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    Giovani preti, le sfide del contesto



    Maurilio Guasco

    (NPG 2015-01-21)

    Fra i vari luoghi comuni che si tramandano in modo acritico senza farne la verifica, possiamo ricordarne due, quando si parla di educazione e futuro impegno del clero: che dopo Trento, per decisione di quel Concilio, il clero si sia formato nei seminari, e che la spiritualità dello stesso clero avesse delle basi comuni. Questo secondo luogo comune viene perpetuato da molti libri di spiritualità, che sono scritti per un clero che secondo gli autori ha un modo di vivere e di interpretare la propria missione del tutto analogo.
    Ora, per quanto concerne i seminari, fino al secondo Ottocento la percentuale del clero che si formava in quelle strutture era inferiore alla percentuale di chi seguiva altri itinerari formativi. Il secondo tema è strettamente legato al primo: una formazione diversa comportava forme di spiritualità del tutto diverse. Inoltre, fino alla seconda metà dell’Ottocento in Italia esistevano Stati neppure confrontabili fra di loro: e sarebbe davvero errato pensare che la vita del prete sia del tutto insensibile al tipo di cultura politica in cui viene inserito e agisce. Davvero si può pensare che essere un funzionario pubblico negli Stati pontifici, o al servizio del potere civile come avviene nel lombardo-veneto, produca gli stessi frutti nella forma di vita di un prete?
    Solo con l’inizio del Novecento, e grazie prima alla riforme di Pio X e poi alla fondazione nel 1915 della Congregazione de Seminari, si verifica una certa omogeneità nella formazione del clero e quindi nel modo di agire dei giovani preti. Non va però dimenticato che solo negli anni Quaranta del XX secolo si discute di una specifica spiritualità del clero diocesano. Prima, quasi tutti i seminari avevano un padre spirituale appartenente a un ordine religioso, e il tipo di spiritualità a cui si veniva educati aveva un andamento mutuato spesso dalla vita di un monastero: con la conseguente difficoltà, per un prete negli anni successivi al seminario, a trovare un equilibrio spirituale proprio di un prete che ha come compito primario il lavoro pastorale.
    Vi era però un dato interessante, fino ad epoca recente: al di là del dibattito, superato a inizio Novecento, sulla opportunità di introdurre i programmi governativi nelle scuole medie dei seminari, quasi tutti i seminaristi arrivavano in teologia con una formazione sostanzialmente analoga, avendo tutti seguito i corsi e le materie proprie di un liceo classico. Le differenze dipendevano dai quozienti intellettuali dei singoli, non dalla diversa formazione.

    I diversi contesti formativi

    Quest’ultimo punto è oggi completamente cambiato. I superiori dei seminari si trovano di fronte a realtà del tutto nuove. Entrano in seminario operai trentenni che hanno fatto la terza media, docenti di scuola media inferiore e superiore, che hanno quindi acquisito una laurea, specialisti di certi settori che non hanno molto a che vedere con la teologia, brave persone la cui formazione religiosa risale agli anni del catechismo in vista della Comunione e della Cresima. Bisogna cercare di fornire loro una preparazione che li renda adatti a seguire dei corsi di teologia. Si è costretti a fare come se… Chi può credere che qualche lezione di latino o peggio di greco possa renderli capaci di leggere dei testi pubblicati in quelle lingue? (D’altra parte, siamo tutti obbligati a fare come se… Personalmente, ho fatto molto latino e sono in grado di leggere un testo in quella lingua, ho fatto greco ma non sarei in grado di leggere nessun autore classico, ho dato esami di ebraico e mi ricordo solo che si legge aprendo il libro dal fondo).
    E’ chiaro che si tratta di problemi di non facile soluzione per un rettore o per dei professori: ma non è questo il problema che vorrei affrontare qui, anche se le decisioni che saranno prese dai singoli responsabili finiranno per influenzare i modelli di vita e di pastoralità che verranno adottati dai giovani preti. Non è evidentemente la stessa cosa, per dei superiori di seminario o dei professori, rivolgersi a un numero molto ristretto di alunni, o rivolgersi a seminaristi provenienti da varie diocesi e che si ritrovano in un edificio che ospita molti alunni, spesso ben al di sopra di cento.
    Ma, aggiungo io, non è la stessa cosa educare dei giovani in Piemonte, in Lombardia o in Sicilia. I primi diventeranno quasi subito parroci, avranno a disposizione delle strutture spesso superiori alle loro capacità gestionali, i lombardi saranno spesso responsabili di grossi oratori, vivendo qualche volta con il parroco, il più delle volte da soli; i siciliani spesso vivranno in famiglia, e quindi saranno condizionati, in bene o in male, da quella situazione. Tutti avranno letto opere di spiritualità scritte da monaci, faranno fatica a pregare con il breviario secondo orari predeterminati ma appunto tipici della vita di un monastero, faranno pure fatica a considerare il loro ministero pastorale come il primum della loro vita, e quindi a considerare la preghiera fatta con i loro parrocchiani come il momento più importante anche della loro vita personale.

    Figli del loro tempo

    Ma saranno anche, e spesso tendiamo a dimenticarcene, figli del loro tempo. Avranno uno scarso interesse per la vita politica, di cui spesso parleranno male, contribuendo così a creare un pericoloso clima di rifiuto dell’impegno politico, sentiranno parlare del Concilio Vaticano II come di un evento di cui avranno studiato qualcosa, in vista di qualche esame, passeranno parte del loro tempo a mandare messaggini inutili (ma loro non la pensano così) con il loro cellulare (spero che qualcuno abbia detto loro che quel termine veniva usato solo nel linguaggio carcerario, per indicare il veicolo con cui si trasportavano i carcerati: forse è bene che ci si ricordi che quello strumento è spesso una forma di prigionia), penseranno che certi strumenti non sono mezzi per meglio operare, ma prove del prestigio acquisito: basta provare ad applicare tale ragionamento al momento in cui si acquista una macchina.
    Tutto questo, ma è chiaro che qui generalizzo, si ripercuoterà sulla vita liturgica, di cui si sentiranno maestri indiscussi. Provo a spiegarmi meglio. Fino all’Ottocento, il prete viveva di una certa notorietà, magari contrapposta a quella del maestro e del farmacista, espressioni della scienza contrapposta alla fede. Ma tutti lo stimavano, almeno esternamente, lo consideravano un notabile. In una società sostanzialmente statica, diventare prete era una delle poche forme di promozione sociale, di possibilità di modificare il proprio status. Poi arrivò l’epoca delle specializzazioni, del fatto che era meglio sapere tutto di qualche cosa, che qualcosa di tutto. Il ruolo del prete venne ridimensionato, il suo valore non dipendeva tanto dalla posizione sociale, ma dalle sue capacità personali. Il prete si rendeva conto che in molti ambiti era portato a confrontarsi con persone che ne sapevano molto più di lui. Quella leggera, e spesso inconscia, forma di clericalismo stava lasciando il posto ad altri modelli sociali. Restava un ambito in cui il prete si sarebbe comunque sentito padrone, la liturgia. Erano stati necessari decenni perché si passasse dalle “sacre cerimonie”, materia di insegnamento in seminario, alla “liturgia”. Il monaco Vagaggini nel 1957 aveva scritto cose bellissime sul senso teologico della liturgia.
    Sarebbero bastati pochi anni perché dalla liturgia si tornasse alle sacre cerimonie. L’altare come palcoscenico per una bella rappresentazione, l’ambone come il luogo non dell’annuncio della Parola di Dio, ma della capacità di attore del giovane prete, preoccupato non tanto di ciò che si dice, ma da come lo si dice: Non ci hanno detto che il modo di comunicare è molto più importante del cosa si comunica? Ma questo vale per i prodotti commerciali, tanto più reclamizzati quando meno valgono. Ma è il caso di applicare tale metodo anche per la trasmissione della Parola di Dio?
    Così tornano i luoghi comuni, tanto più affermati quanto più non hanno alcun fondamento storico. Si veda ad esempio il problema del latino nella liturgia. La lingua latina, si dice, è stata e quindi deve tornare ad essere la lingua ufficiale della Chiesa. Ci si rende conto che così si cancella dalla Chiesa tutta la liturgia orientale? E tutta la patrologia greca, raccolta in buona parte dal Migne in una lunga serie di volumi, non ha più nessun valore?
    Qui però ci troviamo di fronte a due modelli di preghiera, per non dire di ecclesiologie. Il Vaticano II parla di partecipazione attiva del popolo fedele agli atti liturgici. Quando si dice che bisogna in essi meglio esprimere il mistero, che tutti ci si deve rivolgere verso Dio quando si prega, e non verso il popolo (è il caso del prete), si sta comunicando un modo di pregare molto diverso dal primo. E vale ancora il vecchio detto, “lex orandi lex credendi”, cioè il nostro modo di credere è quasi sempre dettato dal nostro modo di pregare. Ma il ritorno a un modello misterico non cela forse la difficoltà del prete a confrontarsi con la sua gente, alla necessità di fornire loro la Parola di Dio, non dei surrogati?
    Una certa mania che ritorna sull’importanza dei vestiti variopinti, dei titoli ecclesiastici, che indicano che si è fatto carriera, non che si serve meglio il popolo di Dio, non indica forse una certa insicurezza delle persone, che credono di valere di più perché hanno più titoli? Esiste ancora, ma qui so benissimo che siamo tutti coinvolti, il valore della semplicità evangelica, dell’umiltà, e addirittura della povertà, o pensiamo che proprio l’ostentazione di titoli e atteggiamenti contrari a tali scelte siano più accetti al popolo di Dio?
    Lo so benissimo che sto dicendo cose che vorrei imporre ad altri, quando io non le tocco neppure con un dito: ma il problema è di provare a capire cosa ha fatto Gesù Cristo, unico vero modello sacerdotale, non cosa facciamo noi.
    Mi viene in mente San Francesco, ma non per additarlo come esempio irraggiungibile: vorrei far notare un’altra cosa. Al tempo di Francesco c’erano certamente dei bravi papi, dei bravi vescovi, dei bravi preti, dei bravi laici credenti. Eppure oggi si ricordano solo perché sono vissuti al tempo di Francesco: i veri protagonisti non sono loro, ma il poverello di Assisi. Qualche volta dovremmo provare a chiederci perché.

    Lo studio e la riflessione

    I giovani di oggi hanno molto in comune, che studino in Università o che entrino in Seminario o che siano nei primi anni di ministero. Per esempio, una certa fragilità fisica, almeno nei confronti dello studio: se per noi di altra generazione era normale passare tante ore in biblioteca, oggi non lo è più: sia perché vi sono altri strumenti per lo studio, sia perché quegli strumenti hanno reso difficile la concentrazione. E’ difficile restare concentrati su un tema per un periodo abbastanza lungo, quando si deve spesso rispondere alle telefonate, quando si mandano o si leggono messaggi, quando si è distratti da troppe cose che non sono quelle su cui si sta lavorando. Eppure per un giovane prete diventa indispensabile avere dei momenti di silenzio, di riflessione: ciò vale sia per lo studio che per la preghiera.
    Poche settimane or sono si è svolto a Sacrofano il congresso missionario nazionale. Fra gli interventi, ve ne fu uno di un seminarista che ricordava quante cose facessero in seminario. Presentò un elenco di cose interessanti: ma il seminarista si dimenticò di dire che studiavano. Nelle risposte, lo fece notare uno dei relatori laici: in seminario si dovrebbe anche imparare a studiare, non a cercare alibi per non farlo. Poiché così si prepara un cattivo inizio di ministero, quando appunto si troveranno alibi (e ce ne sono tanti) per mettere da parte lo studio. Ma quanto tempo un giovane prete può resistere, se cancella il tempo dedicato allo studio e alla riflessione?
    Certo, è difficile provare a dare una testimonianza di povertà, di distacco dai beni, di umiltà, quando ci si trova in una società dove l’avere prevale sull’essere, dove l’apparire sembra un elemento fondamentale della propria personalità, dove il silenzio e la capacità di riflessione sono considerate come la dichiarazione di incapacità ad affrontare i problemi.
    I seminari si vanno svuotando, la crisi delle vocazioni è un dato indiscutibile, e non sono certo queste le cause di tale crisi. Bisognerebbe fare altre analisi per cercare di capire quanto la nostra società non aiuti a uscire da tale situazione. Ma un'eccessiva identificazione con la società in cui si vive non rappresenta certo un aiuto. Un prete, qualunque sia la sua età, dovrebbe essere il segno di un altro modo di vivere, un annuncio di quei cieli e terre nuove di cui ci parlava san Pietro, nella lettera che abbiamo letto nella seconda domenica di avvento.


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