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    Il prete come educatore



    Gilberto Gillini – Mariateresa Zattoni

    (NPG 2015-01-34)


    Quando, chiamati a parlare a vari presbitéri in Italia, diciamo che per noi famiglie i preti sono gli "ultimi padri" che ci sono rimasti, non intendiamo parlare di supplenza (e siamo spesso fraintesi), anche se ovviamente di tale supplenza nelle nostre famiglie nucleari postmoderne ci sarebbe disperatamente bisogno. Intendiamo invece parlare del munus - dovere e compito - del prete come educatore. Educatore necessario. Come necessario, ad esempio, è stato l'angelo Raffaele che accompagnò il giovane Tobia verso Sara, la sposa. Cerchiamo dunque, in queste nostre brevi e modeste riflessioni, di mostrare come il concetto di supplenza sia deleterio, sia per l'identità del prete sia per l'identità delle famiglie. Cerchiamo in secondo luogo di mostrare in che cosa consista la qualità educativa del presbitero riguardo alla famiglia e in particolare ai giovani.

    I danni della supplenza

    Lasciarsi coinvolgere troppo dai laici

    Riconosciamo che le famiglie spesso "tirano dentro" il prete perché hanno bisogno di sostegno; a dire il vero, è quasi sempre un membro della famiglia a ingaggiarlo, ovviamente in modo sbilanciato, specie per voce femminile, carica magari di ansia e di sofferenza. Spesso, nel nostro lavoro di consulenza relazionale, ascoltiamo frasi del tipo "il mio don mi ha detto che…" e giù consigli educativi (chiaramente manipolati dall'utente) che finiscono sulle spalle del coniuge, della suocera e in particolare del "figlio che ha problemi". In questi casi è chiaro che - in maniera più o meno consapevole si tratta di una privatizzazione del presbitero (che si lascia privatizzare!) la cui voce sembra autorevole o perlomeno "alleata". Forse sui tempi brevi - questa voce portata dentro nei drammi familiari può dare qualche risultato (spesso purtroppo a favore del richiedente e non sempre anche a favore di tutto il sistema relazionale della famiglia), ma va da sé che molto presto tale voce diventa voce nel deserto o magari scusa buona per rigettare sia voce sia parlante (in nome di Dio?). È a dire: il presbitero che accetta simili mandati sbilanciati intrude potentemente nella punteggiatura familiare!

    Lasciarsi prendere dal proprio "piccolo psicologo"

    Ma si tratta di tossica supplenza anche quando il presbitero si propone "spontaneamente" a difesa di un membro della famiglia, si sente in dovere di sostenerlo contro il famigliare che non lo capisce, spesso i genitori; qui avremo molte storie da raccontare e rimandiamo soprattutto a tre nostri libri, a cominciare da Gillini G., Zattoni M., Con passione e con rispetto... Due coniugi scrivono a preti, Queriniana, Brescia 1993 fino ai più recenti: Il prete padre, Storie di vita e per la vita, (Cittadella Editrice, Assisi 2009) e Contro gli inganni del lupo, Il legame fraterno in famiglia e in comunità, (Cittadella Editrice, Assisi 2011), dove abbiamo raccontato molte storie vere (alcune efficaci, altre meno) di "difesa dei deboli" da parte di un presbitero.
    Una fra mille: dopo la morte della madre, una giovane infermiera viene sostenuta dal vice-parroco a lasciare il padre autoritario soffocante e a prendere in affitto nella città dove lavora un appartamento insieme alla sorella minore che studia all'università. Quando però - dopo un necessario distacco - la figlia vuole farsi viva presso il padre regalandogli parte del suo giorno libero per sistemargli la casa, il prete le dice queste testuali parole: «Passerai sul mio cadavere, dopo tutto quello che ho fatto per farti allontanare!».
    Scopriamo un po' le carte, dal nostro punto di vista: le supplenze, prima o poi, possono rivelare la loro forza sotterranea in antichi risarcimenti e in antiche partigianerie. Anche il presbitero è stato figlio di un nucleo familiare (che nell'adultità si chiama "famiglia d'origine", famiglia da cui - come ogni adulto - ha dovuto staccarsi per scegliere la propria strada). Lo svincolo (termine tecnico per parlare di questo processo che segna la maturità) è spesso difficile, faticoso, talora quasi impossibile, se il figlio ha h dovuto generosamente farsi carico di drammi, sofferenze, rivalse talora trigenerazionali.
    Se è stato un figlio, poniamo, sbilanciato a proteggere (o perlomeno a "sentire" in modo privilegiato) una madre che gli era apparsa debole, soccombente rispetto al padre o alla parentela allargata, sarà facilmente un "partigiano", uno che si schiera incollandosi alla sofferenza del debole, dimenticandosi di …vedere anche l'altra faccia della medaglia: e cioè, per stare ad un esempio concreto, quanto la madre debole fosse capace di far girare il mondo attorno alle sue sofferenze, e quale comunicazione arrivasse ad un padre (svalutato agli occhi del figlio), iroso e rancoroso, incapace di cambiare.
    Un figlio "preso dentro" in questi giochi parentali tenderà a fare "l'ago della bilancia", a non staccarsi mai completamente e per contro ad essere convinto di sapere "come si fa" quando trova, nella sua attività pastorale, situazioni familiari simili a quelle per cui lui, figlio, si era attivato. Ci diceva un frate in tutta semplicità: «Solo io ho la firma in banca nel conto dei miei genitori perchè loro si fidano solo di me!». E chissà perché i fratelli sposati che abitavano vicino ai genitori ce l'avevano con lui! A conferma: per il cinquantesimo di nozze dei genitori lui - e solo lui - fece con loro il viaggio di nozze. Ebbene, un simile frate, al di là delle buone intenzioni, "riconosceva" al volo situazioni familiari nelle quali fratelli gelosi e invidiosi se la prendevano con il fratello "buono", distanziato e non ammesso nella cerchia fraterna.
    Occorre molto acume nel riconoscere nelle proprie "supplenze", antichi giochi familiari che ci prendono la mano! Solo per inciso: come i seminari preparano ad un sano svincolo dalle trame familiari, anche da quelle famiglie sane e normali?

    "Educare alla misericordia è lo specifico del prete-padre"

    Cominciamo con un esempio

    Ritorniamo dunque all'identità del prete-padre che coincide con il suo essere educatore "necessario" (come dicevamo "necessario" l'angelo Raffaele). Va da sé che un educatore "può portare un altro solamente dove è già stato", cioè deve aver chiara la meta. Ciò verso cui educare è molto semplice, nel linguaggio di papa Francesco: «un buon educatore punta all'essenziale cioè sa verso dove, qual è la meta, ciò per cui vale la pena di vivere. E l'essenziale secondo il Vangelo è la misericordia» (Papa Francesco, 10 settembre 2014). Educare alla misericordia è lo specifico del prete-padre che trova nelle sue braccia - come dono - la forza delle braccia del Padre.
    Una piccola testimonianza dovuta ad uno sconosciuto prete-padre (e pure giovane, ma saldo nella sua paternità): egli è l'inviante nel nostro studio di una giovane insegnante che, non solo tradisce il marito, ma irretisce un giovane - sia pur appena maggiorenne - suo allievo in una palestra. Si profilano accuse pesanti anche da parte dei genitori del ragazzo; lei è disperata e non sa come districarsi; dice di essere caduta troppo in basso, di non avere più fiducia in se stessa. Un giorno però arriva con un biglietto tra le mani: è il prete inviante che la sprona a continuare il lavoro con noi e conclude con un fulminante "ti stimo tanto". E lei commenta: «Non so come faccia a stimarmi, eppure comincio a credere alla sua stima»: stupefacente punto di Archimede che ha permesso a questa donna di "tornare a casa". Qui il giovane presbitero è stato un vero educatore: e non tanto e non solo per l'invio della giovane a dei tecnici, ma perché non ha perso la lampada della misericordia. La stessa misericordia (ben diversa da una banale compassione) che ha guidato il vero Educatore Gesù davanti all'adultera.
    Le famiglie hanno bisogno di misericordia, non di buonismo, di partecipazione a buon mercato, di sconti, di pillole edulcorate e i giovani in particolare, oggi sempre più spesso ridotti a "utenti" di famiglie che non li lanciano alla vita e si limitano a proteggerli da un mondo a dir il vero radicalmente ingiusto nei loro confronti.

    Interprete di una bellezza che sposa il limite

    Vale forse la pena allora accennare a qualche tratto di questa misericordia verso cui il presbitero è l'educatore necessario.
    È la stessa misericordia che ha spinto il Padre che ha "tanto amato il mondo" (Gv 3,16): essa scende a cascata sulla Madre Chiesa a partire da quello snodo irrinunciabile che è il ministero ordinato. La vita del cristiano infatti, non può prescindere dall'eucarestia, dal rendimento di grazie, dalla gratitudine; è a dire dalla misericordia, l'essenziale del Vangelo, il cui interprete privilegiato è appunto il presbitero.
    Che cosa vuol dire allora "educare alla misericordia"? Vuol dire puntare lo sguardo - e tenerlo puntato, nonostante tutto - sulla bellezza (il giovane prete di cui abbiamo parlato sopra poté scrivere "ti stimo tanto" solo vedendo un briciolo di quella bellezza per cui la giovane donna era stata creata) sul nucleo buono/bello che la famiglia, il singolo, il creato porta in sé. Se smarriamo l'orma della bellezza, non possiamo più essere misericordiosi (trattenere nel cuore la miseria dell'altro per rinviarlo alla sua presente bellezza): saremo piuttosto dei facili assolutori, delle cattive spugne che tentano di cancellare l'incancellabile. Certo la bellezza non si lascia facilmente trovare; occorre darle sostegno, un punto di riferimento: il limite. Sarebbe un delirio puntare ad una bellezza disincarnata, scissa dai suoi limiti, dai suoi errori, dai suoi peccati. Siamo in una cultura-ambiente che - lasciata a se stessa - tende ad eliminare il limite, visto come "indecente", inadempiente rispetto ai sogni (si confronti il sogno del figlio fabbricato con l'eterologa). Ma se la bellezza non sposa il limite, si volatilizza, si fa evanescente, non afferrabile.
    E dunque il prete educatore è un esperto del bonum che abita nel limite: e qui sta la sua alleanza con il sistema familiare e in senso ampio con la comunità di fede; altrimenti colluderà egli stesso con il disgusto del limite e non vedrà più nulla. Si potrebbe continuare, poiché il senso della misericordia, che è la forma della sapienza presso Dio, non si esaurisce mai. Il presbitero è l'apri-pista che la annuncia, la indica.
    In che modo? Lo diciamo da genitori e da nonni: con il sorriso. La bellezza che s'incarna nel limite può essere indicata solo con il sorriso. Lasciatecelo dire: per il sorriso del prete, le famiglie sono disposte anche ad apparecchiare la tavola e a mettervi sopra il meglio che hanno.
    Perché? Non perché - talora - non sappiano essere misericordiose e non sappiano sorridere: ma perché trovano nel presbitero - nel suo sorriso – il timbro giusto.
    È a dire: non ce la siamo inventata noi la misericordia, non ce la siamo cucinata a nostro uso e consumo. Anche il prete non se l'è inventata: anche lui la riceve in dono; ma egli ne è la chiave interpretativa, dal momento che è chiamato a presiedere la comunità di fede. È così che si lascia educare e nel contempo educa la comunità "famiglia di famiglie", a dire grazie, il suo grazie, per la misericordia in forza della quale tutti viviamo. Anzi tutti siamo in cammino verso la Vita.

    Altre indicazioni bibiliografiche degli autori

    Gillini G., Zattoni M., Ben-essere per la missione. Proposta di lavoro per l'autoformazione di gruppi di presbiteri, di consacrate e di consacrati, prefazione di A.Cencini, Queriniana, Bre¬scia 2003.
    Gillini G., Zattoni M., voce "Famiglia" in: G.Calabrese, P.Goyret, O.F.Piazza (edd.), Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010.
    Zattoni M., Gillini G. due interventi in: M.Vergottini (a cura di), Perle del Concilio, EDB, Bologna 2012.


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