Intervista a Alessandro D'Avenia
(NPG 2015-01-56)
Domanda. Dopo Bianca come il latte (2010), e Cose che nessuno sa (2011), è uscita la sua ultima fatica: Ciò che inferno non è, romanzo per cui ci sono voluti tre anni. C’è stato qualche incontro, qualche vicenda, che ha acceso in lei l’urgenza per questo libro?
Risposta. Non avevo in programma di scriverlo, stavo già lavorando ad altri progetti, ma ad un certo punto la storia ha avuto il sopravvento, come uno di quegli incontri per strada che ti obbligano a cambiare i tuoi programmi. Leggevo la confessione dell’assassino di don Pino, divenuto collaboratore di giustizia. Puglisi gli ha sorriso nell’attimo in cui stava per sparargli. Uno dei killer più efferati della mafia dice che per quel sorriso “non ci ha dormito la notte”. Quella frase è esplosa dentro di me come dinamite. Volevo capire come si fa ad essere così liberi da sorridere alla morte e ai suoi scherani. Quel sorriso liberava persino l’assassino dal suo gesto, lo costringeva a rivedere tutta la sua vita.
D. Che significato poteva avere?
R. Quel sorriso diceva: tu sei molto di più di quello che stai facendo a me. Riecheggiava il “perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Volevo scandagliare, da uomo e da narratore, il mistero di quel sorriso. Chi sa morire così sa anche vivere e insegna a vivere a chi resta. Volevo liberare l’agiografia e la cronaca dalla loro retorica o appiattimento e cogliere in che modo un capitolo della storia della salvezza si compiva in quel momento. Poi ci sono state la beatificazione per martirio di Puglisi e l’assegnazione del premio a lui intitolato. Altri incontri, altri volti, altre persone. È come se quell’uomo che avevo conosciuto nei corridoi della mia scuola mi desse la caccia. Il suo romanzo sulla mia carne lo aveva già scritto, ma era come se quella carne dovesse diventare di molti, attraverso la carta. Col senno di poi credo sia stato un tocco della grazia.
D. I due libri precedenti sono stati anche successi internazionali. Ma entrambi erano ambientati in città che potevano essere una qualsiasi metropoli europea. Qui invece sceglie Palermo. Perché questa decisione? Non teme che possa non essere compresa dai suoi lettori?
R. Al contrario. Lo comprenderanno ancora meglio. Più una storia è incarnata più può essere universale. È una città paradossale: di luce e lutto, di paradiso in una via e inferno girato l’angolo. È uno dei personaggi del romanzo e determina tutti gli altri come un fato incombente. Come nel cinema noir della metà del secolo scorso si tratta di un paesaggio reale e simbolico, nel cinema l’uso del campo lungo sugli ambienti determinava i sentimenti del personaggio, che ne diveniva una tessera, venivano messi a fuoco sia il personaggio sia l’ambiente come se fossero tutt’uno: luce e tenebra erano parte del personaggio.
D. Dunque il romanzo è anche è un atto d’amore verso Palermo.
R. Sì, ma di quell’amore che Borsellino definiva così: “Non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. Metto a fuoco Palermo nei dettagli, perché è Palermo che ha messo a fuoco la mia anima e i miei personaggi. In questo romanzo le due città, quella di Dio e quella degli uomini, intuite da Agostino, si intersecano nella luce e nelle tenebre, e Palermo ha di certo i connotati, i profumi, i colori reali, ma allo stesso tempo è la città degli uomini di tutti i tempi, quella in cui nelle tenebre la grazia si fa strada. Chi leggerà con attenzione coglierà un sottotesto continuo nella storia, quello che lega il dramma della storia a Dio.
D. Padre Pino Puglisi (3P, come viene soprannominato nel libro) è stato beatificato da Papa Francesco ed è stato suo insegnante a scuola. Credo che Ciò che inferno non è sia il primo romanzo laico, a grandissima tiratura, che corre il rischio di avere tra i suoi protagonisti un santo. Come è riuscito a non cadere nell’agiografia di don Pino?
R. Era la sfida principale. Volevo io per primo capire se la cronaca era già agiografica, o se invece la cronaca fosse la manifestazione di un tratto di storia della salvezza, della storia sacra del chinarsi di Dio sull’uomo. Romano Guardini scrive così: «Nessuno prende la realtà sul serio come il santo perché in verità ogni fantasticheria, sulla sua strada irta di pericoli, inesorabilmente si vendicherebbe. Divenire santo significa per l’uomo reale staccarsi da sé, per entrare nel Dio reale». Raccontare la santità è raccontare il massimo realismo e l’uomo Puglisi entrerà nel cuore anche dei non credenti, perché il santo è la pienezza dell’uomo e di fronte ad un uomo tutto d’un pezzo non si può che rimanere affascinati, come è accaduto a me. Mi sono documentato meticolosamente, seguendo anche le tracce del processo di beatificazione, per cogliere questo realismo del santo. E ho trovato gli ingredienti di un’epica quotidiana che ci riguarda tutti. Come trasformare la prosa di ogni giorno nella poesia di una vita bella? La storia racconta questo, ciò che inferno non è in mezzo all’inferno.
D. Cosa nostra sarà sconfitta quando non ci vorranno più gli eroi per sconfiggerla ma sarà diffusa la normale “eroicità” di chi è onesto e lavora per il bene. Da quello che si è potuto desumere finora dal suo romanzo pare essere questo un insegnamento importante che è contenuto lì. Mi sbaglio?
R. No, è proprio così. Il mio non è un romanzo antimafia, non è un romanzo sulla mafia, non è un romanzo di cronaca. È una storia che entra nel mistero del sacrificio: che non è il fatto in sé di morire, ma quello che significa alla lettera (sacrum facere: rendere sacro). 3P rendeva sacre le vite che incontrava perché erano rese sacre da Dio e lui non era altro che al servizio di quelle vite. Riecheggiano le parole di qualcuno: non siete voi che mi togliete la vita, sono io che la dono. Sacrificarsi è donare il proprio tempo, amore, cure, anche quando è difficile riuscire. Lui riusciva perché lasciava che Dio facesse questo con lui. Era innamorato pazzo di Cristo e questo amore traboccava. Credo che chiunque gli si accostasse vedeva un uomo qualunque capace di amare divinamente, sentiva la tenerezza di Dio su di lui, come accadde persino all’assassino. L’eroismo è questo: giorno per giorno non privarsi mai della possibilità di amare ed essere amati. Per questo ho scelto la frase di Dostoevskij in esergo: “l’inferno è la sofferenza di non poter più amare”. Chi trova il segreto per amare sempre nel quotidiano, trova il segreto della vita: fallimenti, sconfitte, cadute non possono distruggere la speranza, perché quella speranza si colloca altrove. In un altrove intoccabile, come un mare in tempesta in superficie e calmo pochi metri sotto.
(Da: ilsussidiario.net)
Il romanzo
Romanzo struggente e profondo, che attraversa l’animo di un adolescente, animato da passione civile e tormentata sensibilità religiosa al tempo stesso. Il protagonista, Federico, fa parte di quella generazione degli anni ’90 che visse come una sorta di perdita dell’innocenza gli attentati a Falcone e Borsellino. “Prima noi non sapevamo cos’era la mafia. O meglio, ce ne tenevamo fuori, era una cosa che non ci riguardava. Con gli attentati di Capaci e via D’Amelio è cambiato tutto. E Puglisi è stato il protagonista di questo nuovo, rinnovato impegno”. D’Avenia non ha scritto un santino, e nemmeno un romanzo antimafia. “La retorica dell’antimafia", dice, "non mi interessa. Quello che mi interessa è capire e far capire come il parroco della borgata più dimenticata della città ha cambiato le cose”.
Lo scrittore, rivivendo la cronaca di quei giorni terribili, ne legge i segni evangelici, a cominciare da come don Puglisi si comportava nel liceo classico Vittorio Emanuele. “Me lo ricordo a scuola: durante l’intervallo passeggiava nei corridoi e rispondeva alle domande dei ragazzi. Non gli piaceva la sala professori: diceva che era piena di professori”. Quel suo modo di deambulare lungo i corridoi era un modo per evangelizzare anche durante l’intervallo. Puglisi invitava gli studenti della Palermo bene ad andare a Brancaccio, quartiere di cui spesso non conoscevano nemmeno l’esistenza. Dovevano giocare a pallone, fare catechismo, aiutare il “parrino” nel Centro Padre Nostro, da lui fondato e finanziato con i soldi dello stipendio di insegnante di religione. “Don Pino sa che l’inferno opera più efficacemente sulla carne tenera: i bambini. Bisogna difendere la loro anima prima che qualcuno gliela sfratti. Custodire ciò che hanno di più sacro”.
D’Avenia nel costruire il romanzo interiore e civile di questo giovane Holden siciliano segue Puglisi attraverso quei fatti, negli anni bui di Palermo, li scruta a fondo e riconosce i segni evangelici di un calvario, fino allo spasimo finale, quel 15 settembre 1993.
“Il libro”, conclude lo scrittore, “è stata anche l’occasione per riconciliarmi con la mia città, Palermo, di cui non avevo capito nulla". Una città, potremmo dire, anch'essa bianca come il latte e rossa come il sangue, dove convivono inferno e paradiso, rappresentata da un dipinto di Raffaello sottratto come se le avessero sottratto l'anima e da una chiesa sconsacrata a cielo aperto, la chiesa dello Spasimo.