Michele Falabretti *
(NPG 2015-04-06)
Gli ultimi due convegni nazionali di pastorale giovanile (Genova, febbraio 2014 e Brindisi, febbraio 2015) si sono svolti in un arco di tempo ravvicinato e hanno così permesso un’operazione di cui – mi pare – la pastorale giovanile italiana aveva bisogno.
Non una rifondazione né tantomeno una rinascita (le azioni di pastorale giovanile in Italia sono numerosissime e caratterizzate da grande generosità); piuttosto una rilettura che ne facesse emergere pregi e difetti.
I vent’anni d’inaugurazione del Servizio nazionale di pastorale giovanile presso la CEI erano, anche da questo punto di vista, un’occasione da non sprecare. Le tantissime azioni di pastorale giovanile diffuse sul territorio delle diocesi non hanno ancora generato un cammino condiviso: i viaggi per il mondo durante le GMG hanno sì acceso entusiasmi, ma non hanno ancora prodotto quella “organica, intelligente e coraggiosa pastorale giovanile” di cui parlavano gli Orientamenti della Chiesa italiana degli anni ’90 al famoso numero 45.
E così la prima parte del convegno (quella dello scorso anno) si era fermata a rileggere la passione educativa che non può mancare in un’azione di cura. Appurato che non è più tempo di affidarsi agli “automatismi” educativi (la verità splende sempre, ma i giovani portano occhiali da sole), è emerso durante il lavoro di approfondimento dei mesi successivi che è necessario riprendere in mano il concetto di cura come dedizione e pazienza nell’affiancare i processi di crescita di adolescenti e giovani. Cose non scontate: recentemente non è stato infrequente assistere all’impazienza di preti ed educatori perché i loro sforzi non “sfornano” rapidamente cristiani formati.
Il processo è più importante del prodotto: affermazione scritta in tutti i manuali di progettazione educativa, ma non ancora incisa nel cuore di qualcuno. Ed è un po’ come dire: accompagnare cammini testimoniando la fede è più importante che esibire mirabolanti ricette o successi pastorali.
Non è forse questa una delle provocazioni di Evangelii Gaudium, quando dice che è esattamente nell’uscire, nell’andare incontro che si (ri)genera la vita della Chiesa? In tutto questo, sempre nella fase di passaggio fra la primavera e l’estate scorsa, è emersa un’altra idea interessante. Il sapere pastorale non precede l’azione; anzi spesso è il contrario: la riflessione riesce a “sistemare” pratiche e idee. Ma la produzione di un “sapere” viene dalla condivisione delle esperienze: se vogliamo superare l’ansia da prestazione è importante leggere la vita delle nostre comunità, dei territori; capire quali sono i percorsi di crescita dei giovani trasformando tutto in conoscenza condivisa.
Provando a riconciliarci con la contemporaneità: il mondo in cui viviamo deve diventare per i nostri ragazzi una possibilità e non un condizionamento negativo; sognare scenari idilliaci e inesistenti non aiuta a vivere né a far crescere né ad aprire cammini.
A Brindisi, dunque. Con l’idea di accendere luci sulla strada faticosa di chi si spende per generare storie di vita ispirate al Vangelo: a partire dalla richiesta di quella sapienza, dono del cielo, che permette di intrecciare le storie dei ragazzi con la presenza dello Spirito che parla al cuore di chi ascolta.
Il convegno è partito dall’esigenza di fare della pastorale giovanile quel grande percorso di accompagnamento e cura che va dalla celebrazione della Cresima (celebrato più o meno ovunque durante la preadolescenza) alle soglie dell’età adulta. Un percorso capace di generare alla vita di fede che non può essere affidato semplicemente agli eventi; fidando in un magico effetto, frutto di una bacchetta magica che non c’è.
Lo sguardo, dunque, deve allargarsi. Preadolescenza e adolescenza sono ancora due mondi troppo “orfani” di azioni pastorali che poggiano su due “certezze” (Cresima e GMG) ma lasciano scoperto un arco di tempo decisivo e sul quale pensiamo debbano aprirsi le prossime riflessioni. È in- fatti durante questa età (che dura almeno dieci anni – fra i dieci e i vent’anni) che si decide di sé, si diventa autonomi, ci si forma una coscienza. Semplificando anche un po’ (troppo) si può dire che oggi a un ragazzo che fa la Cresima, oltre a dirgli che lo aspettiamo a messa la domenica successiva, si dà appuntamento al primo viaggio possibile di GMG. Troppo poco, non possiamo starcene lontani in anni così decisivi: la lezione di Mantegazza al convegno è stata magistrale.
Di più. Il percorso di iniziazione cristiana ha per sua natura una struttura che non può non assomigliare a quella scolastica: l’esperienza del primo annuncio prevede una spiegazione di fatti e di idee. Ma anche l’iniziazione cristiana prevede il tempo che i Padri chiamavano della “mistagogia”, cioè della spiegazione dei misteri: quelli della fede e quelli della vita. È qui che si apre lo spazio dell’accompagnamento e della cura dell’adolescenza: età dove le parole devono necessariamente fare spazio alle esperienze.
La progettazione pastorale non è la pianificazione asettica di stratagemmi o artifici educativi: essa è la condizione per aprire a relazioni che richiedono un cuore amorevole fatto di attesa, pazienza, gradualità.
Ma dobbiamo pure smarcarci da quella banale abitudine di chiamare con superficialità “giovani” i ragazzi che vanno dai dodici ai trentacinque anni. Riconoscere le età della vita chiede alle nostre azioni pastorali una varietà di risposte, capaci di andare incontro a esigenze diverse. Accettando la fatica di alzare le nostre competenze e chiamando a raccolta tutte le risorse della comunità cristiana: la parrocchia, luogo di vita quotidiana, non può non convocare e valorizzare le presenze aggregative laicali e di vita consacrata.
A questo punto il convegno ha aperto due questioni importanti: una riguarda il mandato degli incaricati diocesani e dei loro collaboratori; l’altra riguarda la capacità di offrire percorsi educativi possibili.
La prima questione tocca la vita delle Diocesi e chiama in causa i vescovi. Gli incontri e i raduni diocesani sono momenti belli, ma non sufficienti. Se infatti si vuole sostenere il cammino di adolescenti e giovani, si dovranno strutturare attività diffuse sul territorio. Questo chiede di rivedere (e in qualche modo di “ricontrattare”) il mandato dei servizi o uffici diocesani di pastorale giovanile: qualche volta saranno chiamati a essere organizzatori di eventi, ma sarà molto più importante che si scoprano come sostegno alla promozione di cammini educativi, dove la responsabilità è condivisa e diffusa nei territori (parrocchiali o interparrocchiali che siano).
La seconda questione riguarda la capacità di promuovere questi cammini. Che se non può sempre aggrapparsi ai grandi eventi, deve mostrare almeno la volontà di imparare a strutturarsi, aprendosi a itinerari condivisi ed efficaci, sostenendo la formazione di animatori e di educatori, condividendo sforzi che per forza di cose produrranno gioie e delusioni. “Chiesa in uscita” significa saper articolare le azioni pastorali in base ai ragazzi che si ha di fronte.
Le competenze educative non sono innate (può esserlo il carisma, ma la competenza si coltiva): per questo chiedono di essere affinate, maturate, fatte crescere attraverso un cammino che nella diocesi deve trovare una regia comune. I servizi diocesani di pa- storale giovanile saranno tali nella misura in cui riusciranno non a sostituirsi alle realtà del territorio (parrocchie, associazioni e movimenti laicali, percorsi di vita consacrata), ma a sostenerle. Offrendo i supporti necessari (il tavolo della condivisione, la consulta) e indicando le linee di lavoro che emergeranno dal confronto con gli altri uffici pastorali in comunione con il vescovo.
Su questo c’è molto da lavorare. Ce lo siamo detti, a Brindisi: senza nasconderci dietro a facili (ma ingannevoli) autocelebrazioni.
Per chi lavora con i giovani non è una novità: la sfida più bella è sempre quella che ci attende.
Le pagine che seguono raccolgono gli interventi rivisti dagli autori e raccontano il vissuto del convegno. C’è anche un link che rimanda a un video disponibile in Internet: il convegno è stato sì una serie di relazioni, ma è stato anche un’esperienza bellissima di Chiesa, con i laboratori, la veglia e la festa a Trani, e l’incontro con i due vescovi “novelli” legati al Servizio nazionale, mons.
Paolo Giulietti e mons. Nicolò Anselmi, recentemente consacrati e che sono venuti a far festa con tutti a Brindisi.
Un grazie particolare va alla redazione di Note di Pastorale Giovanile che, nel solco della stretta collaborazione con il Servizio Nazionale della CEI, dedica ampio spazio della rivista al racconto e alla ripresa del convegno di Brindisi attraverso alcune testimonianze che ha raccolto.
* Responsabile del SNPG
Ecco il progetto
Chi arriva a Tecla, poco vede della città, dietro gli steccati di tavole, i ripari di tela di sacco, le impalcature, le armature metalliche, i ponti di legno sospesi a funi o sostenuti da cavalletti, le scale a pioli, i tralicci.
Alla domanda – perché la costruzione di Tecla continua così a lungo? – gli abitanti senza smettere d’issare secchi, di calare fili a piombo, di muovere in su e in giù lunghi pennelli, – Perché non cominci la distruzione, – rispondono.
E richiesti se temono che appena tolte le impalcature la città cominci a sgretolarsi e a andare in pezzi, soggiungono in fretta, sottovoce: – Non soltanto la città.
Se, insoddisfatto delle risposte, qualcuno applica l’occhio alla fessura d’una staccionata, vede gru che tirano su altre gru, incastellature che rivestono altre incastellature, travi che puntellano altre travi.
– Che senso ha il vostro costruire? – domanda.
– Qual è il fine d’una città in costruzione se non una città? Dov’è il piano che seguite, il progetto? – Te lo mostreremo appena termina la giornata; ora non possiamo interrompere, – rispondono.
Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantiere. È una notte stellata.
– Ecco il progetto, – dicono.
(Le città invisibili, Italo Calvino)