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    Cosa vogliamo dai nostri ragazzi?


    Giovani alla ricerca di senso /3

    Dall’obbedienza all’affinamento della coscienza

    Antonella Arioli


    (NPG 2016-03-43)


    Cosa voglio dai miei ragazzi? Una volta, quando andavo a scuola io, eravamo molto più ubbidienti. Guai a rispondere o a mettere in discussione. Guai a fare domande. Era bravo chi si adattava alle regole senza disturbare, chi stava attento ma zitto. Ed era bravo il professore che faceva stare in silenzio la classe (l’orgoglio di dire “quando ci sono io non vola neanche una mosca”). Il mito della disciplina andava di pari passo con quello dell’obbedienza. Oggi le cose sono cambiate, almeno per me. Io non voglio delle statuine, certo che no. Vorrei però che mi ascoltassero. Non nel senso di fare quello che dico io, davanti a me, per poi fare il contrario quando io non ci sono. Vorrei che mi ascoltassero per imparare a pensare con la loro testa. Preferisco che facciano confusione, che facciano molte domande e che si parlino addosso, se questo li aiuta a ragionare insieme, a mettere in discussione le cose e ad accorgersi che esistono pareri diversi. Non mi interessa se dal corridoio si sente un vociare confusionario... Ho imparato ad apprezzare le loro voci più che i loro mutismi.

    Accade spesso che le occasioni di confronto con chi si occupa quotidianamente di educazione siano fonti preziose di sapere. Così è stato in un percorso di formazione rivolto ai docenti di una scuola secondaria superiore, dove ho potuto incontrare l’insegnante di lettere alla quale appartengono le riflessioni poco sopra riportate. La rivedo che prende la parola, animandosi, quando affrontiamo il tema dell’obbedienza e della deriva conformante in cui può scivolare l’educazione. “È un’ombra dell’educazione - dico io – insidiosa e latente, e tanto più pericolosa se non la portiamo alla luce”. Convinta di questo, sto per approfondire la mia dichiarazione, quando l’insegnante in questione mi interrompe.“Mica tanto latente!”, dice lei. Poi, guardandosi intorno quasi imbarazzata, continua: “... cioè, volevo dire che esiste ancora il mito dell’obbedienza, e di adeguare i nostri ragazzi a un modello che noi abbiamo in testa. La diversità ci spaventa... Per non parlare poi, del mito della disciplina: vogliamo che stiano zitti. Magari addormentati e indifferenti, ma zitti”. A quel punto le chiedo: “... e invece lei cosa vuole dai suoi ragazzi?”. La risposta è la breve narrazione di apertura. Parole che racchiudono profondi significati sull’educazione, oltre che sui ragazzi che vediamo ogni giorno.

    Formare o conformare? Il rischio educativo

    Il desiderio di avere una classe o un gruppo di ragazzi obbedienti non è così inusuale, né tantomeno da condannare in sé. Questo se con “obbedienti” si intende rispettosi di regole che hanno interiorizzato o, come dice il senso comune, “ben educati”. Ma la preoccupazione che traspare dalle parole di quell’insegnante deriva da un’accezione diversa del termine, che ne mette in risalto altre sfumature: quelle dell’arrendevolezza, della remissività, della sottomissione. Aspetti che, se guardati dal punto degli insegnanti/educatori, lasciano trasparire un esercizio del potere pieno di zone d’ombra, dove l’accettazione dell’altro e della sua unicità viene di fatto a mancare, e dove il senso che viene dato alla propria attività educativa scivola nella volontà di adattare, conformare, livellare. Ciò che esce dalla norma ci spaventa, ciò che non è tipico ci mette in discussione: meglio che le differenze non emergano, e che i ragazzi stiano il più possibile “addormentati e zitti”, senza disturbare la quiete sonnacchiosa nella quale scorrono (talvolta) le lezioni. Senza contare che, molto più spesso di quanto crediamo, l’obbedienza è solo di facciata. In realtà, dietro a comportamenti accondiscendenti dei ragazzi, si cela la convinzione che “esporsi non paga”: essi hanno appreso – grazie agli adulti – che è meglio stare “sotto il pelo dell’acqua”, senza dare nell’occhio. Interiormente lontani e indifferenti, ma esteriormente disciplinati. La situazione si complica qualora tale atteggiamento di remissività e subordinazione coinvolga non solo il piano dei comportamenti, ma le parti più profonde della personalità: quella che attiene alle convinzioni e ai significati. Lo stesso significato etimologico di obbedire rimanda a entrambi questi piani: sia all’eseguire gli altrui comandamenti che al sottomettersi ai voleri altrui. “Altrui” è la parola chiave. Si tratta di qualcosa (comandamenti, voleri) che altri hanno pensato. Qualcosa che altri hanno giudicato essere di valore. L’assonanza con il conformismo viene spontanea, ossia con l’aderire passivamente e acriticamente a comportamenti e ideali che vengono dall’esterno: dal contesto familiare e/o sociale nel quale ci si trova immersi. Nel caso dei giovani, l’attitudine ad adeguarsi a qualcosa (una moda, ad esempio) o a qualcuno (un mito) può destare più o meno apprensione nel mondo adulto. Se è tipico, infatti, che il desiderio di sentirsi accettati, di appartenere a un gruppo o di assomigliare a una persona possa ispirare atteggiamenti imitativi, la preoccupazione avanza quando ciò penalizza l’originalità soggettiva, di fatto ostacolando il coraggio di essere autenticamente se stessi. La deriva che si profila è quella dell’omogeneità: di un “uniformismo”, se così si può dire, che non lascia spazio all’emergere della “novità di ognuno”[1]. Ma l’aspetto deviante dell’obbedienza - che mette in mostra giovani omologati e incapaci di dire, fare e pensare a partire da sé – trova purtroppo in chi si occupa della loro educazione la propria matrice. Paradossalmente, infatti, proprio coloro che sono chiamati a promuovere, in ogni individuo, lo sviluppo delle sue potenzialità e della capacità di essere un cittadino libero e responsabile, spesso sono anche coloro che pretendono e inducono atteggiamenti passivizzanti. Così, le tendenze conformanti cui accenna la “nostra” insegnante sono presenti in chi, pur con le più buone intenzioni, agisce nel tentativo di far aderire le persone “in carne e ossa” a un’idea di uomo (o di studente) che ha nel tempo interiorizzato, magari inconsapevolmente. Talvolta, la tentazione di normalizzare chi viene percepito diverso o atipico agisce in modi profondi e sotterranei. Prima ancora di provare a conoscere chi ci sta di fronte, di scoprirne le risorse che possono celarsi al di là di quanto appare, si cade nella trappola di livellare, correggere, raddrizzare, come vuole un’educazione “ortopedica” e correttiva.[2] Questo accade a maggior ragione quando l’altro mette in atto modalità relazionali percepite – nel nostro caso dall’adulto insegnante/educatore - come provocatorie e disturbanti.
    E dunque, che cosa chiediamo ai nostri ragazzi? Di “obbedire come autonomi”, per usare le parole di don Lorenzo Milani? Il mito dell’obbedienza e dell’adesione a dettami provenienti dal di fuori di sé è stato messo in discussione, come noto, dalla voce autorevole e quantomai attuale del priore di Barbiana. Nel 1965, nel suo saggio L’obbedienza non è più una virtù[3] egli, con uno stile diretto e graffiante, esorta a fare affidamento sulla legge della coscienza, che sola può far crescere in modo autentico (né anarchico, né conformista, dice lui). Sono i “cultori dell’obbedienza cieca” a non credere alla legge della coscienza: alla potenza di questo “organo di significato”[4] capace di guidare nelle scelte del quotidiano. È un appello alla responsabilità, quello di don Milani, poiché bisogna “avere il coraggio di dire ai giovani (...) che l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto”[5]. La questione della disciplina e della gestione di un gruppo di ragazzi/studenti più o meno obbedienti, allora, non riguarda solo il piano dei comportamenti esteriori. Riguarda, invece, le dimensioni più profonde della personalità: quelle che hanno a che fare con l’essere-liberi e l’essere-responsabili. E dal modo in cui ci rappresentiamo gli adolescenti proprio in riferimento a queste dimensioni.

    “Obbedire come automi”? Tra libertà e responsabilità

    Che concezione, dunque, abbiamo dei nostri giovani? E, più in generale, che idea abbiamo di “adolescenza”? Quest'ultima, in un orientamento fenomenologico-esistenziale, non è solo una fase temporale della vita, quanto una “postura esistenziale” caratterizzata dall'esigenza di trovare un senso nelle esperienze che si vivono.[6] I giovani, infatti, avvertono in modo urgente il bisogno di interrogarsi sul significato della loro esistenza, mettendo in discussione le verità e i principi fino a quel momento accettati. Tuttavia, non è per nulla scontato che tale esigenza di senso si trasformi, di per sé, in un processo di ricerca di senso. Alle volte, purtroppo, i nostri ragazzi non riescono a intraprendere un cammino costellato da domande esistenziali e dall’impegno concreto in un compito, sperimentando così un vissuto di vuoto e di insignificanza.
    Condizioni fondamentali per l'evolvere dell'esigenza di senso in ricerca di senso sono la libertà e la responsabilità. Si tratta di due possibilità - e, dunque, di due condizioni ontologiche - che caratterizzano l'uomo e, pertanto, anche i nostri giovani. Anche quelli che sembrano spenti, disinteressati e apatici. Ciascuno di loro ha la potenzialità di essere-libero e essere-responsabile: occorre però un’educazione che sappia stimolare lo sviluppo di tali potenzialità, coltivare nei ragazzi la scelta autentica dei propri significati. Affermare questo significa sostenere una precisa convinzione: l’uomo non è fatto per essere eterodiretto; non è fatto per seguire pedissequamente il «si fa, si dice, si pensa»; non è fatto per ubbidire deterministicamente alle leggi che gli provengono dall'esterno[7]. Nello stesso tempo, sostenere questo significa scongiurare un'idea riduttiva delle persone (e dei nostri giovani), che li vedrebbe nient'altro che vasi da riempire, argilla da sagomare, materia da aggiustare. Nella tradizione fenomenologico-esistenziale, invece, ogni persona è fatta per comprendere, soppesare, scegliere e decidere consapevolmente. A partire da sé. Ovvero, a partire dai significati e dai valori che ha interiorizzato, e che abitano la sua coscienza. Questo ci dicono le parole della nostra insegnante, quando afferma “non voglio delle statuine”, “vorrei che imparassero a pensare con la loro testa”. Ma attenzione: la libertà non equivale al libero arbitrio: scegliere a partire da sé non significa affatto che non occorra tener conto degli altri e delle condizioni del contesto in cui si è inseriti. La libertà, infatti, non va mai disgiunta dalla responsabilità: sono due facce della stessa medaglia. L’assunzione responsabile della libertà, ci ricorda Viktor Frankl, “è più del puro essere libero: nella responsabilità, infatti, è indicato il «per che cosa» della libertà umana, ossia ciò per cui l’uomo è libero e per cui o contro cui egli si decide”[8].
    Così la libertà, lungi dal coincidere con la facoltà di fare ciò che si vuole, è invece una libertà orientata a qualcosa in cui si crede: a dei valori. E la responsabilità è l’abilità di rispondere a un compito liberamente assunto, accettando il rischio di attraversare le esperienze della vita in modi originali, e scongiurando il pericolo di ridurre quegli attraversamenti in «traghettamenti»: in percorsi guidati da altri o, ancor peggio, dagli stereotipi e pregiudizi dettati dal senso comune. In altre parole, il profilo dei giovani che abbiamo dinnanzi a noi, in classe o in altri contesti educativi, è quello di chi ha in sé la potenzialità umana di respons-ability: ovvero, di essere «abile a rispondere» alle esigenze della vita in prima persona. E il mondo adulto deve riconoscere e promuovere tale potenzialità, scoraggiando l'atteggiamento di chi affida la propria responsabilità esistenziale su altre persone che non sia egli stesso. Ecco perché il primo passo dell’educazione consiste nell’esprimere, a ciascuna persona, una radicale fiducia: “se noi prendiamo sul serio una persona in quanto tale, se la consideriamo libera e responsabile, possiamo anche fare appello alla sua libertà e alla sua responsabilità, e solo allora le viene data anche una possibilità di prendersi veramente in pugno, di cambiare, di migliorare”[9]. È a partire da questa concezione dei giovani e dell’adolescenza che il senso dell'educazione non può essere ridotto all'obbedienza. Non può bastare, infatti, che i ragazzi stiano “buoni e zitti” per sentirci soddisfatti come insegnanti e educatori.

    “Affinare la coscienza”: intuire e rispondere alla vita

    Dice il fondatore della Logoterapia e Analisi Esistenziale: “in un’epoca in cui i dieci Comandamenti sembra stiano perdendo la loro validità incondizionata per molti uomini, l’uomo deve essere in grado di percepire i diecimila comandamenti che sorgono dalle diecimila situazioni con cui la vita lo mette a confronto.”[10] Anziché conformare ad un modello, dunque, l'educazione deve preoccuparsi di promuovere nei giovani la capacità di intuire i compiti che li interpellano in ogni circostanza, coltivando l’attitudine a interrogarsi, valutare, soppesare, discriminare ciò che è importante da ciò che non lo è. E questo criticando, andando controcorrente, esponendosi in prima persona. L'obbedienza cieca, invece, va nella direzione contraria: ispira l'anonimato conformante e l'adattamento passivizzante. Perché ciascun ragazzo possa percepirsi e riconoscersi come essere-unico e essere-irripetibile, infatti, deve essere incoraggiato a fare domande, a “emergere dal nascondimento”[11]: a esporsi (da ex-pònere: porre fuori) anche nelle sue contraddizioni e nei suoi comportamenti talvolta indisponenti. Tutto ciò è necessario per contrastare un conformismo non solo comportamentale (“fare quello che tutti gli altri fanno”), ma anche esistenziale (“volere quello che gli altri vogliono”), che si gioca sul piano delle scelte e dei valori. Non interrogarsi sulle proprie priorità, non mettere in discussione ciò che si preferisce rispetto a quanto si pospone, non riflettere sulle opportunità che si colgono nelle concrete situazioni, non pensare criticamente ai valori che risiedono nella coscienza e che guidano nelle decisioni: tutto questo caratterizza e alimenta l'atteggiamento del conformismo esistenziale. Ed è quest’ultimo atteggiamento che coincide con l’obbedienza cieca – cui si accennava poco sopra – e che diverge invece dal rispetto. L'assorbimento acritico e passivo di significati e valori altrui, infatti, non collima con l'accettazione delle regole, dei principi e delle consuetudini che caratterizzano il proprio ambiente di vita. Scongiurare l'obbedienza, infatti, non vuol dire disconoscere la valenza positiva di tale termine, che ha a che fare con un processo di interiorizzazione consapevole e dunque autentica. Obbedire con convinzione, dunque, significa condividere: essere intimamente sicuri del valore di qualcosa, avendone fatto oggetto di riflessività. Ed è proprio questa la sfida a cui è chiamata la scuola: fare attenzione non solo ai contenuti da trasmettere, quanto alle coscienze da affinare, nella convinzione che “solo una coscienza sveglia e affinata (lo) rende capace di «prendere posizione contro», in modo da non cadere nel conformismo e non piegarsi al totalitarismo”[12]. Occorre puntare sulla coscienza, quale facoltà intuitiva che esprime la saggezza dei sentimenti e dell’anima, ed è spesso molto più perspicace dell’intelletto. Una facoltà, sostiene Martin Heidegger, che si esprime come “chiamata”[13]: come una voce che interpella il soggetto a un significato da realizzare, e che gli svela le possibilità che soltanto lui, in quel momento e in quella situazione, può attualizzare. In altre parole, la coscienza “ha una «voce» che «ci parla» e nessuno può dubitarne”[14]. Risulta pertanto fondamentale che i ragazzi siano educati ad ascoltare la propria coscienza: a porre attenzione alle concrete possibilità di senso che essa indica nel qui e ora.
    Si tratta, nella pratica educativa, di coltivare – accanto alla capacità di intuire le possibilità di significato – anche la disposizione a rispondere creativamente alle esigenze avvertite nell’esistenza, ad esempio non scoraggiando chi sostiene posizioni inconsuete e impreviste, chi fa domande sovversive e provocatorie, chi non si stanca di cercare nuovi significati. In tal modo, si profila l’immagine di un insegnante/educatore che - come il tafano di Socrate - stuzzica i ragazzi a “identificare la ringhiera di pensieri da cui si pensa e (...) si elabora il significato dell’esperienza”[15], sostenendo un atteggiamento di ricerca che non si accontenta del già noto, ma che mette in crisi le certezze consolidate e stimola ciascuno/a a supportare le proprie convinzioni. In questo consiste, a ben vedere, il volgere dell’educazione all’obbedienza in educazione alla coscienza.

    Traccia per la riflessione con gli adolescenti

    Per lavorare sui temi della libertà e della responsabilità, si possono proporre ai ragazzi le seguenti esercitazioni di scrittura individuale, a partire da alcune domande-stimolo:

    Immagina di avere una libertà “senza limiti”: cosa faresti?
    ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….

    Quali sarebbero le tue emozioni?
    …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..

    È possibile, secondo te, una libertà “senza limiti”?
    ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….

    Si può scegliere di non-scegliere?
    ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………

    Quali sono i condizionamenti interni o esterni che delimitano la tua libertà di scelta?

    INTERNI

    Paure ………………….

    Sensi di colpa …….

    Legami affettivi …………

    Valori personali ………..

    Altro ……..

    ESTERNI

    Divieti …….

    Bisogni altrui ……………

    Giudizi altrui ……………

    Aspettative degli altri ………….

    Altro ……

    Quale scelta faresti, se non esistessero quei condizionamenti?

    ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………

    NOTE

    [1] Cfr. R. De Monticelli, La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti, Milano, 2009.
    [2] Ricordiamo, a questo proposito, l’intento correttivo e civilizzante che il medico francese Jean Itard ebbe nei confronti dell’enfant sauvage Victor, catturato nella foresta dell’Aveyron, dove aveva vissuto i primi anni della sua vita.
    [3] Milani L., L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2004.
    [4] Frankl V., Logoterapia e analisi esistenziale, a cura di E. Fizzotti, Morcelliana, Brescia, 2005, p. 80.
    [5] Milani L., L’obbedienza non è più una virtù, cit., p. 51.
    [6] Cfr. Arioli A., Questa adolescenza ti sarà utile. La ricerca di senso come risorsa per la vita, FrancoAngeli, Milano, 2013.
    [7] Per J. P. Sartre la libertà è l’essere dell’uomo, al punto da costituire per lui una condanna. Già, poiché “in realtà – egli afferma – noi siamo una libertà che sceglie, ma non scegliamo di essere liberi: siamo condannati alla libertà […], gettati nella libertà” (Sartre J. P., L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 2002, p. 580).
    [8] Frankl V. E., La sfida del significato. Analisi esistenziale e ricerca di senso, a cura di D. Bruzzone ed E. Fizzotti, Erickson, Trento, 2005, p. 38.
    [9] Frankl V. E., Kreuzer F., In principio era il senso. Dalla psicoanalisi alla logoterapia, Queriniana, Brescia, 1995, p. 95.
    [10] Frankl V. E., Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, Morcelliana, Brescia, 2000, p. 108.
    [11] Cfr. Heidegger M., Essere e tempo, Utet, Torino 2005.
    [12] Frankl V. E., Dio nell’inconscio, cit., pp. 108-109.
    [13] Heidegger M., Essere e tempo, cit., pp. 326-328.
    [14] Frankl V. E., Logoterapia e analisi esistenziale, cit., p. 98.
    [15] Mortari L., A scuola di libertà. Formazione e pensiero autonomo, Raffaello Cortina, Milano, 2008, p. 22.


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