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    LA PROGETTAZIONE PASTORALE

    Michele Falabretti

    (NPG 2015-04-62)

    “Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo?” (Lc 12, 56)

    Quante volte, nella fatica quotidiana di educare i giovani a trovare se stessi e il proprio posto nel mondo, si affaccia in noi quel barlume di speranza che sia sufficiente a dar loro un po’ di affetto? Ci si sente impotenti e un po’ disorientati davanti alla contemporaneità. Eppure è di Gesù, mica il primo che passa, l’invito a imparare a leggere i segni per poter valutare il proprio tempo. Condizione fondamentale per trovare una direzione e uno stile; per non trasformare la dinamica missionaria che papa Francesco chiede alla Chiesa in un affacciarsi scomposto alle periferie presi dalla smania di uscire; per mantenere un giusto equilibrio tra l’apertura ai giovani in difficoltà (che magari sembrano aver chiuso con il cristianesimo) e la cura dei cammini ordinari di chi c’è ed è chiamato a non essere autoreferenziale.a progettazione Noi non possiamo dimenticare che viviamo un tempo segnato dalla complessità: stare nel mondo (pur senza l’evangelico “appartenervi”) chiede intelligenza e capacità di orientamento. Stare nella complessità non significa abitare il mondo come se fossimo perennemente in un luna park dove si va girovagando senza una meta precisa; non vuol dire sentirsi autorizzati all’improvvisazione.
    “Dio non educa ‘a casaccio’, cioè con interventi educativi saltuari o sconnessi.
    L’azione educativa nella storia è sempre ‘mirata’, anche se non è facile cogliere ogni volta il senso di un singolo intervento.
    Così dovrà essere anche nell’educazione umana, dove la progettualità non significhi far entrare tutto in uno schema rigido, ma avere il senso del fine e delle mete intermedie, e operare con elasticità ed equilibrio, per tenere o riportare in tensione verso il fine i diversi momenti” [1]. Sono parole del cardinal Martini nella sua bellissima lettera sull’educazione.
    Progettare, dunque. Come capacità di leggere la storia, di intuirne le direzioni.
    Come sapienza che discerne e senza paura suggerisce delle scelte. Come coraggio di trovare strade e percorrerle.
    Progettare è far sì che i pensieri precedano le azioni: per essere liberi di costruire relazioni che diano tutta l’attenzione necessaria ai volti e alle persone. È vero, lo dobbiamo riconoscere: la pastorale giovanile in Italia è sempre stata preceduta dalle azioni, più che dai pensieri e dai progetti; all’inizio è stata la sua forza, ma ora non può più essere così. Perché dobbiamo riconoscere che la richiesta dei vescovi, fatta vent’anni fa, che in ogni diocesi ci fosse una pastorale giovanile “organica, intelligente, coraggiosa” [2] non ha ancora visto una sua vera realizzazione, perché ci si fida troppo delle azioni, perché non si ha mai il tempo di fermarsi e pensare a ciò che si è fatto e si farà.
    Uscire sì, dunque. E fino alle periferie. Ma sapendo perché si cammina, a fare cosa e chi deve fare cosa: l’improvvisazione nel cammino non è il pressapochismo del “tanto prima o poi…”, ma il virtuosismo jazzistico di chi ha tutte le note, i ritmi, le scale musicali “in tasca” per giocarle al momento opportuno.

    Il mandato e le premesse

    Il mandato si riceve, nemmeno Gesù parte da solo: “Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi” (Gv 20, 21); è elemento fondativo della vita della Chiesa. Chiunque accetti un compito educativo, lo fa sempre a nome della comunità cristiana da cui è scelto e a cui è chiamato ad appartenere. Questo va ricordato perché è il primo criterio ecclesiale delle azioni di pastorale giovanile.
    E nello stesso tempo fa emergere la necessità di chiarire: quando infatti un vescovo affida a qualcuno il compito di occuparsi della pastorale giovanile diocesana, istituisce un compito (un ufficio, appunto) che in Italia non è sempre chiaro.
    Per capirci, potremmo qui fare una distinzione: esiste nei nostri territori la pastorale giovanile delle iniziative diocesane e la pastorale giovanile nel territorio della diocesi. La prima ha a che fare con gli incontri diocesani (come la Veglia delle Palme), con gli esercizi spirituali o gli incontri presieduti dal vescovo, con la festa degli adolescenti che fanno gli animatori delle attività estive, tanto per fare alcuni esempi. La pastorale giovanile nella diocesi, invece, è quella che si esprime attraverso la vita delle parrocchie; oppure è quella dei gruppi giovanili di realtà aggregative laicali o promossa dalla presenza di comunità di vita consacrata. Fare la pastorale giovanile diocesana significa, fondamentalmente, organizzare degli eventi; sostenere e coordinare la pastorale giovanile nel territorio della diocesi vuol dire promuovere percorsi di riflessione, corsi di formazione, sostenere gruppi e attività che nascono e prendono piede nel territorio.
    Quale è il mandato dell’ufficio diocesano di pastorale giovanile? Organizzare eventi o progettare itinerari? La risposta è semplice: tutte e due le cose, perché l’una non esclude l’altra. Però non è una risposta chiara a tutti: qualche volta il mandato non viene esplicitato, qualche volta le scelte di un vescovo prevedono un’organizzazione più articolata che a sua volta richiede una gestione più complessa. Nessun problema, ci mancherebbe.
    Ma capita di incontrare ancora molti, troppi incaricati che dicono: “Mi hanno messo lì, ma non capisco a fare cosa”. Questo, davvero, non è accettabile: il mandato è il primo passo, non stiamo a dirne l’importanza, ma sicuramente senza chiarezza iniziale è facile che il cammino si fermi presto. E se dobbiamo indicare una priorità, diciamo che è tempo di chiedere a un ufficio di pastorale giovanile di scoprirsi come sostegno alla promozione di cammini educativi, dove la responsabilità è condivisa e diffusa nei territori (parrocchiali o interparrocchiali che siano): questo permette di coinvolgere davvero le ricchezze di un territorio, imparando a compiere una regia attenta, sollecita, fraterna, generosa e generativa, capace di mettere in rete e redistribuire talenti e risorse.
    Forse non è una brutta idea quella di “contrattare” il mandato. Che non significa disobbedire al proprio vescovo.
    Però è importante chiarire e chiarirsi; anche perché attraverso questo confronto è possibile chiedere al vescovo di esplicitare le premesse di un incarico: l’idea di pastorale giovanile, le direzioni e lo stile che intende domandare a chi vi lavora. La pastorale giovanile ha bisogno di uscire dall’angolo un po’ scomodo in cui qualche volta è stata messa, quando è ridotta alla giostra allegra di qualche iniziativa per giovani; ha bisogno di essere collocata dentro un percorso più ampio, integrandosi con quello di tutta la vita pastorale della diocesi.
    Non possiamo dimenticare che la premessa fondativa di ogni azione di pastorale giovanile è permettere all’umanità dei giovani di crescere nel solco dell’umanità di Gesù. Piace molto affidarsi all’espressione “far sì che i giovani incontrino Gesù”: anche questo rischia di essere uno slogan ed è persino ancora troppo poco, perché non dobbiamo dare per scontato che un incontro – oggi – sia di per sé generativo di altro. La pastorale giovanile esiste perché sogna l’umanità di Gesù nella vita dei giovani, ma nello stesso tempo lavora perché se ne creino le condizioni, perché ciò che germoglia abbia la possibilità di crescere, perché ciò che emerge formi la struttura umana delle persone. Tutto questo chiede molti pensieri, molte cure, una dedizione paziente e perseverante.
    E in queste ultime righe c’è il nocciolo del percorso compiuto con gli ultimi due convegni nazionali di pastorale giovanile: Genova 2014 e Brindisi 2015.

    I bisogni e le risorse

    Girare l’Italia significa fare un’esperienza bellissima: c’è una ricchezza che sembra non esaurirsi mai. Mi sembra che questo debba diventare un punto di forza: nessuno è così povero da non avere possibilità o qualche risorsa disponibile; nessuno è così ricco da non avere bisogni a cui, ancora, dare attenzione e risposta.
    La pastorale giovanile assomiglia alle politiche economiche: rispondere a bisogni illimitati (tali sono quelli degli uomini) attraverso la gestione di risorse limitate (che appunto chiedono di essere gestite e destinate). Per questo fanno tenerezza quelle azioni di pastorale giovanile che agiscono per schemi preconfezionati senza interrogarsi sostanzialmente sui destinatari delle attività.
    Senza una seria lettura dei bisogni non si incontrano le persone (è un po’ come cercare di vendere frigoriferi al polo nord: ci puoi riuscire, ma non serve). Senza un’alleanza sul territorio, si diventa autoreferenziali: oggi questo significa essere fuori dal contesto, perché la “società liquida” non è soltanto una bella definizione, ma una chiave che stimola uno sguardo attento e nuovo sul reale. E soprattutto l’autoreferenzialità non è un criterio ecclesiale: è piuttosto assecondare le logiche del mondo che sono quelle del più forte, del più ricco, del più bello. O del prete più originale.
    Valutare bisogni e risorse significa aprire gli occhi sulla realtà in cui si vive: vale la pena ricordare le parole di Paolo VI che al termine del suo testamento, parlando del rapporto della Chiesa con il mondo, dice: “E circa ciò che più conta, congedandomi dalla scena di questo mondo e andando incontro al giudizio e alla misericordia di Dio: dovrei dire tante cose, tante. (…) Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo”[3]. “Studiare il mondo”: un’espressione bellissima perché finalizzata a un rapporto di amore e di servizio; dunque non un interesse di superficie, distaccato o – peggio – strumentale.

    Obiettivi e strategie

    Quando la lettura della realtà è fatta con cura, la decisione di una strategia di intervento educativo efficace e coerente con gli orientamenti di fondo è un’illuminazione che viene quasi di conseguenza e risulta più autorevole, più durevole nel tempo. Si vuole partire dall’aggregazione? Dal gioco o dalla festa? Da una proposta di annuncio e preghiera? Anche queste domande sono una provocazione e fanno parte del discernimento: spesso si liquida la questione con il famoso “pizza e incontro”, che si risolve poi nella lamentela di chi dice che si vede solo la pizza e non la parte formativa.
    Decidere una strategia educativa (e quindi definire con quali mezzi agire con i ragazzi) è molto più che mettere insieme un’attività travestendola con qualcosa di attraente. Decidere le strategie ha molto a che fare con il decidere la meta definendola bene, consapevoli che il cammino è da sognare quanto da percorrere. Ha a che fare con l’essere creativi, con la possibilità di liberare risorse, valorizzare ricchezze; chiede di definire obiettivi che siano raggiungibili (per questo offrire al primo colpo a un gruppo di adolescenti tre giorni di silenzio agli esercizi spirituali, è un po’ come chiedere a chi è sempre vissuto in pianura di scalare il monte Bianco…). Di nuovo mette in gioco uno sguardo capace di riconoscere i giovani per quello che sono: non si può parlare di un dodicenne come si parla di un diciassettenne o di un venticinquenne.
    Il convegno di Brindisi ha provato ad aprire gli occhi su una fatica ancora grande, in pastorale giovanile: riconoscere le fasce d’età con tutte le loro ricchezze e anche con tutti i loro bisogni e fragilità. Ci vuole pazienza, certo.
    Ma il primo servizio alla pastorale e ai giovani è la cura nello sguardo su di loro: uno sguardo capace di accoglierli (e capirli) per quello che sono e non per quello che vorremmo già fossero.
    Proviamo ad esemplificare. Perché offrire il camposcuola ai bambini delle elementari e vederli in fuga dalla stessa proposta (perché già stanchi) quando saranno adolescenti (e l’uscita con il gruppo sarà fondamentale)? Perché permettere ai ragazzi di terza media di fare gli animatori alle esperienze estive (mentre sono ancora coetanei di ragazzi che devono animare), bruciando così la possibilità che facciano crescere le loro competenze e abilità di servizio? Perché barare sulla carta d’identità e iscrivere dei quindicenni alla GMG pensando che sia un’opportunità unica (quando in realtà pochi anni dopo arriverà il tempo per scarrozzare anche loro in giro per il mondo)? Sono cose che succedono; soprattutto dove questa parte di discernimento, di lettura della situazione, di individuazione di strategie e obiettivi graduali è evitata solo per la pigrizia di chi è responsabile delle attività educative.
    Nel capitolo delle strategie vale la pena fare un accenno all’oratorio. In Italia è tradizionalmente lo strumento più efficace per la pastorale con i preadolescenti e gli adolescenti. A patto che rimanga lo strumento della comunità cristiana: l’oratorio non è un mondo a sé; anzi è persino un grande esercizio di articolazione di attività pastorali. Ma nel coinvolgimento di tutta la comunità e in dialogo con il territorio: su questo tutta la nota recente dei vescovi italiani è molto chiara [4].
    È bene poi ricordare gli organi di partecipazione.
    Ha iniziato il livello nazionale; dietro sono venute tutte le realtà locali: si è individuato nella consulta (nazionale o diocesana) l’organo di “governo”.
    In realtà il governo pastorale appartiene agli uffici di curia (di cui fa parte anche l’ufficio di pastorale giovanile), chiamati da anni a una pastorale integrata. Dunque bisognerebbe chiedere alla consulta di essere una consulta: cioè di offrire questo delicato e preziosissimo discernimento che legge la realtà e individua quali strategie mettere in gioco. Ancora: dobbiamo avere il coraggio di confrontarci di più con gli ambiti di vita dei ragazzi: la famiglia, la scuola, lo sport, il tempo libero, la rete e il web. Sono mondi che loro abitano quotidianamente, sono ancora mondi che spesso noi guardiamo con sospetto, come se fossero “avversari”.
    In realtà adolescenti e giovani non ci chiedono il permesso di abitarli, ma vi sono costantemente e contemporaneamente immersi. Oltretutto sono mondi non omogenei, cambiano radicalmente da un contesto all’altro (per esempio fra nord e sud, fra un contesto di città e uno di piccolo paese). Una buona consulta è come avere la parabola: legge e decritta i segnali più complessi, quelli che vengono dai satelliti… La gestione di tutto il lavoro, poi, andrebbe affidata all’équipe organizzativa: un gruppo di persone disponibili a tradurre concretamente i pensieri e i sogni.
    Confondere i due piani non aiuta e le persone che vogliono fare tutto, spesso, rischiano di diventare padroni delle attività piuttosto che custodi dei fratelli.

    Programmare: i contenuti e il metodo

    Progettare e programmare sono due parole che si assomigliano, spesso si confondono.
    L’attività di progettazione (anche se indica tutto ciò di cui stiamo parlando) è una grande premessa che deve tradursi in un programma di attività.
    E qui il convegno ci ha aiutato a capire che le abilità sono talenti che vanno coltivati, ricercati se necessario e mai dati per scontati. Troppe volte ci si ferma alla geremiade: “Nessuno mi aiuta, non abbiamo persone capaci”. Il molto tempo dedicato durante il convegno di Brindisi ai laboratori voleva farne capire il valore e la necessità, perché nelle diocesi si possano aprire dei veri percorsi formativi (possibilmente non di importazione, ma pensati e gestiti dentro la propria realtà ecclesiale) che facciano crescere le competenze. La creatività non è l’esclusiva degli artisti: cervelli in azione ne producono in abbondanza. Tecniche e linguaggi non sono la soluzione, ma i codici per poter comunicare. Ancora, tecnica e linguaggi devono intrecciarsi con una competenza educativa: insieme traducono le strategie in contenuti e abilità.
    Come spesso accade con queste dimensioni, tutto ciò diventa un’arte che non va pensata, almeno in educazione, come un talento innato (altrimenti avrebbero ragione quei preti in fuga dai giovani che dicono: “bisogna esserci portati”): è un’arte che, piuttosto, va appresa e nella quale è necessario esercitarsi.
    La scelta del metodo è fondamentale: ciò che “parla” ai ragazzi, ciò che veramente li colpisce e li coinvolge non sono tanto i contenuti delle nostre attività, quanto il modo con cui vengono proposte.
    Per questo possedere tecniche animative, utilizzare più linguaggi, significa dare ai contenuti la possibilità di esprimere la loro ricchezza. Qui si aprirebbe una lunga riflessione di cui siamo debitori (soprattutto) a don Riccardo Tonelli, che fin dagli anni ’70 ha individuato nell’animazione culturale il metodo che la pastorale giovanile predilige per offrire itinerari ed esperienze educative. Un metodo che parte dall’esperienza e la valorizza; la rilegge alla luce del Vangelo illuminandola di senso. Un metodo che chiede una grande dedizione agli educatori: accoglienza incondizionata e libera da giudizi sui ragazzi, la conoscenza delle loro storie, e l’esperienza condivisa con loro che è tanto più vera quanto più costruisce solide relazioni riconoscendo il percorso fatto.

    Organizzare i tempi e gli spazi

    Una volta sono stato invitato a un incontro diocesano in piazza: non c’era un palco, uno striscione, una locandina; non un segno che delimitasse lo spazio e le sue funzioni. Però l’impianto audio sembrava quello del concerto di un grande cantante, con tanto di regia. A volte dimentichiamo che organizzare spazi e tempi vuol dire rimandare a un sistema di significati che investono l’immagine di ciò che stiamo facendo. Anche l’organizzazione è un modo di comunicare: fatto di spazi e tempi, di ruoli definiti e di regole dichiarate che esprimono molto delle nostre scelte e (insieme a tutto il resto) “infondono l’anima”.
    Troppe volte sogniamo grandi strutture moderne e funzionali, e ci dimentichiamo della soffitta di san Filippo Neri o della tettoia di san Giovanni Bosco: luoghi poveri, ma dignitosi nella cura degli spazi a disposizione (non è un caso che a Valdocco ci fosse mamma Margherita…).
    Ecco, è questa dignità che permette la ricchezza delle relazioni e delle esperienze: nemmeno la casa più povera non è in grado di farsi accogliente. E paradossalmente la dignità degli spazi si coniuga sempre con la razionalità dei tempi, con la distribuzione dei ruoli (il villaggio “africano” che serve a educare un bambino): una buona organizzazione, insomma, non è una cosa complicata ma è tutto ciò che nella chiarezza permette la semplicità e la buona riuscita delle esperienze.

    Mi apro alla fine: la verifica

    Può sembrare strano, ma è così: alla fine di ogni esperienza educativa ci sono le condizioni migliori per le ripartenze.
    Una buona verifica, infatti, permette di trasformare ciò che funziona in punti di appoggio per le scelte future e gli errori o le fatiche come le cose che fanno crescere, da comprendere per non doverle più “pagare”. E così il processo pastorale non riparte mai dal niente, perché nella memoria di ciò che si è fatto è scritta la direzione per ciò che ancora ci aspetta.
    Andrebbe sottolineato il fatto che una buona verifica (l’andare seminando, intrecciando sapienza e fede) è la valutazione di due aspetti: il prodotto (che valuta se gli obiettivi che ci si era dati sono stati raggiunti) e il processo (che risponde alla domanda su cosa è accaduto strada facendo).
    Ma l’educazione e la formazione non sono processi aziendali: quindi, quando è in gioco la vita delle persone, non sempre conta il prodotto (che, tra l’altro, non è così facilmente verificabile), quanto piuttosto il processo: le relazioni, le emozioni, le implicanze interiori e spirituali di attività e percorsi vissuti insieme spesso sono ricchi di aspetti sorprendenti e inattesi. L’esempio più classico è quello di un’attività teatrale con i ragazzi: la rappresentazione finale (il prodotto) sarà sempre meno importante delle relazioni vissute durante i tempi della preparazione e delle prove; perché la rappresentazione si brucia in due ore, il percorso fatto dal gruppo rimane come patrimonio. E le relazioni sono preziose perché creano comunità (noi diremmo “fanno Chiesa”) e fanno crescere l’umanità delle persone.

    Tutte le volte?

    La domanda è legittima: tutte le volte che organizzo qualcosa, devo fare tutta questa trafila? Non si rischia di diventare pedanti, di perdere troppo tempo? La cura dei passaggi di una buona progettazione pastorale non è un compito meccanico di cui non perdere nemmeno un colpo: l’abbiamo detto, il processo è più importante del prodotto. Avere la pazienza di “esercitarsi” un po’ attraverso le attenzioni dei passaggi descritti, significa far nascere pensieri nuovi, non ingessarsi nel “si è sempre fatto così!”, permettere alle persone di esprimersi, favorire e promuovere processi di crescita personale e di gruppo. E questo è importante perché la vita di tutti (educatori e ragazzi) sia sempre “fresca” e non abbia il sapore del già visto o del già fatto.
    Questa è la condizione perché ci si apra alla comunità e al territorio: articolare le esperienze pastorali significa tenere costantemente aperto il dialogo, valorizzare le ricchezze di gruppi e persone presenti su un territorio.
    Insomma, la progettazione pastorale dovrebbe diventare soprattutto una mentalità che non si chiude nell’applicazione stretta dei singoli passaggi, ma li tiene in considerazione nella loro globalità.
    Questo, tra l’altro, aiuta a dotarsi di una buona dose di comprensione e flessibilità che ci aiuta a non prenderci troppo sul serio, a tenere lo sguardo sull’obiettivo finale che è quello di farli vivere, questi ragazzi. Di lanciarli nel mondo e nella vita sicuri che ce la faranno. Perché Dio ha messo dentro di loro le risorse necessarie. Perché il vangelo di Gesù ci ha parlato della vicinanza di Dio alla vita dell’uomo. Di cui, noi, vogliamo essere piccolo ma prezioso segno.

    NOTE

    1 Carlo Maria Martini, Dio educa il suo popolo, n. 14, Milano 1987.
    2 Cfr. Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per gli anni novanta, n. 45.
    3 Paolo VI, Mio testamento.
    4 Cfr. il testo de Il laboratorio dei talenti, Conferenza episcopale italiana, Nota pastorale sul valore e la missione degli oratori nel contesto dell’educazione alla vita buona del Vangelo, 2013.


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