Nicola Ban *
(NPG 2015-04-73)
Leggendo i vangeli colpisce la tensione missionaria di Gesù. Fin dall’inizio del suo ministero egli desidera che la buona notizia di un Regno di Dio vicino raggiunga più persone possibili e non riguardi solo un ristretto numero di adepti.
Ci sono due attenzioni che Gesù ha avuto nella sua progettazione educativa e missionaria e che ho visto riecheggiare nei giorni del Convegno Nazionale di Pastorale Giovanile.
In primo luogo, quando Gesù ha voluto annunciare il Regno di Dio ha costituito una comunità di discepoli e missionari, nella consapevolezza che è sempre una comunità che educa e che evangelizza, più con lo stile delle sue relazioni e del suo modo di fare che con le parole o i discorsi.
Nei vangeli è abbastanza evidente il legame tra missione e formazione della comunità.
Ad esempio nel vangelo secondo Matteo e secondo Marco, all’annuncio del Regno di Dio (Mt 4,17 e Mc 1,15) segue immediatamente la chiamata dei discepoli (Mt 4,18ss e Mc 1,16ss).
Oppure il discorso missionario (Mt 10,5-11,1) è preceduto dalla costituzione del gruppo degli apostoli (Mt 10,1-4) chiamati, appunto, per stare con Gesù e per essere mandati a predicare (Mc 3,14).
Il Convegno Nazionale di Pastorale Giovanile è stato un evento missionario soprattutto perché è stato un’esperienza di Chiesa che parla più con lo stile di relazione e per il modo di fare che per le parole pronunciate. Si è potuta vedere una Chiesa articolata e diversificata in cui vescovi, presbiteri, consacrati/e, laiche e laici giovani hanno pregato, si sono messi in gioco, si sono confrontati e ascoltati con competenze e ruoli diverse, ma con la stessa dignità. Una Chiesa così lascia sperare che il tempo del clericalismo e delle diffidenze reciproche stia cominciando a tramontare.
Si è vista una Chiesa che desidera ardentemente che tutti siano attivi, che tutti possano prendere la parola, che non ci siano categorie immobili e già stabilite di spettatori e di attori…, insomma una Chiesa dove tutti sono membra vive di un unico Corpo.
Nei giorni del Convegno di Brindisi è stato possibile sperimentare una Chiesa che non ha paura di parlare chiaro e di dire le cose come stanno, anche se può fare male sentirle o non ci fa fare bella figura. È stato liberante il modo aperto di comunicare usato dai relatori, ma anche dai vari partecipanti nei lavori di gruppo: non è stato necessario usare la retorica e il linguaggio “ecclesialese” che a volte si respira in ambienti un po’ ristretti e sulla difensiva. È stato liberante sentir dire nei gruppi e dal tavolo dei relatori, con onestà, che anche i vescovi possono sbagliare su questioni pastorali, che le nostre attività non sono sempre dei “successoni”, che la cura educativa richiede fatica ed è aperta al fallimento, che si possono guardare i problemi senza disperazione e lamentele inutili, ma anche senza la paura di non risultare vincenti, che spesso ci sono dei problemi di relazione tra parrocchia e centro della diocesi, tra movimenti, istituti religiosi e diocesi, che è complicato ma bello lavorare insieme, che la ricerca di linguaggi nuovi è affascinante ma non sempre è facile individuarli e usarli con competenza…Tutto questo fa gustare uno spirito di libertà e fa sperimentare una boccata di aria fresca… In secondo luogo, quando Gesù ha inviato in missione i suoi discepoli e ha dato loro delle istruzioni, una delle parti più sviluppate è quella relativa alla povertà che deve caratterizzare i missionari. Confrontando tra di loro le diverse versioni degli evangelisti ci si accorge che ci sono piccole sfumature, ma l’idea di base è chiara: il missionario deve essere essenziale.
Non servono oro, argento, denaro, sacca da viaggio, due tuniche, sandali, bastone (Mt 10,9-10; Lc 9,3; Lc 10,4).
Proprio la povertà sarà la salvezza delle nostre proposte. Finché uno è ricco di mezzi, di persone, di risorse, di idee, di soluzioni ai problemi, probabilmente lavorerà da solo e costruirà delle proposte da solo. Nel momento in cui, invece, ci si rende conto di non farcela, di rimanere delusi delle proprie proposte, di non avere le energie e le risorse per fare quanto si sognerebbe, allora è il tempo in cui si è più disponibili a collaborare e a costruire legami di comunione. Paradossalmente proprio le realtà più povere, proprio quelle con meno mezzi e che cercano più alleanze possono essere il modello nel costruire legami di comunione veramente ecclesiali. Nella storia della Chiesa sono molteplici le stagioni in cui proprio la povertà ha salvato la comunità cristiana e, viceversa, ci sono chiari esempi che proprio nei momenti in cui la Chiesa si è sentita più ricca e più sicura ha combinato più guai. Il richiamo costante di papa Francesco alla povertà è ancora meno innocente di quanto sembra: invocare una Chiesa povera significa anche chiedere la disponibilità a collaborare e mettere davvero i propri carismi a servizio di tutti. Solamente in questa prospettiva la comunità nella sua totalità sarà educante ed evangelica.
* Nato nel 1974, sacerdote dal 1999, in servizio presso un’unità pastorale della città di Gorizia.
Incaricato per la Pastorale Giovanile e Vocazionale della diocesi di Gorizia; coordinatore per la PG del Triveneto dal novembre 2014. Docente presso lo Studio Teologico Interdiocesano delle diocesi di Gorizia-Trieste-Udine.