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    I legami della fede


    Giovani: vocazione laici /4

    Paola Bignardi

    (NPG 2016-04-62)


    Avere qualcosa da condividere crea legami; lo si può notare anche nella vita di tutti i giorni. E se questo qualcosa è così personale e decisivo come la fede nell’unico Dio e negli stessi ideali, allora dovrebbe creare legami talmente forti da costituire quasi un cemento tra le persone che ne sono interessate.

    In effetti questa è stata l’esperienza dei dodici: stessa chiamata, stessa missione, stesso Maestro…! Leggendo i Vangeli si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un gruppo di amici, pur attraversato dalle normali dinamiche di un gruppo di persone diverse per carattere, esperienza di vita, aspettative rispetto al cammino intrapreso.
    Tutta l’esperienza del popolo di Dio è segnata da questo aspetto: credere nello stesso Dio coinvolge nello stesso destino, vissuto secondo le differenze esistenziali e interiori di ciascuno. Così il Concilio ha assunto questa realtà e questa immagine per rappresentare la Chiesa: realtà inclusiva, unificata da esperienze fondamentali: stessa storia, stesso Capo, stessa Legge, stessa meta: (cfr LG 9).
    Ma come Israele, popolo nella mente di Dio, diventa effettivamente popolo a poco a poco, così è della Chiesa. Popolo, famiglia, corpo… : ha bisogno di tempo, di esperienze, di entusiasmi e di fallimenti, per imparare ad essere effettivamente popolo, per vivere la realtà dei legami di cui Dio ha fatto dono, per farli maturare e renderli fedeli.
    Il cammino che va dalla chiarezza delle definizioni teoriche all’esperienza di vita è spesso lungo, tortuoso, tormentato. È l’esperienza della Chiesa, che con fatica genera comunità che vivono nella concretezza del giorno per giorno ciò che l’essere Chiesa rappresenta. Dal mistero della Chiesa alla realtà quotidiana delle comunità cristiane spesso c’è molta strada da fare.
    Se c’è un difetto che oggi caratterizza le comunità cristiane, è la debolezza dei legami che passano tra le persone che ne fanno parte, spesso appartenenti alla Chiesa per anagrafe e per culto più che per legami generati dal condividere lo stesso mistero. Sono soprattutto i laici, a lungo ai margini della comunità cristiana, a provare quel senso di estraneità che rende più ospiti che figli, dentro quella realtà che dovrebbe costituire la loro naturale famiglia. A maggior ragione si sentono marginali i giovani: naturalmente portati a fare gruppo e a vivere con calore i legami che li coinvolgono, avvertono la freddezza della comunità cristiana come un elemento che li respinge e contribuisce alla loro estraneità.

    I giovani, i laici e la Chiesa

    Sul fare comunità influiscono molti fattori umani e culturali: il carattere delle persone, la forza con cui si aderisce al fondamento che è la fede, lo stile di chi guida, la cultura e le esperienze esistenziali dei componenti, la vocazione personale, l’età…
    I laici in genere vivono una fede solitaria; si accusa il loro individualismo, ma in effetti lo stile della loro partecipazione alla comunità cristiana non è sempre frutto di una scelta. Vi sono tra loro persone che amerebbero poter condividere pensieri, esperienze, dubbi, domande… L’assenza di contesti diversi da quelli della celebrazione liturgica rende difficile sperimentare la fraternità della fede e il senso della condivisione di un’esperienza di vita. Così, i laici che hanno qualche partecipazione alla comunità sono gli operatori pastorali: chi non è catechista, volontario della Caritas o animatore liturgico vive ai margini di una realtà che prevede cose da fare ma non esperienze da condividere. Restano così escluse dal vissuto della comunità aspetti fondamentali come quella del confronto con pensieri e posizioni diverse; il dialogo, la sfida dell’autonomia di scelte laicali, la corresponsabilità, il confronto con la secolarità… Quello dei laici continua ad essere uno dei grandi temi irrisolti del Concilio: senza una vera vita di comunità i laici continuano ad essere “clienti”; e d’altra parte senza una presenza laicale matura e vivace la comunità non può crescere, perché' non ha un tessuto che le dia consistenza.
    Questi disagi sono percepiti nel mondo giovanile come ancor più rilevanti.
    Innanzitutto le nuove generazioni percepiscono la Chiesa come un’esperienza esterna a loro; la guardano da fuori, senza desiderare di entrarvi e tanto meno decidersi di farlo, anche perché' non sono sicuri che quello che troveranno dentro li interessi, li interpreti, corrisponda a ciò che pensano della vita e a ciò che vogliono da essa. La fiducia dei giovani nella Chiesa è piuttosto scarsa.
    L’indagine sulla religiosità dei giovani, condotta dall’Istituto Toniolo, ha permesso da raccogliere dalla viva voce di 200 giovani giudizi e attese sulla Chiesa. Essa è percepita come un’istituzione lontana dalla loro vita e dal loro tempo, con una proposta rigida e moralistica. In essa cercherebbero soprattutto relazioni, calore, possibilità vera di condivisione. Il rapporto dei giovani con la Chiesa non è, come in passato, di ostilità. Qualche decennio fa i giovani dicevano: Cristo sì, Chiesa no. Oggi il mondo giovanile si sente soprattutto estraneo alla Chiesa, come se l’esperienza ecclesiale non avesse nulla a che vedere con la propria fede.
    D’altra parte oggi il percorso verso e dentro la vita cristiana ed ecclesiale segue un itinerario diverso che in passato. Soprattutto i giovani, che hanno una grande sensibilità per l’amicizia, che cercano un gruppo di cui sentirsi parte e in cui giocare un ruolo, hanno bisogno di incontrare una comunità fatta di volti, di persone, di relazioni, di legami. Se questo accade, se in essa riescono a trovare una loro collocazione che riconosca la loro identità e il loro compito in essa, a poco a poco cominciano a sentire quella realtà come loro: matura cioè un senso di appartenenza, che è fatto anche di emozioni, di sentimenti, di amicizia. Spesso è questo legame che fa scattare la molla di una progressiva identificazione con quella realtà, di cui si acquisisce la cultura, si fa proprio il programma, il modo di pensare e il codice di valori. Finché la formazione delle nuove generazioni percorrerà il cammino inverso, che è tipico di una cultura diversa da quella di oggi, i giovani finiranno con il sentirsi estranei alla Chiesa e alla fine con il vivere una religiosità soggettiva, improvvisata e individualistica. È difficile per i giovani – e anche per gli adulti – comprendere il grande valore spirituale e umano della Chiesa e dell’appartenenza ad una comunità, se non verranno coinvolti in esperienze adatte alla sensibilità di oggi. Se non scatterà questo feeling, la comunità cristiana sarà impoverita dalla presenza del mondo giovanile e i giovani finiranno con il perdere la ricchezza di una fede comunitaria e di popolo.
    Anche la situazione degli adulti laici nella Chiesa oggi non è molto migliore. Alla generazione adulta manca nella comunità cristiana la dimensione dell’adultità, della corresponsabilità, della partecipazione. E se la distanza che gli adulti percepiscono non sfocia nel senso di estraneità avvertito dai più giovani, tuttavia anche la loro vita ecclesiale manca di vitalità e di cordialità.
    Dunque l’educazione ad una laicità ricca di senso ecclesiale passa attraverso la qualità delle relazioni. Una parrocchia che oggi voglia essere in comunicazione con le persone di questo tempo e voglia essere un punto di riferimento significativo è una parrocchia che ha il senso delle relazioni e le cura con delicatezza, con umanità, con fantasia. E qui gli esempi possono moltiplicarsi: da quello dei giovani che vanno all’oratorio e non trovano solo strutture efficienti, ma trovano delle persone: degli educatori che si fermano a parlare con loro, che si interessano della loro vita, che sono disposti a diventare un po’ amici e un po’ referenti del loro cammino esistenziale: persone cui possono raccontare i loro problemi, con cui si possono sfogare, con cui possono ridere… Ci sono percorsi di ricerca di fede che sono stati sostenuti dal clima di accoglienza che le persone hanno trovato in certe comunità. E, al contrario, c’è il raffreddarsi della fede di chi non ha incontrato una comunità che con la vita sapesse parlare di Dio e della sua misericordia. Penso soprattutto ai ragazzi negli anni difficili della preadolescenza e dell’adolescenza, quando la disponibilità al messaggio cristiano – e ad ogni altro messaggio – passa attraverso persone che lo rendano credibile e vicino. Quanti ragazzi hanno tagliato i ponti con la Chiesa per un rimprovero fatto in pubblico da un educatore maldestro, o per un ceffone vissuto come un’ingiustizia, o per un giudizio tagliente!

    L’arte di creare legami

    Molti oggi nella comunità cristiana, quelli che appartengono alla cerchia dei più coinvolti nelle attività pastorali, guardano soprattutto ai più giovani quasi con un senso di risentimento per la loro indifferenza o per le loro lontananze.
    Questo non è ciò di cui ha bisogno la comunità cristiana per recuperare in umanità, calore, attrattiva sulle nuove generazioni.
    Oggi le nostre comunità avrebbero bisogno di persone che, riconciliate con la loro vita e con il mondo giovanile, fossero esperte nell’arte di creare legami, facendo percepire in questo modo che vi è una fraternità generata dal condividere ciò che si ha di più importante nella vita: il rapporto con il Signore, la missione ricevuta da Lui, il compito di essergli testimoni. I catechisti, i sacerdoti, le suore, gli operatori pastorali, penso che dovrebbero giocare il loro ruolo ecclesiale prima di tutto sulla loro capacità di andare incontro alle persone, di favorire i legami tra loro, di tessere un tessuto comunitario vivo e cordiale.
    La comunione che tutti desiderano e auspicano nelle comunità cristiane ha bisogno di persone che si mettano con umiltà a servizio di ciò che unisce. Tenere insieme: generazioni, vocazioni, spiritualità, sensibilità, punti di vista diversi. Tenere insieme non è rendere tutti uguali, ma conservare ciascuno nella propria identità specifica, senza che l’originalità di uno indebolisca o sembri minacciare quella dell’altro. Significa avere la passione per l’unità e il gusto di mettere in relazione; significa non temere i conflitti, ma saperli trasformare in occasioni di crescita; è saper ricondurre gli aspetti parziali di ogni posizione ad un quadro di insieme, che rafforza l’unità. Il tenere insieme si esercita in molte forme: nei momenti in cui si assumono le decisioni, richiede la capacità di valorizzare il positivo che c’è in ogni contributo, nel saperlo evidenziare e al tempo stesso mettere ogni frammento in rapporto con il tutto.
    Si tiene insieme se si è allenati ad un esercizio ascetico rigoroso e continuo. Lo spirito di unità di una comunità spesso è minacciato da aspetti più banali della divergenza di opinioni: dalla freddezza, dall’anonimato, dal pettegolezzo, dall’indifferenza, da piccole rivalità, da invidie e gelosie.... Proprio per questo occorre grande vigilanza, sobrietà della parola e, ancor più, disciplina degli atteggiamenti del cuore.
    Il problema pastorale dell’educazione ecclesiale dei giovani ha prima di tutto un aspetto umano e spirituale, che non chiama in causa nessuna strategia pastorale ma la qualità umana e spirituale delle persone che in comunità hanno maggiori responsabilità, e soprattutto gli educatori.


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