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    Preadolescenti, adolescenti e giovani. Per un vocabolario di pastorale giovanile




    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2015-04-14)


    1

    Iniziamo raccontando una storia che inizia in un campetto di calcio di periferia, al centro del quale un ragazzino sta compiendo uno strano rito: “raccatto un grosso sasso piatto e vado dritto al centro del campo di calcio. Proprio dove danno il calcio d’inizio. (...) Con il sasso piatto ritaglio un rettangolo d’erba. Scavo una buca da becchino, precisa e liscia. (…) Apro la mia scatola e poso i soldatini Mokarex uno per uno, in piedi in fondo alla buca. Lo faccio senza guardarli, senza abbracciarli, senza nemmeno soppesarli nella mano. I soldatini Mokarex e tutte le loro storie sono il mio tesoro, li ho trovati tra i chicchi e li nascondo nella terra. Così un giorno sarò costretto a tornare e a comprare il Campo di Nessuno (...) Anche se non potrò comprarlo, potrò tornarci con la memoria. La memoria è il Campo di Nessuno. Non potranno mai prendermela” 1]. Quella che viene narrata con queste parole è la fine di un’infanzia, ritualizzata in modo straordinario dal piccolo protagonista con un vero e proprio funerale. L’infanzia è il regno del “prima” rispetto a ciò di cui stiamo parlando. Quando parliamo di giovani, facciamo riferimento ai due unici dati biologici che lo sviluppo umano ci presenta: la pubertà, ovvero la fine dell’infanzia e l’inizio dell’invecchiamento, attorno ai 25 anni, ossia l’ingresso a pieno titolo nel mondo adulto. È assai curioso che in mezzo a questi due dati, separati da poco più di 13/14 anni, abbiamo tre parole (preadolescente, adolescente, giovane) per definire lo stesso essere umano che poi per tutto il resto della sua vita sarà cristallizzato in una sola, monolitica definizione: “adulto”.

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    Occorre dunque fluidificare le prospettive e non proporre un modello di sviluppo troppo rigido, Possiamo allora pensare, parlando dei nostri tre termini, non tanto a tre età in senso diacronico, che si succedono l’una all’altra e l’una nell’altra si annullano (una rappresentazione tutto sommato piuttosto convenzionale e rassicurante, nella quale il passato è definitivamente lasciato alle spalle: chiunque abbia vissuto momenti di crisi profonda sa che non è affatto così) ma come istanze psicosociali in compresenza e in sempre nuovo equilibrio, come se l’adolescenza non superasse/completasse la preadolescenza ma le si affiancasse, permettendo regressioni, recuperi, ritorni all’indietro. In quest’ottica useremo anche la metafora del cantiere e delle stelle, intendendo per “cantiere” ciò che ogni età della vita vuole/può fare concretamente per modificare il reale, per “stelle” il desiderio di trascendenza e la spinta all’Oltre, al mistero, al divino.

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    Come si vede chiaramente da questa immagine, rispetto alla quale abbiamo qualche attimo di esitazione a proposito del genere, la preadolescenza è caratterizzata da ambiguità e polisemia. Occorre sempre tenerne conto perché spesso questa caratteristica si scontra con la fretta di classificare e l’ansia definitoria propria del mondo adulto: chiedere a un preadolescente di essere così-e-non-altrimenti significa chiedergli di non essere preadolescente (anzi, per certi versi significa chiedergli di non essere umano!). Per il preadolescente la vicinanza temporale all’infanzia significa da un lato un prolungamento della dipendenza dai genitori e dagli altri adulti che “non vedono che sono cresciuto”, dall’altro una nostalgia a volte davvero profonda e struggente per quei lidi dell’infanzia che almeno a livello biologico sono stati per sempre abbandonati e per il ruolo di protezione che gli adulti giocavano nei confronti del bambino.
    Sono proprie dunque della preadolsescenza la fragilità e vulnerabilità (e la vergogna per queste dimensioni, soprattutto in una società come la nostra che sembra patologizzare ogni forma di debolezza) e l’inizio della ricerca della sessualità (nelle prime attività masturbatorie) che è da intendersi ancora come ricerca su di sé, ripiegamento narcisistico del tutto fisiologico.

    4
    Il cantiere del preadolescente, ovvero il suo rapporto con il mondo, prevede comunque allora l’ideazione di progetti che hanno comunque dentro sé parte del mondo magico dell’infanzia (e non si capisce tutta la fretta che gli adulti dimostrano nel chiedere ai ragazzi di abbandonare questa dimensione). Ciò non significa affatto che il preadolescente sia un semplice sognatore (cosa poi ci sia di male in questo non sappiamo) né che creda ancora agli aiuti magici che il mondo della fantasia offre al bambino. Ma questa dimensione magica viene comunque recuperata sotto forma di superstizioni, rituali, credenze mai ammesse del tutto: dimensioni che sarebbe un gravissimo errore patologizzare. Le stelle, ovvero il rapporto con il trascendente, saranno invece caratterizzate in modo forte dal tema della morte, perché il compito evolutivo del preadolescente è proprio quello ritualizzato dal ragazzino nel campo di calcio cercare di fare un buon funerale alla propria infanzia. Dunque parlare di Dio a un preadolescente significa prima di tutto parlargli di morte, del senso della morte, dei riti a proposito della morte, perché mai come in questa età il desiderio di morte è forte e mai viene così tenacemente e fortemente negato da parte degli adulti.

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    È invece propria dell’adolescenza l’attenuazione dei caratteri di indifferenziazione visti precedentemente: inizia con l’adolescenza il lento percorso verso una identità che non può mai essere intesa come definitiva e monolitica ma certo inizia a perdere la costitutiva ambiguità e polisemia propria degli anni precedenti. L’adolescente inizia a capire che cosa significhi essere maschio o femmina, nel senso profondo e non solo anatomico del termine: inizia cioè a confrontarsi consapevolmente e criticamente con i ruoli di genere che si sovrappongono (mai del tutto e mai completamente) alle identità sessuali cromosomiche e/o anatomiche.
    L’adolescente si caratterizza per l’assunzione (spesso stravolta) di miti, rituali e comportamenti adulti: in questo senso allora l’adolescente è il vero specchio dell’adulto, perché la sua cultura è la cultura adulta rispecchiata, graffiata, scimmiottata. A differenza di altri colleghi io non credo che esista qualcosa come una cultura adolescenziale, se non come appunto restituzione deformata dei tratti della cultura adulta (e in questo senso allora parlare di cultura adolescenziale autonoma ha un forte tratto consolatorio e autoassolutorio: i ragazzi della Curva Sud hanno inventato una cultura violenta, non ci stanno restituendo a modo loro la nostra violenza adulta).
    L’adolescente è poi sgomentato e spaventato dal fatto che diventare adulto significa anche essere cosciente del proprio potere di fare del male: è cioè angosciato dalla scoperta del potere di tradire, di distruggere, di uccidere. Il giovane Caino diventa adulto e il suo gesto iniziatico è l’uccisione del fratello; da qual momento vagherà di città i città e il vero marchio che porterà in fronte sarà la consapevolezza del potere omicida che è connaturato all’essere vivente. La scoperta della vulnerabilità dell’altro (la propria era già stata scoperta prima, nella preadolescenza) può ovviamente portare alla erezione della violenza come stile di vita o alla scelta della compassione e della condivisione delle proprie fragilità con quelle altrui: e sono ovviamente i modelli educativi a risultare dirimenti.

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    Il cantiere dell’adolescente presenta progetti di cambiamento dell’esistente che tengono maggiore conto della realtà rispetto a quanto accadeva nella preadolescenza: i progetti dell’adolescente hanno una loro concretezza, sono meno magici (il che non significa affatto che siano meno utopici, utilizzando il termine nella sua accezione positiva) tengono maggiormente conto del contesto e della materialità del reale ma proprio per questo non possono fare a meno della necessità dell’errore. È piuttosto sconcertante peraltro come l’errore sia considerato una specie di colpa morale, qualcosa cui dare la caccia, qualcosa da stanare e da punite quando poi il proverbio “sbagliando s’impara” viene ripetuto continuamente senza in realtà applicarlo. L’errore è la strada forzata per l’adolescente che proprio quando sbaglia incontra la durezza della realtà e impara a modellare su di essa i propri progetti; la cosa importante è che l’adolescente colga la differenza tra l’errore che è insito nel suo progetto e l’errore che albergherebbe in lui/lei. Ovvero: è il tuo progetto ad essere sbagliato, non sei tu ad esserlo, è il compito di latino a valere 4 , non tu, è il muro ad essere caduto, non può insieme ad esso cadere la tua autostima.
    Le stelle invece parlano all’adolescente del suo desiderio di infinito: non tanto un infinito di tipo matematico o geometrico ma piuttosto un infinito esistenziale e metafisico, un infinito che è dentro di noi e che ci prevede come sua parte; l’infinito dei testi di Bruno, dei raccontini Borges, dei quadri di Escher. In questo senso allora è proprio dell’adolescente anche il desiderio di giustizia (una giustizia assoluta e perfetta, infinita anch’essa e quasi divina) e di una dimensione incontaminata, pura, utopica nella quale vivere. Per questo motivo inoltre sono tipiche dell’adolescenza le grandi domande di senso, poste con assoluta intransigenza e a proposito delle quali piuttosto che fornire risposte stereotipate (o addirittura non-risposte: “queste sono scemenze giovanili, pensa a crescere) occorre insegnare a tenere aperta la domanda, a rimanere nella dimensione dell’enigma e del mistero.

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    È molto difficile definire un giovane o una giovane ed è impossibile farlo senza riferirsi a una dimensione sociale: forse la parola “giovane” dovrebbe essere utilizzata come aggettivo, per designare il “nuovo arrivato” in una determinata situazione; un nuovo giunto che proprio in virtù del sua sguardo vergine riesce a vedere gli errori e le imprecisioni nonché le incoerenze nelle pratiche apparentemente scontate. Lo diceva con grande forza Pasolini: “una parola, giovani, che scientificamente, non significa quasi nulla eccetto che nel campo biologico. Mi sembra perciò illecito generalizzare parlando di giovani: mi sembra un residuo romantico, dolciastro e adulatorio: ci sono dei giovani uomini e delle giovani donne (...) ci sono dei giovani 'lavoratori', ci sono dei giovani 'borghesi', ci sono dei giovani 'capitalisti (o meglio figli di capitalisti) ci sono dei giovani 'sottoproletari' (...) Ci sono poi i giovani del Nord e i giovani dei Sud (…) L'unica cosa che si può dire 'in generale' di loro è che sono molto meglio dei grandi. Purtroppo poi crescendo, peggiorano quasi sempre: accettano, o adottano, il mondo dei grandi, i loro compromessi, le loro ipocrisie, i loro conformismi, la loro aridità, la loro superficialità ecc.” [2].
    Il giovane è però biologicamente e socialmente adulto, anche se il processo di infantilizzazione della gioventù sembra una caratteristica di molte istituzioni. Cosa significa psicologicamente che un 18enne che può votare, può fare la patente, viene giudicato da un tribunale per adulti se delinque ma a scuola deve ancora alzare la mano e chiedere il permesso per poter andare in bagno? Cosa significa per i giovani la schizofrenia adulta che va da un eccesso di attesa (per il mondo del lavoro un 18enne è troppo giovane) a un eccesso di fretta (lo stesso 18enne al provino dell’Inter verrebbe considerato irrimediabilmente troppo vecchio)?
    Il giovane dunque ha bisogno di giocare ruoli adulti, proprio quelli che il mondo adulto non offre ai giovani: non possiamo qui fare a meno di riferirci alle cosiddette “politiche giovanili” che, quando non considerano la gioventù un “problema” o i giovani i “cittadini di domani” si limitano a blandirli offrendo loro spazi per qualche sala-prove in cambio di qualche consenso elettorale. L’adolescenza è politica in tutto un altro senso; non esistono le politiche giovanili, ma semmai dovrebbe esistere una politica che considera le proprie categorie come criticabili e ridefinibili a partire dalle considerazioni dei giovani.

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    Il cantiere dei giovani prevede allora la freschezza del contributo del nuovo arrivato che non si caratterizza solo nella possibilità di pensare a nuovi progetti ma soprattutto nella capacità di vedere le falle, le alternative, le incoerenze. Il giovane in ogni organizzazione dovrebbe costituire la linfa vitale, non per gettare via o rottamare il vecchio (si è poco riflettuto sul carattere violento dell’utilizzo del termine “rottamazione” rivolto ad esseri umani, una declinazione prossima a certo linguaggio fascista o nazista) ms per far sì che il vecchio medesimo rifletta su di sé e veda le proprie manchevolezze. È del tutto ovvio che il giovane critichi l’esistente e rinfacciargli la sua mancanza di esperienza significa chiudere la possibilità di un cambiamento, come ogni gerontocrazia ha fatto nel corso dei secoli.
    Per il giovane, le stelle si presentano come un desiderio di trascendenza come liberazione dal rischio di sclerotizzazione nel ruolo, come zeppa messa in un ingranaggio che il cinismo e il nichilismo adulti nascondono dietro la coppia di frasi: “È sempre stato così” – “Sarà sempre così”. La trascendenza è liberazione dal cerchio magico del destino, sogno di una possibilità nuova; una concezione squisitamente biblica, assolutamente coerente con YHWH che apre il ciclo del tempo e con l’incarnazione che dice un nuovo inizio e inaugura una nuova storia. Per il giovane dunque la trascendenza è anche immanenza assoluta, il divino è, come nell’Esodo, apertura della storia, orizzonte della libertà, possibilità di salvezza, teologia della liberazione.

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    Ma quando si diventa adulti? Probabilmente una delle caratteristiche dell’adulto “sufficientemente buono” per dirla con Winnicott, è la consapevolezza della inevitabilità dell’essere modelli . Ce lo ricorda una straordinaria pagina di Franz Kafka: “spesso ci rifletto e sempre devo dirmi che la mia educazione mi ha nociuto molto in parecchi punti. Questo rimprovero va contro una quantità di persone (…) ci sono i miei genitori, alcuni parenti, alcuni maestri, una determinata cuoca, alcune fanciulle delle lezioni di ballo, alcuni frequentatori della nostra casa in epica precedente, alcuni scrittori, un maestro di nuoto, un bigliettaio, un ispettore scolastico, poi alcuni che ho incontrato una sola volta per la via, e altri che in questo momento non riesco a ricordare e taluni che non ricorderò mai, e infine altri del cui insegnamento essendo allora distratto da qualche cosa non mi sono accorto, insomma sono tanti che bisogna stare attenti per non nominarne uno due volte.” [3]
    Volta al positivo la pagina kafkiana ci richiama alla necessità di educare e soprattutto a quella che è forse la caratteristica peculiare dell’adulto, ovvero la generatività; non intesa in senso meramente biologico (anche l’adolescente è in grado di procreare) ma nel senso di una assunzione piena, come ruolo e come compito, del dovere si trasmissione intra-generazionale che non è ovviamente limitato alle sole figure genitoriali o ai soli insegnanti. Ma qui il cantiere e le stelle si uniscono, perché non c’è trascendenza senza la fatica di educare così come non c’è educazione al fare senza riferimento all’oltre. E infine, non esiste un giovane senza un adulto che lo pensa, lo ama, lo odia, o ignora, oppure svolge con lui il compito che gli proviene dall’assoluto dovere di educare

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    E una dimensione pastorale è qui ineludibile un riferimento al Libro, quel Libro dimenticato non solo e non tanto dai laici (al contrario, è un dato diffuso l’interesse crescente dei laici alla Bibbia) ma dalla stessa pastorale e dalla catechesi che spesso si caratterizzano per una vera e propria fuga dalla Scrittura se non per una scarsa conoscenza della stessa. Non crediamo affatto che si debba tornare o passare a una sorta di bibliolatria ma non è nemmeno pensabile che il codice fondamentale di una tradizione religiosa sia ignorato o presentato con atteggiamenti antiquari. Per esempio, presentare l’episodio dell’emorroissa a un gruppo di ragazzine di 15 anni chiarendo finalmente che la donan era affetta da dismenorrea ovvero da continue mestruazioni significa anzitutto dire la verità senza nasconderla dietro un termine desueto (e non si vede perché ci debba essere pruderie nel commentare un passo che non ne ha affatto) ma soprattutto calare il testo nella realtà quotidiana, immediata e caratteristica delle ragazze in questione. Il tema della purezza (la donna era impura tutti i giorni dunque non poteva praticamente avere una vita sociale) certo centrale ma per le ragazzine Gesù verrà ricordato e amato come colui che ha liberato una donna come loro da un imbarazzo che gli uomini possono solamente intuire. È solo un esempio di come la fuga dalla forza antropologica del testo biblico si possa fare anche a libro aperto. Non si può dire, dopo il Vaticano II, che tutte le verità e tutta la verità sono nella Bibbia (cosa che aveva poco senso anche prima e che è stata una delle dannazioni della Chiesa fino al XX secolo), ma non si può neppure ignorarne il messaggio; che in fin dei conti, fin dall’Esodo, è una esortazione a un popolo preadolescente, adolescente, giovane perché diventi adulto e aiuti i suoi piccoli a fare lo stesso: “Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città.” (Deut. 6,6-16)


    NOTE

    [1] D. Picouly, Il campo di nessuno, Milano, Feltrinelli, 1998, pag. 145
    [2] Pasolini, I Dialoghi, Roma, Riuniti, 1992, pag. 86
    [3] Franz Kafka, Diari 1910-1923, Milano, Mondadori, 1953 pag. 9


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