Franco Miano
(NPG 2015-04-24)
Le mie considerazioni muovono da due convinzioni di fondo.
La prima: non possiamo non partire dal desiderio di famiglia che è nel cuore di ogni giovane, di ogni persona. Questa affermazione non è un dato apodittico: è una verità che cogliamo nell’esperienza viva di ciascuno che è impegnato nel servizio educativo. Ciascuno porta con sé i segni della sua famiglia, il desiderio di un amore più grande, un desiderio insopprimibile di comunione, anche quando si vive una condizione di forte difficoltà e problematicità. Questo desiderio ha a che vedere con l’essere stesso dell’uomo, è iscritto nel cuore dell’uomo.
Accanto a questa, l’altra convinzione iniziale è che le esperienze di famiglia che viviamo sono esperienze contraddittorie: nei ragazzi che incontriamo avvertiamo il desiderio della famiglia ma tocchiamo anche i limiti della vita delle nostre famiglie e, prima di tutto, l’incoerenza degli adulti, un dato davvero problematico nel rapporto educativo: quell’incoerenza che va dall’incitare i figli a fare quello che come adulti non si fa e non si vuole fare, a forme ancora più problematiche e talvolta devastanti.
Il servizio degli educatori e degli animatori impegnati a diverso titolo nel campo educativo con i giovani è un servizio che fa i conti con questa duplice polarità: le difficoltà rinvenibili nel vissuto di tante famiglie da un lato, e dall’altro l’insopprimibile desiderio di famiglia, di una comunione piena, di una esperienza relazionale autentica. Se quest’ultimo dato fosse spento, vi sarebbe una sconfitta dell’umano e nella sconfitta dell’umano il venir meno della capacità di aprirsi a Dio.
Questa doppia consapevolezza ci sollecita a mettere insieme verità e misericordia, mettere insieme la verità, il racconto grande del Vangelo della famiglia da continuare a testimoniare, e nello stesso tempo il sapere guardare con sguardo amorevole le situazioni di sofferenza e di fatica di tante famiglie. Un punto d’equilibrio difficile da cercare continuamente.
Un dialogo irrinunciabile
A partire da queste considerazioni appare ancora più irrinunciabile il dialogo tra animatori e famiglie. Tale dialogo, spesso solo auspicato e poco realizzato, ha come obiettivo la necessità di concorrere ad una formazione armonica e globale della persona del giovane, cosa di cui si avverte l’urgenza in un tempo particolarmente segnato dalla frammentazione. Sappiamo che in certi casi questo dialogo è particolarmente difficile, in altri casi è addirittura impossibile. Vi sono casi in cui le contraddizioni sono davvero laceranti. Ma tendere ad una formazione globale è anche aiutare a saper stare nelle contraddizioni, a cercare un punto d’equilibrio nelle difficili dinamiche della vita. Questo vale rispetto alla famiglia, ma naturalmente anche per la scuola, per ogni campo della vita. Oggi la pluralità di istanze a cui ciascuno è sottoposto richiede continue alleanze a livello educativo, continui scambi, e la ricerca continua di nuovi punti di equilibrio. Ma con una chiarezza di finalità, un orizzonte chiaro: la formazione della persona ad una vita buona, una vita bella, armonica.
Diventa imprescindibile allora la conoscenza diretta delle situazioni delle famiglie dei ragazzi e dei giovani che ci sono affidati (ormai sempre più varia e differenziata) e la relazione cordiale con le famiglie stesse. C’è bisogno di un di più di ascolto: anche la riflessione recente del Sinodo ha messo in evidenza la centralità dell’ascolto. Parole come dialogo, ascolto etc., fanno parte del nostro dizionario quotidiano ma quello che apparentemente sembra ovvio e scontato si rivela spesso nella prassi pastorale molto meno ovvio. Quanti muri da abbattere, quante incomprensioni da superare! Recuperare il senso e il desiderio di un impegno di relazione cordiale con le famiglie non è un impegno secondario dal punto di vista del servizio educativo. Non possiamo pensare di separare la vita delle persone che indirettamente o direttamente ci vengono affidate dall’esperienza da cui provengono, perché quell’esperienza li ha generati e, per certi versi, li continua a generare nel bene e nel male.
Allo stesso modo non possiamo pensare di separare l’esperienza del gruppo da quella della comunità. La più grande tentazione che può colpire un gruppo è l’autoreferenzialità. Laddove il valore dell’esperienza di gruppo è invece sempre nella capacità di aprirsi oltre se stesso, sentendosi espressione di una comunità. Così è anche per gli educatori e gli animatori. Nel servizio che compie, ognuno è nella vita di una comunità, mandato da essa. Parliamo di un dato di sostanza: ognuno di noi è inviato, il suo compito viene dalla comunità e alla comunità ritorna. Questo ci rende più responsabili e insieme più liberi perché sappiamo che le persone che ci sono affidate sono affidate a tutta la comunità. Ancora una volta, non è la logica del frammento, del piccolo pezzettino da curare, ma quella del tutto, della comunità, insieme a cui farsi carico e di cui imparare ad aver cura, la logica che deve guidare il nostro impegno. E quello che vale in un’ottica ecclesiale, vale anche rispetto alla vita della società.
Il dialogo animatori-famiglie si inscrive nell’ordine di quel più ampio dialogo intergenerazionale su cui si regge la trama delle nostre comunità cristiane e della stessa società, ed è preziosa opportunità per favorire una condivisione in famiglia dei cammini di fede e imparare a crescere insieme. Educatori e animatori sono al servizio di questa trama d’incontro tra le generazioni. È questo un supporto importantissimo alla formazione della persona, ma anche un contributo alla costruzione della comunità ecclesiale e della società. E qui il tema della responsabilità degli adulti è naturalmente decisivo. Ogni generazione ha da portare un dono alla vita della comunità e della società, ma ad ogni generazione dobbiamo consentire di farlo. Da questo punto di vita il compito degli educatori, degli animatori, è un compito rilevantissimo perché è il compito di una responsabilità che apre verso il futuro.
Un patto "al rialzo"
Questi criteri di fondo si coniugano con alcuni impegni che in un modo o in un altro diventano impegni propri degli educatori e degli animatori nel rapporto con la famiglia. In modo molto schematico possiamo dire che è necessario prima di tutto che educatori e animatori evitino di stabilire, più o meno implicitamente, con la famiglia quello che si potrebbe chiamare un patto al “ribasso” volto ad ottenere semplici forme di “rassicurazione”. Ci sono casi in cui l’esperienza ecclesiale può giocare semplicemente il carattere rassicurante dell’avere un luogo più o meno protetto in cui vivere. Non è questo il senso di quella scommessa verso il futuro di cui parlavamo. La comunità ecclesiale dovrebbe essere luogo da cui si sprigiona novità di vita, in cui non ci può essere nessun patto al ribasso ma un patto al rialzo, in termini, ad esempio, di coerenza tra fede e vita, di capacità di mettere in pratica le parole in cui crediamo, capacità di lottare contro il male, far crescere il bene, capacità di costruire una società nuova. Il vero patto con le famiglie dovrebbe essere al rialzo per un cambiamento sociale effettivo. Evitare un “patto” al ribasso vuol dire contribuire a superare quel deficit di speranza che corrode la vita delle famiglie perché solo così si è davvero aperti al futuro.
Questo chiede anche di porsi il problema di come, a partire dai ragazzi, dagli adolescenti, dai giovani, le famiglie possono essere provocate a recuperare spazi possibili di nuovi cammini di fede. A volte dipende dai genitori la possibilità che i ragazzi facciano un cammino di fede. Ma sempre più sta capitando il contrario, e cioè che attraverso i figli la comunità trova spazi di dialogo coi genitori. Quanti genitori sono tornati a frequentare la comunità ecclesiale grazie ai figli. Questo è un elemento sul quale va fatta molta attenzione proprio nell’ambito di quella capacità di relazione cordiale che, grazie agli educatori e agli animatori, la comunità cristiana è chiamata a intessere con le famiglie.
Un’ ultima considerazione. Il grande tema che unisce tutti è la necessità di riscoprire un senso vocazionale della vita. Se c’è una cura di educatori e animatori per adolescenti e giovani, questa è in virtù di un dono che avvertiamo come nostro proprio, di un dono che ci è stato fatto e che mettiamo a disposizione dell’altro. Ci sono alcune parole che hanno a che vedere col senso vocazionale della vita, che vanno rilanciate sia nella riflessione sia nella pratica dell’esistenza: parole come dedizione, fedeltà, parole che hanno a che vedere con la capacità di riscoprire ogni giorno il senso vivo della propria vocazione. Un educatore, un presbitero o una religiosa, felici di essere ciò che sono, e che vivono in pienezza il proprio compito, sono provocazione per una coppia di coniugi a vivere fino in fondo il senso del proprio amore e del dono ricevuto col sacramento del matrimonio. Oggi le famiglie hanno bisogno di persone che raccontino nuovamente con la vita che è possibile amare incondizionatamente. L’educatore, l’animatore, prima ancora di essere impegnato in un servizio che ha livelli di competenze da attivare, dialoghi e sinergie da mettere in campo, ha una testimonianza da dare: che la vita è bella perché la si spende bene e che la si spende a partire da un unico grande dono ricevuto. Una testimonianza che è provocazione per tutti, anche per la vita delle famiglie.