche noi siamo trascinati e condotti a confessare… La salvezza viene solo da Dio; ma, poiché riceviamo la vita della fede attraverso la Chiesa, questa è nostra Madre… Ed essendo nostra Madre, è anche l’educatrice della nostra fede» (CCC 168.169). Davvero vale per la fede ciò che esprime la famosa sentenza di san Cipriano: «non può avere Dio per Padre chi non ha la Chiesa per Madre»[14].
    Va infine ricordato che l’ecclesialità della fede non oscura il riferimento a Dio, ma lo rende possibile e lo arricchisce. Lo rende possibile, perché l’atto di fede, per quanto passi attraverso l’ascolto della Parola, la celebrazione di un sacramento o dall’incontro con un testimone, è sempre in definitiva rivolto a Dio e realizza un’effettiva esperienza di Lui. Verissima è perciò la classica affermazione di San Tommaso: «l’atto del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà», cioè non solo si riferisce a Dio ma Lo incontra davvero. D’altra parte, il carattere ecclesiale della fede è una ricchezza per la fede, perché la santità della Chiesa è la più splendida attestazione di cosa Dio sappia fare nella vita degli uomini e delle donne che si affidano e confidano in Lui.
    Di fronte a queste considerazioni, tanto radicate nella tradizione credente quanto di fatto dimenticate, sembra opportuno proporre una strategia educativa che sappia riconciliare effettivamente l’appello all’individuo e il richiamo alla comunità. Lo rende urgente la nostra condizione culturale, marcatamente segnata dall’individualismo. E, in positivo, lo rende urgente la crescente consapevolezza che non si dà buona salute degli individui se è mortificato il legame sociale. In concreto, 1. Occorre chiarire e promuovere l’idea che la fede non è una convinzione solitaria ma una professione pubblica. Prima di essere esperienza individuale, la fede è realtà familiare, cammino di popolo; 2. In questo senso, bisogna anche dare nuovo rilievo che la fede è un organismo vivente, che non può essere vivisezionato senza ucciderlo, e che dunque c'è da prendere le distanze da ingenui e frettolosi distinguo fra Cristo e Chiesa, fede e morale, dottrina e pastorale; 3. Ne discende anche – cosa davvero poco interiorizzata, vista la quantità di persone che sprofondano nei loro problemi fino ad ammalarsi – che la fede è confidenza in Dio attraverso la potenza della preghiera, la propria e quella altrui: nella fede, dove il destino proprio è vincolato da legami soprannaturali col destino degli altri, l’intercessione di Maria e dei Santi, come l’offerta di preghiere e sacrifici per altri, è influente e determinante, in nessun modo riducibile a pia credenza o illusione. Per chi crede, la preghiera, che punta sull’amore onnipotente e misericordioso di Dio e non soltanto sulle limitate e fallibili risorse umane, è la forza più potente del mondo: «In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20).
    E come prego: in maniera o solo spontanea o solo formale? o so rendere personale la preghiera della Chiesa? Mi rivolgo a Dio da solo, o invece con l’aiuto di Maria e dei Santi, dei fratelli e delle sorelle? sono grato nei confronti di tutti quelli che pregano e offrono sacrifici per me? e io, a mia volta, so pregare e fare sacrifici per gli altri? Credo o sono incredulo sulla potenza della preghiera di intercessione e sull’offerta di sacrifici? E infine: come va nelle nostre comunità? Passa l’idea che la fede va fondamentalmente celebrata e professata? Che non matura accumulando conoscenze e osservando leggi, ma alimentando la mente e il cuore attraverso atti di lode e di ringraziamento specialmente liturgici, e testimoniandola agli altri con il coraggio della parola e l’umiltà del servizio?


    NOTE

    [1] CEI, Lettera ai cercatori di Dio, San Paolo, Cinisello 2009.
    [2] Cf. l’Enciclica Fides et Ratio, dove Giovanni Paolo II elenca tutte le forme di pensiero incompatibili con il quadro cristiano, non soltanto per ragioni confessionali, ma per ragioni di verità (FR. 86-91).
    [3] Niente di meglio che leggere le geniali considerazioni di G.K. Chesterton, Perché sono cattolico, Gribaudi, Milano 1994.
    [4] Cf. J.L. Marion, L’idolo e la distanza, Jaca Book, Milano 1979.
    [5] Cf. COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza.
    [6] Cf. R. Maiolini, Tra fiducia esistenziale e fede in Dio, Glossa, Milano 2005.
    [7] Omelia a Santa Marta, 22 maggio 2014.
    [8] Sul rapporto fra le verità parziali delle scienze e della verità come totalità che è propria della fede, molto illuminanti sono le osservazioni e le precisazioni di G. Colombo, Professione “teologo”, Glossa, Milano 1996.
    [9] L’alternativa è ben suggerita da R. Repole, Il pensiero umile. In ascolto della rivelazione, Città Nuova, Roma 2007.
    [10] Teologica I. Verità del mondo, Jaca Book, Milano 2010.
    [11] La sfida educativa, Laterza, Bari 2009, 7.
    [12] Un classico: P. Rousselot, Gli occhi della fede, Jaca Book, Milano 1977. E un contemporaneo: J.L. Marion, Credere per vedere, Lindau, Torino 2012.
    [13] Intervento al Convegno dei catechisti e dei docenti di religione, Roma, 10 Dicembre 2000.
    [14] L’unità della Chiesa cattolica, 6.


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