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    Consum(m)o, ergo sum



    I temi negati dell'educazione /17

    L'animazione per una valutazione etica e antropologia del consumo

    Mario Pollo

    (NPG 2015-05-52)


    L’economia del mondo globale è fondata sui consumi e sulla loro incessante espansione. Infatti, nei nostri sistemi sociali un importante segno della buona salute dell’economia di un paese è dato dalla presenza di elevati livelli di consumo. Paradossalmente, il risparmiare, il limitarsi ai consumi essenziali è visto come un danno per il sistema economico e, quindi, come un comportamento disfunzionale, non conforme all’interesse collettivo pubblico.
    Questa cultura sociale ed economica appare dominante e le critiche a quello che era definito “consumismo”, in voga due o tre decenni fa, non solo sono scomparse ma, addirittura, sembra che non siano mai esistite, talmente appaiono strane o addirittura devianti.

    Il consumo distruttivo

    Eppure l’ideologia che è alla base dell’economia fondata sul consumo ha degli effetti distruttivi sull’umano e sui suoi percorsi di formazione che, probabilmente, sono in qualche modo allusi dal significato del verbo “consumare” e del sostantivo “consumo”. Infatti, secondo il grande irripetibile dizionario del Tommaseo, il significato dominante del verbo consumare è: «togliere l’essere, distruggere, ridurre al niente». Il Tommaseo in questa definizione fa riferimento a una delle due etimologie del verbo consumare, quella del latino consumere: spendere, ridurre al nulla. Come si vedrà più avanti vi è una seconda etimologia che fa, invece, riferimento al latino consummo.
    Il significato indicato come dominante indica che quando l’uomo consuma qualcosa, inevitabilmente lo distrugge, gli toglie l’essere e lo riduce al niente. Questo fatto è ben illustrato dai consumi alimentari in cui l’uomo per nutrirsi è costretto a distruggere il cibo trasformandolo in materia/energia del suo corpo e in scarti.
    Nel consumo alimentare è centrale il bisogno e il desiderio del consumatore e, quindi, gli oggetti che lo soddisfano sono totalmente funzionali a questa soddisfazione. Questo modello nella società contemporanea, oltre che nel consumo alimentare, è presente anche nella risposta ad altri bisogni e desideri umani, materiali e immateriali. Il vecchio e desueto termine “consumismo” indicava, tra l’altro, proprio l’estensione del modello “distruttivo” del consumo alimentare alla risposta a nuovi bisogni, prodotti dal mercato, e a vecchi bisogni che precedentemente non erano soddisfatti attraverso il consumo. Questo perché la logica del consumo ha invaso spazi esistenziali, sociali e individuali, che un tempo erano estranei all’economia di mercato.
    Un esempio di questa “invasione” è la tendenza delle moderne società postindustriali a trasformare l’attività per sua natura più gratuita, libera e spontanea, il gioco e in genere le attività ludiche, in un consumo acquistabile. Questo ha fatto sì che il gioco assumesse un ruolo parallelo a quello della produzione industriale, all’interno dell’area economica del cosiddetto “terziario avanzato”, che a partire dalla “new economy” ha assunto un ruolo sempre più rilevante.
    Occorre tenere presente che la new economy ha rappresentato una trasformazione non solo economica ma antropologica.
    Questa trasformazione è stata prodotta dall’avvento di un capitalismo centrato sulla mercificazione del divertimento e delle risorse culturali (arti, feste, sagre, movimenti sociali, pratiche spirituali, impegno civile) che divengono un intrattenimento individuale a pagamento.
    Alcuni osservatori ritengono che la produzione culturale rappresenti la fase finale del modo di vita capitalistico, il cui obiettivo è quello di sottoporre una parte sempre più grande dell’esperienza umana al dominio della sfera economica.
    Il viaggio del capitalismo, cominciato con la mercificazione dello spazio e della materia, si concluderà con la mercificazione del tempo e, quindi, della durata della vita delle persone.
    Questo sta avvenendo anche a causa dell’introduzione delle macchine intelligenti che si prevede ridurranno nel 2050 gli occupati nell’agricoltura, nell’industria e nei servizi tradizionali al 5% della popolazione adulta.
    Occorre tenere conto, a questo proposito, che già oggi, nelle società economicamente più sviluppate, la gente spende per consumare esperienze culturali o di divertimento quasi quanto spende per il consumo di manufatti e servizi di base.
    Lo spostamento del mercato dalla produzione industriale a quello dei prodotti culturali, in cui il gioco e il divertimento rappresentano la quota più rilevante, indica con chiarezza che è la vita delle persone che sta divenendo a tutti gli effetti mercato e, quindi, oggetto di consumo.
    Non per nulla nel mondo degli affari qualche anno fa è comparsa una nuova parola d’ordine: lifetime value (LTV) del cliente, che è la misura teorica di quanto un essere umano può valere se la sua esistenza, per l’intera sua durata, viene trasformata in merce e sottomessa alla sfera commerciale.
    In questa nuova economia, l’accesso a molte esperienze e risorse culturali di cui si nutre l’esistenza psicologica delle persone potrà avvenire solo a pagamento. Si può dire che la persona acquisterà, e perciò consumerà la propria vita in minuscoli frammenti dotati di valore commerciale. La mercificazione degli aspetti culturali e immateriali della vita umana e la loro trasformazione in oggetti di consumo, sta accelerando la creazione di un sistema socioeconomico, in cui i tradizionali rapporti sociali tendono ad essere sostituiti da nuovi rapporti basati sullo scambio economico.
    Lo scenario, da incubo a dire il vero, è quello di un sistema sociale in cui quasi tutte le attività al di fuori dell’ambito familiare diventeranno esperienze di consumo a pagamento, in cui la reciprocità prodotta dalla solidarietà sociale, dall’empatia e dalla fiducia sarà sostituita da quella fondata su rapporti contrattuali tra produttore e consumatore. In altre parole, questo significa che le persone sempre più spesso acquisteranno il tempo degli altri per ottenere apprendimento, divertimento, assistenza e cura.
    Tuttavia, chi spinge in questa direzione l’economia non sembra essere consapevole che quando la vita diviene un’esperienza di consumo a pagamento, la cultura si atrofizza e muore, lasciando che sia solo l’economia, i rapporti economici di scambio, a fungere da collante della vita sociale. I primi ad andare in crisi saranno i legami comunitari e le persone si troveranno, di conseguenza, ad affrontare il proprio progetto di vita da sole e il sostegno degli altri necessario alla sua realizzazione, lo dovranno acquistare come un qualsiasi bene di consumo.
    In questa società fondata sul consumo si è sviluppato anche una sorta di ethos infantilistico.
    Barber afferma che «le sette età dell’uomo shakespeariano rischiano di essere spazzate via da una puerilità che dura tutta la vita» e ricorda che nel 2004 il Webster’s American Dictionary ha proposto la parola adultescent (neologismo coniato incrociando adult e adolescent) come parola dell’anno. Sembra in atto dunque in quasi tutti i paesi economicamente più sviluppati il dissolvimento della transizione evolutiva che dall’infanzia conduce all’adultità a causa del dominio di un ethos infantilistico indotto dalle esigenze di un’economia fondata sul consumo in un mercato globale. Tale ethos che affligge gli adulti e che fonda le loro aspettative nei confronti della vita ha origine nell’infanzia, laddove l’educazione del bambino è finalizzata, invece che a favorire la sua crescita sociale, intellettuale e spirituale, ad abilitarlo al consumo. Tutto questo ha all’origine le esigenze del mercato dei consumi perché in un mondo con troppi prodotti e compratori in numero insufficiente, i bambini diventano consumatori preziosi. Abilitati al consumo precocemente «gli adulti che invecchiano rimangono giovani consumatori per tutta la vita, gli “uomini bambini”, mentre bambini e preadolescenti vengono trasformati in consumatori adulti».
    L’ethos infantilistico ha degli effetti disastrosi sul senso civico e sulla capacità di assunzione di responsabilità da parte degli adulti e ciò rischia di mettere in crisi lo stesso fondamento della cittadinanza democratica.

    Il consumo costruttivo

    Come prima detto, il verbo “consumare” oltre a consumere ha una seconda radice latina: consummo, il cui significato, secondo il Tommaseo, è: condurre al sommo o compire; o anche: dare perfezione e compimento, condurre a fine. Questo è, ad esempio, il significato di “consumare il sacrificio della messa” oppure “consumare il matrimonio”.
    Quest’altro significato consente l’individuazione del senso di un’azione educativa che si svolga nel dominio del consumo. Infatti, se si facesse riferimento solo al primo significato del verbo consumare, l’educazione al consumo si potrebbe esaurire in una sorta di didattica finalizzata a rendere i giovani consumatori avveduti, efficaci ed eticamente corretti.
    Programmi educativi di questo tipo esistono da tempo, come quelli, ad esempio, definiti: educazione al consumo responsabile.
    L’animazione culturale, pur apprezzando queste forme di educazione al consumo, ritiene che questa debba mirare più in alto, inscrivendola nell’abilitazione del giovane a condurre a compimento le proprie azioni, volte sì alla soddisfazione dei suoi bisogni e desideri, ma orientate verso un fine che consenta alla sua vita di dispiegarsi nella pienezza. E questo sia quando agisce rispondendo ai propri bisogni e desideri soggettivi, sia quando agisce aderendo alle richieste di altre persone, del gruppo sociale, dell’organizzazione, della società in cui vive.
    Questo obiettivo “alto” dell’educazione al consumo può essere considerato una declinazione dell’obiettivo generale dell’animazione che, come è noto, è semplicemente quello di abilitare il giovane a costruire se stesso, all’interno dell’avventura di senso, che dall’origine tesse di sé la presenza dell’uomo nel mondo. Per raggiungere questo obiettivo l’animazione vuole aiutare il giovane a scoprire i tesori di senso che sono nascosti dalla polvere dell’abitudine, dei conformismi e delle paure profonde nella vita quotidiana. Questa liberazione può avvenire, però, solo attraverso la creatività prodotta dalla conquista di una coscienza emancipata dalla dipendenza da quelle «[…] forze istintuali della vita, mostri del profondo, che incessantemente si divorano, si generano e si combattono» (E. Harding) dietro la sua rispettabile facciata, il suo disciplinato ordine morale, le sue buone intenzioni.
    Con un’immagine si può dire che la liberazione creativa del quotidiano nasce quando la persona combatte vittoriosamente contro il drago e libera la prigioniera, o scopre il tesoro, che il drago custodiva nel suo antro.
    Occorre ricordare che il drago è il simbolo «[…] delle forze impersonali presenti nel profondo della psiche umana, che nutrono e sorreggono, oppure inghiottono e distruggono, la debole e indifesa coscienza dell’uomo» (E. Harding).
    La lotta contro il drago avviene nell’uomo, oltre che nell’infanzia e nella pubertà, tutte le volte che è necessario un riorientamento della coscienza per affrontare situazioni esistenziali nuove e diverse. La prigioniera, oltre che essere una immagine dell’anima, è anche la rappresentazione simbolica del nuovo, la cui liberazione rende possibile il progresso e lo sviluppo della condizione umana.
    L’uomo, se vuole avere un approccio creativo con la vita e se vuole continuamente costruire se stesso, deve periodicamente lottare contro il drago. La battaglia contro il drago non è vinta una volta per tutte nell’adolescenza, ma prosegue per tutta la vita. Le persone che smettono di combattere il drago, perché credono di aver raggiunto irreversibilmente la maturità cosciente, rischiano di regredire, oppure, più comunemente, di avere un atteggiamento passivo, acritico e conservatore nei confronti della vita.
    L’educazione al consumo è un elemento importante per sviluppare nelle nuove generazioni la capacità di lottare contro il drago, perché li aiuta a superare le sottili dipendenze che li imprigionano nel consumismo, a sviluppare la loro autonomia riappropriandosi del progetto di sé e a ridurre gli effetti “distruttivi” e “infantilizzanti” del loro consumare.
    Per prima cosa è necessario aiutare i ragazzi a comprendere quali sono i valori che veicolano gli oggetti materiali e immateriali che consumano. Infatti, ogni oggetto possiede una ben precisa antropologia, o almeno una ideologia, che in qualche modo prefigura, ponendosi come a priori, il mondo e l’uomo che attraverso il suo consumo dovrebbe contribuire a formare.
    Infatti, chi progetta, coltiva, costruisce e commercia un oggetto è portatore, non importa se consapevolmente o inconsapevolmente, di una prefigurazione del mondo quale esiste e dovrà essere, e di una ben definita concezione dell’uomo che lo abita o dovrà abitarlo.
    Questo significa che ogni oggetto di consumo sviluppa la propria azione nei confronti della realtà almeno a due livelli: l’uno esplicito, attraverso gli effetti concreti, pratici che il suo consumo produce, e uno implicito o latente, attraverso la visione di uomo e di vita che esso veicola.
    Solitamente, però, quando si valuta un qualsiasi consumo si tiene conto solamente del primo livello, ovvero del grado di efficacia che esso manifesta nel rispondere ai bisogni e/o ai desideri del consumatore, e non si tiene in alcun conto il fatto che quel consumo possieda anche una dimensione etica.
    Tutto questo rende evidente come sia necessario che l’educazione offra al giovane i criteri per una valutazione di natura etica e antropologica dei consumi che utilizza nella propria vita quotidiana. Una valutazione che completi quella esclusivamente operativa e economica che abitualmente gli viene proposta relativamente agli stessi consumi.
    Questa educazione dovrebbe consentire al giovane di evitare di cadere in quella situazione, abbastanza comune e diffusa, in cui le persone, attraverso i loro consumi, veicolano nella loro vita quotidiana valori e visioni dell’uomo e del mondo radicalmente contrarie o perlomeno diverse da quelle che a livello cosciente professano.
    La conquista del dominio cosciente di sé e della propria vita passa, perciò, anche attraverso l’acquisizione della capacità di una riflessione etica e antropologica intorno ai consumi che tessono il mondo quotidiano delle persone.
    Per valutare la dimensione etica di un consumo si possono utilizzare tre criteri.
    Il primo criterio per valutare un consumo nasce dal confronto di due morali: quella dei principi e quella dei risultati. Per valutare positivamente consumo, ad esempio, non basta che esso sia giudicato buono, utile, positivo, ecc., sulla base di un qualche sistema astratto di principi; occorre anche che esso dimostri la sua utilità, la sua bontà nella vita quotidiana. Infatti, è solo il consumo concreto che è in grado di far emergere gli eventuali effetti secondari di cui è eventualmente portatore.
    Il secondo punto di vista da cui esplorare la dimensione etica di un consumo è quello del valore. Infatti ogni consumo possiede un valore. Quando si parla di valori non si fa riferimento alle astrazioni elaborate dalla riflessione filosofica, come i concetti di giustizia, eguaglianza, ecc. Si fa riferimento, invece, alle «valorizzazioni» concrete, così come possono risultare dagli atteggiamenti assunti dagli uomini nei confronti degli altri uomini, nel lavoro, in tema di proprietà, di potere, ecc. È il valore che rende concreto, operante un consumo a livello di sistemi sociale e individuale. È il valore che seleziona, tra tutti i possibili consumi, quelli che avranno la ventura di esistere e operare realmente; la selezione di questi consumi avviene, di solito, nella direzione del consolidamento e della espansione della cultura sociale dominante.
    Si stabilisce un circolo retroattivo, una sorta di prigione senza sbarre in cui sembrerebbe che il sistema culturale dominante possa perpetuare eternamente se stesso. Per fortuna, questo processo retroattivo di stabilizzazione del sistema culturale viene spesso rotto dall’immissione, fortuita o prevista, di nuovi consumi e, quindi, di nuovi valori che sono in grado di modificare profondamente il sistema di valori esistenti.
    Occorre poi anche sottolineare come ogni consumo si possa considerare sempre un’arma a doppio taglio perché ognuno di essi manifesta sempre qualche effetto contrario a quello principale.
    Un terzo criterio di valutazione etica del consumo lo si deve ricercare nel rapporto esistente o meno tra i valori che esso esprime e i valori della cultura in cui avviene. Il sistema di valori in uso nella nostra società tende a rendere operanti consumi globali frutto delle tecniche più sofisticate. Basta osservare la guerra dichiarata dai burocrati della comunità europea ai prodotti alimentari tradizionali, perché la loro lavorazione non seguiva i dettami e gli standard delle tecnologie alimentari odierne, ma quelli antichi della tradizione locale a volte millenaria.
    È questo uno dei fenomeni sociali, forse il principale, che produce anomia in quanto aliena l’uomo dalla sua storia e quindi da se stesso. La globalizzazione può anche significare questa alienazione dell’uomo dal tempo della storia, dalla nootemporalità, e il suo imprigionamento all’interno del tempo spazializzato della sociotemporalità universale.
    Questo rende ancora più forte la proposta che la valutazione etica del consumo tenga conto del rapporto che esso instaura con la cultura e la storia delle persone che lo utilizzano.
    Sinteticamente si può affermare che, nell’acquisizione della cultura, è necessario offrire agli educandi la possibilità di cogliere la dimensione etica dei consumi che praticano. Animare vuol dire, perciò, anche rendere critica l’inculturazione, almeno per quanto riguarda i consumi.


    Note bibliografiche

    Barber B. R., Consumati. Da cittadini a clienti, Einaudi, Torino 2010.
    Harding E., L’energia psichica. La sua fonte e le sue trasformazioni, Astrolabio, Roma 1977.
    Jones D. e Klein D., Man-Child: A Study of the Infantilization of Man, Mc Graw-Hill, New York 1970.
    Neugarten B. L., Age Distinctions and Their Social Functions, in Chicago Kent Law Review, LVII, pp.809-825.
    Pecora N. O., The Business of Children’s Entertainment, Guilford Press, New York 1988.


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