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    Essere preti



    Michele Falabretti

    (NPG 2015-01-29)


    Domande

    Non di rado capita che il prete giovane travolto nella “babele” delle attività pastorali, dell'oratorio in particolare, si arresti d'un tratto e si interroghi a proposito di sé: “ma c'entra un prete in tutto questo?”, o più radicalmente: “ma il vangelo che pensavo di servire passa attraverso queste cose?”. “Riesco a comunicare, almeno un poco, di quanto mi sta a cuore? Oppure quello che faccio e che propongo ha tutta la pesantezza, l'opacità e la solitudine di un monologo?”. “Al di là del pudore che avvolge e custodisce le cose care e importanti, dalla mia vita, dal mio impegno, dalle mie attività, dalle mie relazioni traspare quella luce che non proviene da me?”. “E se ciò non avvenisse, ha senso che un credente, che è prete, si immischi in tutto ciò?”. Simili e altre domande frullano nella testa di un prete giovane, sintomo della fatica che fa a tenere insieme e legare con un filo di senso la varietà e la molteplicità delle esperienze, delle attività e delle relazioni. Assomiglia (forse) questo interrogare e interrogarsi, questa ricerca di una sintesi personale e pastorale, a quel bambino che avendo vinto troppe biglie di vetro, e avendo le mani ancora troppo piccole per custodirle tutte, se le lascia sfuggire e si affanna nel tentativo di recuperarle inseguendo la loro fuga disordinata e chiassosa.

    La fede del prete

    Anzitutto, filo importante da acchiappare, c'è il cammino personale del prete: il suo sentiero nella vita e nella fede. Fin dall'inizio la sua fede è provocata, è stimolata, è aggredita dall'impatto con l'universo pastorale, soprattutto giovanile. Il progredire dell'esperienza pastorale e la costruzione graduale della ragnatela di rapporti con adolescenti e giovani, con i loro mondi e i loro linguaggi, con le loro richieste e contraddizioni, assomiglia all'avanzare di un fuoco di verità che brucia inesorabilmente quanto nel prete c'è di paglia e, dopo la combustione non sempre indolore, permette solo all'oro di rimanere. È una grande esperienza di crescita, un cammino difficile ma irreversibile verso "quell'oro" che è ciò che conta e permane. Anche per il prete la fede è nuova ogni mattina; anche per lui essere maestro significa continuare a fare il discepolo.

    La preghiera

    E la preghiera, in particolar modo, quel dialogo che costruisce il rapporto con il Signore, che fine fa? Il breviario, la meditazione, la messa quotidiana, la confessione... che posto occupano in questa vicenda? Anche per il prete si riproduce quella separazione perniciosa tra “pubblico” e “privato”, tra attività pastorale e cammino di fede? Non possiamo che salutare con gioia i primi segni di una preghiera che si trasforma e che è sempre più contaminata dalle cose della pastorale, dai volti dei ragazzi, dai problemi dell'oratorio, dalle fatiche del cammino, dalle speranze e dagli entusiasmi, dai tentativi e dai buchi nell'acqua; una preghiera insomma popolata dalla vita, dal ministero. Ed ecco che il dialogo con il Signore si fa più vero, magari più semplice, o più vivace, o più temerario. Il linguaggio della preghiera non può certo essere parallelo a quello della vita, non deve diventare un rifugio, un ritaglio, un piano parallelo. La preghiera non è solo un problema di tempi (che è come dire la quadratura del cerchio nella vita di un prete giovane) ma anche di stile. C'è un modo di pregare che si addice ai ritmi, al significato di un ministero come quello del “curato”, alla sua prossimità con il mondo dei ragazzi e dei giovani, alla qualità educativa del suo lavoro, a quella forma concreta di passione per il vangelo che è il prendersi cura della vita e della fede di chi sta crescendo in questo nostro tempo?

    Liturgia

    E ancora; anche quello che un prete celebra per gli altri, diviene motivo di crescita personale: una confessione, una messa, una predica. Tra i tanti un esempio: come è impegnativo sbriciolare la Parola a un adolescente! Eppure come è arricchente anche per il prete: lo costringe a entrare con la vita nella parola, a scoprirne ricchezze nascoste, a lasciare che essa parli sempre e nuovamente benché ormai familiare o addirittura scontata.
    Un altro caso emblematico: la messa quotidiana. I destinatari dell'azione pastorale in genere non ci sono: quei ragazzi, quegli adolescenti, quei giovani che occupano i pensieri, il cuore, i progetti, le relazioni di un prete giovane proprio lì sono assenti, proprio lì dove egli celebra la verità del suo ministero, dove celebra l'alleanza che lo spinge a occuparsi di loro, non a titolo personale, ma per conto del Signore. Eppure grazie anche a lui sono coinvolti in questa alleanza, al di là della sua apparente o reale solitudine, sono raggiunti dalla Sua cura anche grazie alla dedizione del prete, sono toccati dalla Sua vicinanza grazie anche alla capacità del giovane pastore di condividere il loro cammino, di entrare nel loro mondo, di mettersi al loro fianco.
    Insomma, il linguaggio della preghiera, che è linguaggio di un rapporto, tradisce la qualità della fede, del rapporto tra il suo cammino di credente e il suo ministero. Tradisce e magari anche smaschera chiusure, rifugi, narcisismi.

    Comunicare la fede

    Comunque l'impresa si fa davvero ardua quando il prete si preoccupa di comunicare la sua esperienza di fede, il tesoro che ha trovato e che non si sente di tenere per sé. Allora la fatica è grande, la creatività non è mai sufficiente, e la pazienza dell'attesa diventa la prima delle virtù. Ancora qualche esempio: come aiutare un adolescente a muovere i suoi primi passi nell'esperienza della preghiera personale? Magari aiutandolo ad ascoltare il silenzio partendo dall'abbiccì della vita interiore, costruendo necessariamente un percorso personalizzato?
    Oppure: quanto discernimento per aiutare il giovane che si confessa a passare dalla chiacchierata al colloquio che legge nella vita, che chiarisce, che raccoglie e distingue; e da qui, all'esperienza del perdono che diventa incontro con Dio! Mai tutto e subito, ma l'intelligenza di costruire un cammino, di accettare la gradualità, di partire sempre dall'altro ovunque si trovi nel cammino della vita.
    Oppure: come aiutare a vivere autenticamente la celebrazione, per i ragazzi davvero un po' ostica e lontana, senza trasformarla in una degustazione di emozioni o di novità, che finisce per non lasciare spazio all'Altro che invece li vorrebbe incontrare?
    E prendersi cura della fede di ragazzi, adolescenti e giovani significa anzitutto prendersi a cuore la costruzione della loro identità personale, della crescita della loro responsabilità; aiutarli nel superamento della frammentazione, delle paure, del narcisismo verso la scoperta del gusto di vivere. E tutto ciò non può essere fatto prescindendo da una comprensione appassionata e profonda del contesto socio-culturale in cui siamo immersi. La comunicazione della fede passa anche attraverso l'attitudine del prete a interpretare il contesto, la cultura, la mentalità in cui viviamo, per proporre un cammino di fede non parallelo alla vita, ma interno ad essa.
    Non è finita! E se poi il prete giovane si domanda ancora: “Che ne è del mio desiderio di testimoniare il Signore a proposito di quei ragazzi che mai me ne hanno chiesto conto e che forse mai lo faranno?”. E qui la fede deve essere leggibile o decifrabile negli atteggiamenti, nella dedizione, nella capacità di ascolto, nella gratuità del rapporto, nel calore e nell'autenticità delle relazioni. È la nostra vita a parlare, e nulla di tutto questo passa inosservato, anche se queste cose sono avvolte da un silenzio eloquente.
    Se è inautentica una preghiera che lascia fuori dalla porta la vita, è altrettanto vuoto un agire pastorale non colorato dalla fede, che non ha la preoccupazione di rendere possibile l'incontro con il Vangelo di Dio in tutto e sempre. Il cammino personale di fede del prete e il suo agire pastorale tra i giovani si devono fecondare a vicenda.

    Essere contenti

    Probabilmente il compito del prete oggi è difficile per le stesse ragioni per cui oggi è difficile educare alla vita. E tuttavia, la sua, non è una vita priva di gioie. Gioie disseminate qua e là, piccole magari, ma vere e intense: un'amicizia, la fiducia incredibile che cresce, i passi in avanti. Dunque non mentono, perché verificabili, le parole di quel canto noto a molti che dice: "e le gioie semplici sono le più belle... e alla fine le più grandi...".

    Comunione

    E infine alcune considerazioni. Se è vero che il prete si prende cura della sua comunità, non a titolo personale, ma in quanto fa parte di un presbiterio, di un collegio, allora deve entrare sempre più nello stile pastorale la ricerca del confronto anche se difficile.
    Non far crescere la comunicazione a proposito delle cose della pastorale, significa anche non far crescere la comune responsabilità. Il dialogo non potrebbe essere sostenuto da rapporti di amicizia che legano i pastori o da momenti di vita comune, in quelle forme e in quei modi che risultano più utili al servizio pastorale?
    E la collaborazione tra preti di uno stesso territorio, come lavoro e fatica fatti insieme, non potrebbe diventare anche il luogo di un arricchimento reciproco, dove ciascuno approfondendo e documentandosi a proposito di un aspetto della pastorale giovanile può mettere a frutto la sua conoscenza ed esperienza ponendola a servizio di tutti? Non è questo forse un modo per venire incontro alle infinite sollecitazioni che provengono dalla complessità della situazione? E non può essere per il prete un aiuto a non restare appiccicato a quella porzione di chiesa che gli è affidata, per sentirsi invece responsabile (insieme agli altri) di tutta la pastorale giovanile della Diocesi? Imparare il gioco di squadra per essere all'altezza della situazione richiede competenze, approfondimenti, esperienze che non è facile coltivare individualmente. Sarebbe comunque già questo un modo per valorizzare le salutari differenze che caratterizzano i preti impegnati nella pastorale giovanile, le diverse attitudini e sensibilità: non è che la differenza sia una ricchezza anche per la pastorale?

    Scelte

    Insomma, l'ultima parola non può essere la vertigine di fronte alla complessità. Occorre, piuttosto, rinunciare all'illusione prometeica di dominare la complessità e crescere invece tutti insieme nella capacità di attraversarla. Ma per attraversare un bosco occorre imboccare un sentiero e rinunciare ad altri: occorre decidere. E mentre si percorre quel sentiero che pastoralmente si è scelto, lo sguardo deve rimanere comunque panoramico. La decisione pastorale non riduce la complessità, ma la attraversa; anche per guarire quell'inconscio senso di onnipotenza che prende il prete (soprattutto all'inizio) e che a lungo andare diventa un peso grave da portare. Complici nel distillare questo atteggiamento le attese vocazionali del prete e le attese iperboliche o messianiche della cosiddetta “gente”.

    Essere preti

    Ci stiamo sempre più convincendo che l'identità del prete in pastorale giovanile (e del prete tout court) e la sua spiritualità specifica non possono essere preconfezionate, ma devono nascere, crescere e definirsi nella concretezza dell'impegno pastorale. Se il ministero entra in maniera sostanziale a definire la spiritualità del prete, per il giovane prete il ministero ha la figura specifica della pastorale giovanile nella sua comunità. Un'identità che non viene costruita prima, ma che è il risultato del concreto processo pastorale. Il pericolo più grande nel quale si incorre è lo scollamento tra l'esperienza di fede e le attività pastorali, tra la fede e le strutture o gli stili nei quali si produce la nostra cura. C'è anche per il prete giovane la fatica di legare insieme le cose, di unificare a partire dalla fede la complessità e frammentarietà del vissuto pastorale. E siccome lo stile non è un dettaglio insignificante, ma concorre a costruire la sostanza delle esperienze, allora gli atteggiamenti e le caratteristiche che guidano l'agire pastorale sono parte della spiritualità. E lo stile si costruisce mediante decisioni personali e pastorali.
    A questo punto, finalmente direte, ci vorrebbe una conclusione, che però non c'è. Sarebbe presuntuoso visto l'andamento rabdomantico della riflessione. E poi perché sono rimandate al cammino di ciascuno di cui s’è detto diffusamente della sua importanza. Lì, nei passi quotidiani, continuamente posti fra la preghiera davanti al Signore e i volti delle persone che incontriamo, ognuno può trovare lumi di senso, ma anche stili di vita che giorno per giorno costruiscono la propria identità di prete.


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