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    Quando l’educazione lascia il segno. Quattro punti cardinali per la pastorale giovanile


    Criteri pastorali dalla EG /1

    Domenico Cravero

    (NPG 2015-03-59)


    Viviamo il tempo della secolarizzazione avanzata, del compimento dell’annunciata morte di Dio. L’educazione, sganciata dalla fede, perde il suo fondamento. Anche la pastorale giovanile fa fatica: non è più la stagione dei grandi numeri. È un tempo di ripensamento, di ricerca, non tuttavia di aridità. Chi ci crede, chi investe nei giovani, incontra anche oggi sorprendenti risultati, scopre nei ragazzi risorse e disponibilità. Per non smarrirsi nella complessità delle analisi e nella confusione della cultura, serve una bussola: alcuni criteri che nascano dalla vita e siano in grado di penetrarla e di animarla.

    In questa rubrica presenterò alcune riflessioni sui criteri indicati da papa Francesco nell’Evangelii Gaudium (n. 217-237). Sono quattro princi¬pi proposti specificamente per lo sviluppo della convivenza sociale, per individuare una via verso la pace: il tempo è superiore allo spazio, l'unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell'idea, il tutto è superiore alla parte. Questa riflessione è stata iniziata da papa Bergoglio nel 2010 in Argentina, pensando alla necessità di un vero rinascimento della politica, oggi svilita, inconcludente e corrotta, a causa del suo allontanamento dal bene comune. La politica è diventata autoreferenziale perché costruita intorno al solo codice del consenso, quindi concentrata tutta sull’immediato. Incapace di sguardo di futuro, si esaurisce nella sterile alternanza tra democrazia populista e oligarchica. Si consuma così la sua lontananza dal popolo, la perdita della fiducia e della partecipazione. La decadenza europea, in cui è immersa anche la nostra pastorale, spinge questo continente verso i margini delle dinamiche mondiali: i paesi membri rischiano di provincializzarsi, smarrendo la visione universale delle cose che contano. «La lotta – ripete a più riprese papa Francesco – ha due nemici: il menefreghismo, mi lavo le mani di fronte al problema e non faccio niente, ma così non sono cittadino, e la lamentela». La democrazia, infatti, è più che mai indispensabile, perché chiamata a decidere su questioni capitali concernenti la vita, la sua generazione, la morte, la libertà, la giustizia sociale, la pace, l’ambiente. Queste scelte richiedono giudizi morali e non solo strategici. Collocare la nostra pastorale in un orizzonte ampio ci aiuta a definire con più precisione i problemi dell’evangelizzazione.

    Parole piene

    L’emergenza educativa è legata alla perdita dell’autorevolezza. Non è immaginabile l’educazione senza l’obbedienza, la disponibilità a porre fiducia in chi educa. Come si può imparare la virtù dell’obbedienza (e non l’adeguamento al volere degli adulti) se non c’è più la virtù dell’autorità? Lo dice anche l’etimologia delle due parole: l’ascolto (obbedienza) presuppone qualcuno che dica parole capaci di far crescere (autorità). Non devono essere solo spiegazioni strumentali o descrizioni informative, ma “parole piene” (J. Lacan), parole che “fanno cose”, che sviluppano autonomia. Le parole piene dicono la sostanza delle cose, la chiacchiera invece “gira a vuoto”. L’autorità fa crescere, la chiacchiera fa regredire. Quando la famiglia perde la sua funzione educativa, che consiste nel dare significato alla sana dipendenza filiale e senso al limite, l’obbedienza è vissuta solo come restrizione e impedimento. Avviene così anche per le istituzioni: quando i legami s’indeboliscono e viene meno la loro protezione, la vita collettiva è sentita come pura oppressione. Si alimenta in questo modo la crisi della legalità, che minaccia le società, l’anomia dei comportamenti collettivi e, parallelamente, la perdita di autorevolezza degli educatori e il conseguente disorientamento di figli, allievi, cittadini. L. Irigaray sostiene che la relazione tra le persone ha bisogno di uno spazio dove preparare l’incontro. Questo spazio è allestito dal silenzio, dove autorità e obbedienza diventano virtù. Le parole piene sono performative: producono azione, operano una rottura, scavano una separazione, danno origine a un inizio. Il linguaggio esperto chiama, infatti, questa condizione: “iniziazione”. Nelle società passate esisteva un costume che precisava le fasi (un bambino non si vestiva da adulto, a un adulto non erano permessi atteggiamenti infantili). Esisteva soprattutto un’educazione che faceva dell’iniziazione una vera mentalità. Le tappe della vita andavano conquistate. Se si era data una parola, si sapeva di doverla rispettare; se si era sposati si conosceva che cosa questo comportava; quando si era in grado di svolgere servizi e lavori, si dovevano fare. Se ci si diceva cristiani, si apparteneva alla chiesa e si assumevano certi comportamenti e non altri. Oggi i processi di iniziazione non producono più rottura, non si vive più l’irreversibile. Pensiamo all’impermeabilità etica dei nostri adolescenti, la cui socializzazione mostra come la trasmissione culturale, anche quando si tinge di un recupero del “religioso”, sta avvenendo fuori da ogni riferimento cristiano. Senza rottura, però, non si percepisce il senso del definitivo, non s’impara a scegliere.

    Una pastorale popolare

    È la parola autorevole che fa crescere; non quella autoritaria che si impone o quella falsamente tollerante, che si rivela incapace di diventare forza educativa. Stiamo attraversando la “seconda rivoluzione individualista” (G. Lipovetsky) che inibisce l’esigenza naturale di stringere legami, di formare un popolo. La fortissima spinta a badare a se stessi concentra tutto sul presente e strappa l’individuo dal radicamento popolare. Così preclude però anche la strada al futuro. Le parole essenziali dell’educazione, infatti, sono prese dal passato per essere tradotte nel presente e adottate per immaginare e costruire il futuro. I caposaldi dell’educazione, per esempio: obbedienza, sacrificio, amorevolezza, ci sono dati dalla tradizione. Se però non fossero assunti e attualizzati secondo l’originalità dell’attuale cultura, rimarrebbero inutilizzabili. La tradizione s’interromperebbe, ma neppure il presente sarebbe pensabile. È possibile educare senza la fiducia che dispone all’obbedienza? senza la rinuncia alla pulsione della gratificazione istantanea? senza l’accompagnamento di chi ci vuole bene?
    Nella pastorale, il processo è ancor più evidente. Secondo la metodologia suggerita dalla Gaudium et Spes (n. 4,9,11): si assume il presente, si purifica la realtà alla luce della Parola di Dio (passato) per elevarla alla dimensione autenticamente umana (futuro).
    Il primato della pastoralità di papa Francesco suggerisce di ritornare all’esperienza popolare. È in questo ambiente vitale che si osserva la pazienza di tante donne e uomini che fanno il loro dovere, che servono la vita, che si mettono a disposizione dei più svantaggiati. «L’immagine della Chiesa che mi piace è quella del santo popolo fedele di Dio […]. L’appartenenza a un popolo ha un forte valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo». (Dall’intervista alla Civiltà cattolica). È ancora il Concilio, infatti, a proporre l’idea di Chiesa come popolo, come comunità di tutti i battezzati. Diventare popolo è un lavoro lento e arduo, ma garantisce la libera costruzione dell’autonomia personale. La debolezza delle appartenenze collettive, invece, genera risentimento e angoscia. Gli individui si sentono come traditi: si attendevano molto e ottengono poco, hanno l'impressione di dover pagare un prezzo troppo alto di rinuncia al proprio sentire, senza capire il perché. Le società diventano insicure e rischiose, il mondo inospitale, le famiglie si trasformano in case-albergo.

    Una pastorale giovanile intergenerazionale

    La pastorale popolare è intergenerazionale. Supera definitivamente il “presentismo”, accoglie il passato, lo trasforma in futuro. La società odierna è definita “individualista” poiché l’individuo è considerato sovrano. Il legame sociale è oggetto di scelta reversibile, anche in campo amoroso. La sofferenza psicologica e affettiva, però, non è mai stata tanto diffusa e profonda quanto nella società opulenta. Le paure attanagliano le persone, le quali cercano di nascondere fragilità e difetti, proiettandoli sugli altri. Il rimedio che previene la solitudine e impedisce di cadere in balia di pulsioni cieche sono i legami familiari, particolarmente nella prima infanzia. Papa Francesco chiede che si parli tanto della famiglia, che si sviluppi una discussione ampia e aperta sui suoi problemi, che si avvii un nuovo ed efficace processo storico per rinsaldare il rapporto tra la Chiesa e le famiglie, così fragili e provate oggi.
    L’adolescenza e la giovinezza sono l’età dell’amore, esperienza sorgiva della famiglia. Il romanticismo ha esaltato l’immediatezza della passione, ha raccontato l’amore come forza ingovernabile, capace di fondere due vite in un’unità gioiosa, fulminea, magica. Questa simbiosi unificante suggerisce l’idea dell’eros come necessità fatale, parla della passione come “malattia d’amore”. Diversa è la descrizione dell’amore nella cultura popolare dei legami e dei mondi vitali delle relazioni amorose. Ciò che è divino nell’amore non è lasciato al sogno ma si cerca di realizzarlo nella concretezza della quotidianità. Questa corporeità dell’amore è un dono del cristianesimo, in cui Dio è amore fatto carne, e Cristo è la manifestazione divina, piena e clamorosa, dell’amore nella storia umana. Oggi non possiamo amare come facevano i trovatori o come i romantici. Amiamo attraverso la mediazione simbolica caratteristica del nostro tempo e della nostra società. I giovani sono attaccati alla famiglia più che in passato. La idealizzano e si attendono molto da essa. Ciò che potrebbe sembrare disaffezione alla famiglia (ad esempio tassi più bassi di matrimonio), a uno sguardo più attento significa, invece, un’attesa più elevata nei suoi confronti. I valori familiari però non possono più essere presupposti, diventano un compito, una responsabilità. Nella cultura precedente la stabilità dell’amore era posta a garanzia della responsabilità verso l’altro. Oggi il rapporto si rovescia: la responsabilità di fare famiglia comporta il compito cercarne la stabilità. I legami della fiducia che si radicano nell’amore familiare devono però estendersi fuori della famiglia, nella solidarietà sociale, dove avviene la costruzione del futuro. Questa esigenza, particolarmente avvertita oggi, è espressa con il termine nuovo di “genitorialità” che ingloba e supera il concetto tradizionale di famiglia e stimola un mutamento di prospettiva. Essa comporta un'assunzione di responsabilità verso i piccoli e i giovani, anche fuori dallo stretto ambito familiare. Genitorialità è anche la comunità educativa dell’oratorio.

    Parole profetiche

    La nuova condizione giovanile è drammaticamente senza futuro. L’esclusione sociale assume forme diverse e molteplici sul versante dell’economia come su quello dei diritti e della solidarietà. Lo squilibrio generazionale rende non solo la società più iniqua ma anche meno dinamica. Il futuro, che ha sempre rappresentato una promessa, oggi si è trasformato in minaccia. La libertà diventa così una prigione. La festa della bell’età sembra guastarsi: molto divertimento, scarsissima possibilità di lavoro, di realizzazione, di avvenire. È un divertimento però senza piacere, perché senza protagonismo: per questo proliferano i mondi virtuali, chimici o elettronici.
    Anche la pastorale è minacciata. Si rischia di scivolare, inavvertitamente, nella parrocchia autoreferenziale e sterile: “Il futuro non riserva nulla di buono, la speranza di cambiamento è cosa da ingenui, conta solo l’emozione nel presente”. Nella pastorale giovanile chiusa, che rinnega la “chiesa in uscita” di papa Francesco, prevale il mito dei “pochi ma buoni”, del “piccolo è bello”. I giovani stanno diventando una risorsa scarsa: il loro contributo è indispensabile per rilanciare lo sviluppo del paese e per rinnovare la stessa pastorale.
    Parole profetiche sono quelle che intuiscono il futuro che Dio sta preparando, i sentieri verso i quali sta chiamando la storia, perché prevalga l’amore sull'indifferenza. La sfida che oggi occorre raccogliere per affrontare il futuro consiste nel prefigurare un modello di ordine sociale nel quale l’efficienza del mercato, l’equa ridistribuzione della ricchezza, la reciprocità che si sviluppa nei mondi vitali della società, possano rinforzarsi mutuamente, senza escludersi né oscurarsi. L’educazione è una risorsa essenziale, e la fede, un’indicazione e una forza, in questa sfida urgente.
    La testimonianza della fede può essere resa solo a condizione che l’obbedienza al vangelo liberi i giovani credenti da ogni ricerca di complicità dei pari, marchi una differenza, crei una rottura con il “così fan tutti”, induca un “disadattamento”, che a volte richiede un caro prezzo. Nella parabola degli invitati alle nozze Gesù è stato chiaro: "Amico, come sei entrato qui senza avere un abito di nozze?" (Mt 22,12)


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